Rivista Anarchica Online


dibattito

Lavoro senza rete
di Maria Matteo

La parabola amara del sindacalismo di base.

 

Sono le sette e mezza di sera ma le luci dei freni tracciano una lunga linea rossa di auto accodate. Solo un anno fa a questa stessa ora il traffico cominciava a diradare: oggi non è più così. I lavoratori rientrano a casa più tardi, perché l’orario si è allungato. Niente di scritto o concordato ma quelli che un lavoro ce l’hanno trottano al ritmo del padrone, perché la crisi brucia, la paura domina e tanti chinano il capo.
Ai giardini quest’estate, durante una serata antirazzista, abbiamo incontrato un ragazzo marocchino da 15 anni in Italia. Ci ha raccontato di quand’era clandestino e in nero ma lavorava, adesso ha il permesso ma teme di perderlo perché ormai da tre mesi non batte chiodo. A ottobre un altro marocchino, 43 anni la maggior parte dei quali passati in Italia, racconta dei suoi tre figli e del lavoro che non ha più: l’hanno lasciato a terra dopo 10 anni. Adesso scarica al mercato per 3 euro l’ora. Finché non lo pescano perché è diventato illegale.
Altro marocchino, altra storia. Nato in Italia, a 18 anni, come tanti coetanei pensava all’università, al futuro, ma la realtà gli ha mangiato le illusioni. Quando diventi maggiorenne se non hai un lavoro diventi clandestino e ciao domani. Allora di corsa, contro il tempo, per acchiappare un lavoro qualsiasi, pur di rimanere “libero” di restare qui.
Se agli immigrati va male, perché le leggi ne ricattano pesantemente la vita, agli altri non va certo meglio.
Basta guardarsi attorno, ascoltare le storie di chi abbiamo vicino.
C’è Massi che a maggio è stato licenziato e campa con i soldi strappati dall’avvocato.
Aldo per sei mesi è stato affittato dalla sua ditta ad un’altra: lui ha accettato perché l’alternativa era un incerto part time, di quelli che con due figli non ce la fai proprio. In questi sei mesi le otto ore sono diventate un miraggio: all’ora di uscire il capo gli butta sul tavolo altro lavoro e lui resta lì mentre gli altri escono.
La fila dei cassaintegrati si allunga ogni giorno: Roby va in cassa una settimana su quattro, Emi un giorno a settimana: a fine mese, in busta, una bella fetta di salario in meno.

Classe/condizione/coscienza

È il 31 ottobre. Siamo in auto diretti a Condove per una manifestazione contro il TAV e si parla di tante cose. Poi, come spesso accade di questi tempi, affiorano le preoccupazioni della vita quotidiana, del lavoro che ti mangia la vita e ora nemmeno ti fa più mangiare.
Marco ha 21 anni e lavora da quando ne aveva 14. Sempre in nero, senza tutele, con orari da paura. Dalla provincia di Salerno ha dovuto andarsene quasi subito, perché lì di prospettive non ne aveva nessuna. Dopo vari giri è approdato a Torino, dove sperava che le cose fossero diverse, ma ha presto scoperto che la musica era la stessa: il faticare era sempre nero, pericoloso, malpagato. E qualche volta il padrone nemmeno paga, sicuro di farla franca. Gli tocca alzare la voce, minacciare una vertenza per avere le briciole di quello che gli spetta. Ora fa il giardiniere ma prima ha fatto di tutto: una vita precaria.
Valentina di anni ne ha 33, una laurea in filosofia, il dubbio tra un dottorato affascinante ma lontano e il bisogno di sbarcare il lunario, le ripetizioni di greco, il tempo sospeso della precaria della scuola, le traduzioni in nero per un editore che promette ma non paga. Poi la minaccia dell’azione legale e i soldi che, quasi fossero elemosina, finalmente arrivano.
Mondi un tempo lontani quelli di Marco e Valentina, oggi arrivano a sfiorarsi, in una condizione di lavoro che assottiglia la distanza sociale tra il giovane operaio e la lavoratrice intellettuale. Naturalmente, nel mezzo ci stanno – ancora – le reti familiari e relazionali che all’una hanno offerto chance di vita ben diverse da quelle vissute dall’altro. Ma, al nocciolo, la loro relazione con chi campa sul loro lavoro, il padrone, diviene del tutto simile.

