Rivista Anarchica Online


storia

L’Internazionale e la stampa borghese
di Massimo Ortalli

Come reagirono le diverse componenti del mondo politico e culturale italiani, quasi un secolo e mezzo fa, all’irrompere della Questione Sociale e al nuovo protagonismo delle classi subalterne? È questo il nucleo della relazione tenuta da Massimo Ortalli, dell’Archivio Storico della Federazione Anarchica Italiana, nell’abito del Convegno di studi tenutosi sabato 13 maggio scorso a Reggio Emilia per iniziativa della Federazione Anarchica Reggiana (FAI).

 

Scopo di questa relazione è documentare, attraverso il riferimento ad alcuni fra i libri e gli opuscoli pubblicati in Italia nei primi anni Settanta dell’Ottocento, come la società italiana abbia reagito, con significativo spessore anche se non sempre con la auspicata intelligenza, al sorgere dell’Internazionale e al prorompere della Questione Sociale. Mostrando così come la risposta non sia stata solo quella della repressione e della contrapposizione ma anche, a volte, quella della curiosità e della ricerca di comprensione.
Chiusa l’epoca risorgimentale, raggiunta l’Unità di Italia, sconfitta la reazione asburgica e borbonica, esautorato il papato che vede scomparire il suo millenario potere, nella rinnovata società italiana sono essenzialmente tre gli schieramenti che si giocano il controllo dell’azione politica: quello monarchico costituzionale, che vede nella prosecuzione della tradizione cavouriana la possibilità di fare dell’Italia un paese unito e moderno, anche se “inquinato” da scorie apertamente reazionarie che limitano l’incontro effettivo fra masse popolari e classe dirigente; quello democratico liberale, fortemente influenzato dal pensiero mazziniano e dal messaggio garibaldino, che vede nella nascita della Repubblica lo strumento di governo capace di dirigere uno sviluppo economico e culturale che possa stare al passo con l’Europa; quello cattolico, apparentemente sconfitto ma consapevole di poter sempre contare su un sentimento religioso diffuso e ubiquitario, e determinato a riguadagnare, se non sul piano temporale sicuramente su quello pastorale, il potere perduto dopo la breccia di Porta Pia.
Quello che ancora manca, che è clamorosamente assente dalla scena politica ed economica della nuova Italia, è il mondo del lavoro, rappresentato da quelle forze operaie e contadine che stanno acquistando una funzione e un protagonismo in precedenza impensabili: l’operaio, il bracciante, il modesto artigiano cominciano a occupare la scena sociale imponendo una presenza non più eludibile. Se si eccettua il radicamento popolare del movimento repubblicano in alcune zone d’Italia, nessuno di questi tre soggetti è effettivamente in grado di farsi interprete delle nuove esigenze di progresso ed emancipazione che emergono prepotentemente nella società: i moderati sono troppo indaffarati a occuparsi della politique politicienne e i loro interessi economici sono troppo contrastanti con i vecchi ed eterni bisogni dei lavoratori; il clero insiste su una concezione spirituale al cui interno prevalgono i valori della sottomissione e dell’accettazione dell’esistente - vostro sarà il regno dei cieli e quello della terra può aspettare - e nella quale la povertà è merito e non sofferenza; i democratici repubblicani, pur partecipando alla creazione delle prime società operaie e di mutuo soccorso, mostrandosi in tal modo più attenti alla nuova realtà, antepongono l’universo dei “doveri” morali a quello dei “diritti” materiali: l’etica mazziniana, fondata sul rigore e sulla necessità di una autorità superiore delegata a guidare il popolo verso il suo luminoso destino, determina le dinamiche dialettiche del repubblicanesimo, che non riesce così a farsi genuino interprete del mondo del lavoro.
Come si sa, l’Internazionalismo entra in contrasto, senza mediazione alcuna, con i primi due soggetti di cui dicevamo, infatti le pregiudiziali antimonarchica e anticlericale saranno sempre irrinunciabili e dirimenti nella storia dell’Internazionalismo e di tutte le componenti, anche le più moderate, del socialismo. Rispetto al mazzinianesimo agisce invece una forte tensione dialettica, che si esprime sia nel confronto, spesso molto aspro, delle idee, sia nello scontro fisico, soprattutto là dove la partecipazione emotiva ai nuovi ideali è particolarmente sentita. Sintomo, a mio parere, non di un sostanziale distacco quanto di una dialettica esasperata perché agente all’interno dello stesso ambito. Per chiarirci, col prete o con il reazionario non c’è confronto, ma totale distanza e lotta senza quartiere; con il repubblicano l’animo si accende perché i seguaci di Bakunin e Mazzini sono entrambi convinti di essere loro i veri depositari degli interessi popolari.