Di lavoro si muore ogni giorno

Queste storie, qui appena abbozzate, riflettono quelle di tanti altri, magari con più difficoltà a raccontarsele, perché la consapevolezza del tritacarne sociale è più acuta in chi è avvezzo alla politica e alla lotta sociale.
In questo deserto la frammentazione e l’isolamento la fanno facile per i padroni: il lessico stesso della lotta di classe assume un sapore desueto per i giovani compagni che si affacciano alla vita e alla lotta.
Gli operai Indesit che sfilano con il tricolore, gridando “chi non salta polacco è” sono lo specchio di una situazione in cui la solidarietà di classe e l’internazionalismo sono retaggi dimenticati di un passato sepolto.
Eppure lo sfruttamento è oggi peggiore che per i nostri padri. 8 operai che diventano torce di carne in una notte di dicembre a Torino suscitano orrore perché muoiono male e muoiono insieme. Ma di lavoro si muore ogni giorno. In silenzio. Il processo ai dirigenti ThyssenKrupp, nonostante i testimoni con l’amnesia, procede stancamente, spettacolo ormai per pochi. Quelle fiamme non bruciano più.
Il viaggiatore rimasto isolato dal mondo che facesse ritorno dopo vent’anni alla barbarie della civiltà, resterebbe a bocca aperta. Non tanto per quello che i padroni fanno ma per quello che gli sfruttati si lasciano fare.
I padroni in questi anni hanno svolto il loro mestiere: pezzo a pezzo si sono ripresi gli scampoli di libertà, sicurezza, reddito, garanzie che i lavoratori avevano grattato con le unghie e con i denti nei due decenni a cavallo tra gli anni ’60 e i ‘70.
Hanno scomposto i luoghi dove chi lavorava si incontrava e organizzava: hanno frantumato, esternalizzato, diversificato il lavoro, creando steccati fisici e normativi che rendono più complessa la lotta comune, più difficile la resistenza. Oggi sempre più disperata e senza prospettive. Gli operai più combattivi occupano le fabbriche che chiudono per strappare qualche soldo: a volte ci riescono, a volte no. I terreni sono in affitto, il capannone pure, le macchine sono in franchising, stoccaggio non ce n’è. Prendere lor signori per il bavero in queste condizioni – senza robuste reti di solidarietà tra lavoratori e nel territorio – diventa impresa ardua.
Prevalgono le scelte individuali, “l’io speriamo che me la cavo”, la corsa dall’avvocato per recuperare il recuperabile.
Il quadro normativo è peggiorato contestualmente all’affievolirsi dello scontro di classe. Leggi che limitano la possibilità di scioperare, la rappresentanza sindacale, la tutela della salute, le garanzie per gli anziani si sono succedute, anno dopo anno, a sancire il fatto che le norme sono la rappresentazione ritualizzata delle relazioni sociali reali. Non c’è “diritto” che non sia quello del più forte. Il precariato a vita, il lavoro in affitto, le partite IVA sono incubi realizzati del nostro oggi. Voluti dai governi di destra come da quelli di sinistra, assolutamente speculari nell’affondo simmetrico a chi vive del proprio lavoro.
La trasformazione del mercato del lavoro è stata sancita dalla legge 196/97 (pacchetto Treu), che introduceva il lavoro interinale e legittimava le co.co.co., e dalla legge 30/03 (legge Biagi), che ha messo in scena una folla di contratti “atipici” e liberalizzato l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro. Precarietà e caporalato legali.
E non è ancora finita. Quest’autunno ci prepara gabbie salariali e privatizzazione degli ammortizzatori, che potranno essere gestiti anche da enti costituiti ad hoc da sindacati e padronato. Sinora hanno firmato CISL e UIL ma come credere che la CGIL possa farsi sfuggire un’occasione tanto ghiotta?

Dal compromesso socialdemocratico alla cogestione degli ammortizzatori

La propensione genetica a farsi Stato dei maggiori sindacati italiani, Cgil, Cisl, Uil, pur nettamente inscritta nel loro DNA, si accentua alla boa tra gli anni ’70 e ’80. L’autorganizzazione operaia, l’autonomia reale dei soggetti sociali che avevano segnato il ritmo tra il ’69 e il ’79 cede il passo alla vischiosa palude degli anni ’80. Tra poco più di un anno saranno passati 30 anni da quel settembre dei 35 giorni Fiat, che si chiuse con la resa del sindacato e una sconfitta che marchierà a fuoco i corpi e le coscienze di un’intera città. Forse di un intero paese.
Il sindacalismo di stato, la cui natura è ben dimostrata dalla continua osmosi dei suoi maggiori dirigenti a cariche direttive nelle aziende pubbliche, smessa la veste di regolatore del conflitto sociale che ne aveva caratterizzato l’azione sin dal secondo dopoguerra, di fatto si è trasformato in azienda di servizi ed interfaccia dell’apparato statale verso i lavoratori.
Gli accordi del luglio 1993 su contrattazione, questione salariale e rappresentanza sono l’ultima fase di un processo cominciato molto tempo prima.
Le relazioni tra stato, padroni, CGIL, CISL e UIL vengono ridefinite e prende l’avvio la politica di concertazione. Il sindacalismo di Stato è tale perché sostituisce un chiaro interesse di parte, quello delle classi sfruttate, con l’interesse “generale”, ben descritto dalla formula della “responsabilità verso il Paese”. Si va dal “compromesso socialdemocratico” alla cogestione dei meccanismi di controllo della conflittualità del lavoro. Il sindacato, che pure era stato determinante nel sopire le spinte anticapitaliste in cambio di diritti, garanzie, salario diviene elemento decisivo nell’ammortizzazione di ogni forma di conflitto foss’anche di mera difesa delle briciole di libertà e reddito strappate dalle lotte dei lavoratori.
La vicenda dei fondi pensione ben esemplifica l’attitudine dei sindacati concertativi a porsi come veri collettori e distributori di risorse economiche.
I sindacati “di stato” hanno allargato sempre più la loro sfera di influenza e il loro ruolo di mediatori e narcotizzatori del conflitto sociale: basti un’occhiata alla gestione delle commissioni di conciliazione di arbitrato o alla stipula di accordi sulle causali legittime del ricorso al tempo determinato.
Una parabola che pare inarrestabile, nonostante nel cuore del sindacato stesso vi siano sacche di resistenza. D’altro canto la cosiddetta anomalia Fiom c’è perché tra i metalmeccanici la resistenza alla normalizzazione è stata più forte. Ma, anche questa, è storia che sta giungendo al proprio, scontato, epilogo.

Parabola amara

In questo contesto la nascita e lo sviluppo di esperienze di sindacalismo indipendente suscitò grandi speranze. L’ormai dimenticata stagione dei bulloni, quando i lavoratori, dopo gli accordi del luglio ’93, accolsero gli oratori di Cgil, Cisl, Uil nelle varie piazze del Belpaese con tondini di ferro e ortaggi parve capace di estendere ad altre categorie l’esperienza dei Comitati di Base della scuola e delle ferrovie, che sin dalla seconda metà degli anni ’80 avevano dato filo da torcere a chi preparava tagli e ristrutturazioni.
I Comitati di Base – Cobas – diedero un segnale forte e chiaro al sindacalismo concertativo, allo stato e ai padroni ma purtroppo riuscirono solo ad arginare la marea che stava per abbattersi sulla scuola e sul trasporto ferroviario. Lo stato della scuola e il continuo stillicidio di incidenti lungo le linee ferroviarie la dicono lunga in merito.
I sindacati di base nascono o si rafforzano in questo periodo articolando una proposta di lavoro sindacale anticoncertativa, antiburocratica ed orizzontale.
Sin dall’inizio la frammentazione delle sigle, in alcuni casi anche la logica della cinghia di trasmissione tra organizzazioni politiche e sindacali, ne ridusse l’impatto e la capacità di mordere con efficacia l’avversario di classe.
Se per un po’ queste esperienze sono riuscite – quando meglio e quando peggio – a reggere sul piano del rifiuto della concertazione, la spinta a far vita ad un ambito sindacale orizzontale, non burocratico, fuori da prospettive asfitticamente neosocialdemocratiche si è presto esaurita.
I segni di un’involuzione burocratica si manifestano molto presto. Gruppi “dirigenti” inamovibili, che di congresso in congresso perpetuano se stessi, ne sono l’indice più evidente. I segretari del sindacalismo di base –in quanto a rotazione degli incarichi – fanno sembrare il PCUS di brezneviana memoria un’associazione libertaria.
Per non dire dei chiari segnali di subalternità nei confronti di formazioni politiche della sinistra riformista (Rifondazione, Verdi, Italia dei valori, Disobbedienti) e/o stalinista (Rete dei Comunisti, PdCI), sfociata talora in aperti appoggi politici ed elettorali. Le divisioni e le rivalità tra i diversi ceti burocratici creano fratture le cui ragioni risultano spesso incomprensibili per i lavoratori, spezzettando il sindacalismo di base e limitandone fortemente l’efficacia.
Della recente frattura all’interno della CUB, che pure ha assorbito energie forti in una lotta alla conquista dell’ultimo iscritto da parte delle diverse fazioni, la maggior parte dei lavoratori sa poco e nulla, pur manifestando preoccupazione per quello che, su un piano più complessivo, è avvertito come ulteriore indebolimento.
Il sindacalismo alternativo non è peraltro esente dal pantano statalista in cui affonda tradizionalmente il sindacalismo nostrano, finendo spesso schiacciato in una resistenza acritica all’erosione del welfare che non trova sbocchi se non nella ricerca di un rinnovato compromesso socialdemocratico. Esemplare in merito la difesa di sanità, scuola, trasporti statali, tout court equiparati a cosa pubblica.
L’obiettivo, qua e là emerso, di costruire ambiti sindacali che mettessero radicalmente in discussione il lungo processo di statalizzazione del movimento operaio, non si è mai tradotto in esperienza concreta.
Il sindacalismo di base, che pure rappresenta l’unica forma organizzativa dei lavoratori non schiacciata da una logica concertativa, attraversa oggi una crisi grave, della quale non si scorgono gli sbocchi. La stessa spinta unitaria, pur sostenuta con entusiasmo da assemblee di lavoratori, resta sullo sfondo, inattingibile da un sindacalismo dominato da un ceto neoburocratico preoccupato soprattutto della propria sopravvivenza.
Gli unici che potrebbero dare un segnale di inversione capace di rivitalizzare queste esperienze o di innescarne di nuove sono i lavoratori stessi, ma la frammentazione, la ricerca di soluzioni individuali, la paura del futuro stringono in una morsa rigida.
L’indebolirsi dello scontro sociale riduce talora il sindacalismo di base a mero patronato, tra uffici per i 730 e ricorso alle cause legali.
Se a ciò si aggiunge l’attitudine a firmare contratti indecenti e regolamenti liberticidi pur di mantenere l’accesso ai sempre più risicati diritti si ha la misura di un lento scivolamento nella sopravvivenza per la sopravvivenza. La struttura, feticcio intoccabile, diviene più importante degli scopi per cui è nata. E non basta a giustificare il tutto la debolezza del movimento di classe, perché chi fa sindacato, lavoratore tra i lavoratori, dovrebbe spingere in direzione opposta e contraria, non assecondare la risacca. Ma forse, ormai, la professionalizzazione del ruolo ha finito con il modificare l’indirizzo di chi lo svolge, creando uno staccato difficile da scardinare.