Bigotta moralità imperante

La posizione della Chiesa non sta solo nella scontata condanna del materialismo ateo che propugnano gli Internazionalisti, in compagnia, del resto, di buona parte dello schieramento liberale e conservatore aderente alla massoneria, ma anche nella valutazione che il sovvertimento istituzionale porta al generale sovvertimento di regole e valori universali. Insomma, che sia monarchia o repubblica, da preservare è il diritto dell’autorità costituita di esercitare il proprio potere, in quanto discendenza e manifestazione della volontà divina. Di fronte al pericolo dell’anarchia sociale, la Chiesa, pur di evitare il collasso della società in quanto manifestazione di un ordine prestabilito, è addirittura disposto a farsi puntello del mantenimento dello status quo.
Naturalmente la profonda avversione clericale per gli Internazionalisti nasce anche dalla loro affermazione di valori morali e materiali antitetici a quelli della Chiesa. Infatti l’attacco frontale che gli anarchici muovono alla proprietà, alla famiglia e alla bigotta moralità imperante diventa un inaccettabile tentativo di sovvertire l’unico caposaldo rimasto all’autorità papale, vale a dire il dettato morale. Quindi non si tratterà soltanto del “vecchio dissidio tra i ricchi e i poveri” di cui parla il gesuita Carlo Maria Curci (1), una delle massime autorità teologiche del tempo, ma di qualcosa che, agli occhi del prete, travalica la Questione sociale per farsi questione morale. Come scrive Francesco Russo Preiti, in un opuscolo particolarmente fortunato nell’ambito della libellistica clericale dedicata all’Internazionale perché generosamente distribuito gratis (2):

“L’essere tutti uguali al cospetto della legge, è una legge fondamentale dello Stato: ma la pretensione di essere tutti realmente uguali, è una febbre malefica, che affetta la moderna società, e che finirà per metterla in serii pericoli, laddove raggiungerà l’acme desiderato. Il servo vuol divenire padrone, il povero ricco, nobile il plebeo, il garzone principale”.

Insomma, restare al proprio posto, soprattutto quando è quello dell’umile, è un dovere sociale che non va messo in discussione. E perché il tarlo di queste idee non si diffonda, occorre fermare l’Internazionale sul nascere:

“Si perseguiti quindi nel suo falso l’Internazionale, se pur ne ha, e se falsa, si sprezzi, perché il falso attecchisce dappertutto, ma per poco tempo E se poi l’Internazionale è quella che si mostrò in Parigi, e che si mostra ora nella Spagna, che sconta dei padri suoi e della Inquisizione i delitti commessi, allora per essa non bisogna impensierirci; e se il programma degli scamiciati, che Dio non ammette, non ammette la proprietà, e nemmeno la famiglia, è il programma dell’Internazionale, allora bisogna non curarla, perché questa società porta con se l’elemento distruttivo, ed è un veleno la sostanza della sua stessa istituzione.”

Più articolato, indubbiamente, e di maggior spessore intellettuale l’opera di Curci che ripropone, già nel titolo del paragrafo “la Carità nei ricchi e la Rassegnazione nei poveri”, la “maniera cristiana” per comporre “l’antagonismo tra i ricchi e i poveri”. Fin dalle prime pagine, del resto, si capisce come la pensi e dove individui il tarlo minaccioso dell’integrità della società:

“Ma questa nuova lega e compagnia, rannodandosi al Socialismo e al Comunismo, e per mezzo di questi ad un dissidio più vecchio nel mondo e più vasto, può dirsi una sintesi di tutto ciò che, da presso un secolo, si è adoperato in Europa a di struggimento degli ordini cristiani, sopra i quali le nazioni civili erano stabilite e da oltre dieci secoli riposavano”.

E in effetti doveva proprio essere così se, dopo lo spettacolo tremendo offerto dalla Comune, dove per la prima volta il proletariato prendeva in mano le redini della sua esistenza,

“ora, nell’Internazionale le classi operaie dicono essere venuta la loro volta; la signoria del mondo appartenere ad esse; doversi ritirare dalla scena la Borghesia, da loro qualificata, e forse non a torto, per decrepita ed inverminita”.