Anarchici, libertari, sindacalisti

Ampi settori dell’anarchismo sociale hanno partecipato con entusiasmo al percorso del sindacalismo di base, alternativo, autogestionario.
Sin dall’inizio non vi è stato un orientamento prevalente ma scelte diverse e concorrenti tra loro. L’ambizione di superare gli steccati tra le varie organizzazioni sindacali, tradottasi nel tentativo di creare ad un’area trasversale, per influenzare in senso libertario e antiburocratico le varie sigle dell’arcipelago di base, non ha avuto vita facile e non ha oltrepassato la boa degli anni ’90.
Gli anarchici non hanno fatto gioco di squadra e anziché influenzare il sindacalismo di base ne hanno assorbito le dinamiche di scontro fratricida, senza peraltro riuscire a bloccarne la deriva burocratica. D’altro canto lo scivolamento di alcuni nel ruolo professionale ha finito con l’assorbirli nei vari microapparati.
Lo scontro tra le varie organizzazioni sindacali finisce tristemente con il riprodursi pari pari tra gli anarchici.
Eppure, in un’epoca di crisi profonda della sinistra post-parlamentare, uscita con le ossa rotte dalla realpolitik governativa, spazi di intervento maggiori che in passato potrebbero aprirsi.
E gli anarchici potrebbero sfruttare il patrimonio di esperienza e credibilità accumulato in anni di lotte per sviluppare una vasta campagna antiburocratica nella consapevolezza che l’azione diretta, l’organizzazione orizzontale, il superamento delle pastoie legalitarie sono il terreno di coltura per il sedimentarsi di una sensibilità libertaria, radicalmente antistatale ed anticapitalista.
Oggi più che mai nei luoghi dello sfruttamento, là dove si sviluppano lotte sindacali o territoriali, occorre far riemergere con forza l’opzione libertaria, sostenendo lo sviluppo di forme di lotta e organizzazione fuori dai vincoli delle leggi vigenti, promovendo il mutuo appoggio e la solidarietà dal basso.
Meno facile che compilare 730.
Ma l’unica sfida che da anarchici e libertari valga la pena di raccogliere.

Maria Matteo