Si fa sentire la paura dell’esperimento comunardo, che ha mostrato quale può essere la forza sovvertitrice delle classi lavoratrici quando prendono in mano il loro destino. E la volontà espropriatrice degli internazionalisti diventa fonte di terrore anche per il clericale preoccupato della possibile espropriazione dei beni ecclesiastici.

Ci pensa il padrone

Comunque, visto che occorre affrontare il toro per le corna, e che bisogna cercare di risolvere la questione che pur se “non creata ma rincrudita dall’Internazionale, consiste nel non si poter trovare modo da vivere in pace colla sterminata turba dei lavoratori, impossibili a contentarsi e più impossibili a contenersi”, l’unica via è rifarsi alle armi del cristianesimo, ovvero, come si è detto, Carità e Rassegnazione:

“se il ricco si attiene fedelmente agli insegnamenti del Vangelo, allora la ricchezza, lungi dall’essergli impedimento, gli sarà nobile e consolante agevolezza alla salute; e allora essa rifluirà quasi tutta a sovvenimento dei poveri, i quali benediranno Dio di averlo messo al mondo”.

È chiaro, però, che se i “poveri” non avranno, come da aspettarsi, alcuna intenzione di rassegnarsi e di benedire il ricco per essere venuto al mondo, il bel castello del gesuita viene miserevolmente a cadere. In ogni modo, in questa auspicata società nella quale il ricco è buono e il povero rassegnato,

“sappiatemi dire se vi potrà sorgere l’Antagonismo, di che trattiamo, fra ricchi e poveri. Ve ne sarà qualche alito in pochi cuori corrotti, ma universale, ma furioso quale dev’essere per figliare una Internazionale: oh, codesto è impossibile! E donde dovrebbe quello procedere? Dai ricchi no, perché essi, contenti del fatto loro, debbono essere molto soddisfatti di trovare negli altri docilità e pazienza, sicché essi facciano quel che vogliono dei beni del mondo. Dai poveri molto meno, i quali né invidiano le ricchezze né le agognano, e benché vedano che nella distribuzione delle umane sorti ad essi n’è toccata la parte più dura, sono persuasi tuttavia quella essere per loro la più utile e dall’esserne stati un po’ male di qua [cioè in terra] si confidano di averne a stare di là [e cioè in paradiso] molto meglio”.

Sembra incredibile, eppure era proprio in base a simili argomentazioni di uno fra i più autorevoli intellettuali cattolici del tempo, che la Chiesa pensava di creare un argine alle idee di emancipazione e redenzione sociale che stavano prepotentemente imponendosi nella società e delle quali gli Internazionalisti, anche se ancora sparuta minoranza, erano i più fervidi propugnatori.
Di altro tenore, indubbiamente, la critica all’Internazionale nel campo borghese, dove si cerca, con più realismo e minor dogmatismo, di comprenderne appieno i postulati per porvi rimedio con un timido ma inevitabile inizio di politica riformatrice. In un libro che ebbe notevole fortuna, Giacomo Raimondi (3), appartenente allo schieramento liberal democratico fedele alla monarchia, dopo aver riconosciuto che

“anche noi abbiamo creduto e tuttavia crediamo che il miglioramento morale, politico e sociale del quarto stato, della classe operaia, sia un’opera santa che caratterizza un’epoca, e che, se compiuta, ne immortalizza il ricordo. Anche noi abbiamo creduto e tuttavia crediamo che, nell’ordine sociale attuale, vi sono molte ingiustizie da correggere, molti principi da affermare, molti diritti da evocare a nuova vita”

da buon riformatore convinto dell’intervento dello Stato, si affretta a temperare queste sue affermazioni scrivendo che

“noi non abbiamo mai creduto che i mezzi per raggiungere questi scopi fossero racchiusi nell’agitazione sorda delle masse ignoranti, nella negazione dei diritti naturali, nella oppressione di tutte quante le classi non appartenenti al quarto stato. Noi non abbiamo mai creduto che gli errori e le colpe dell’attuale ordine sociale si potessero togliere di mezzo colla sostituzione di errori e di colpe cento volte peggiori; né che fosse utile associarsi in un vasto sodalizio per intimare alla società moderna il suicidio, o per minacciarla di tanta jattura”.

Come si capisce, finché a migliorare le sorti dell’operaio ci pensa solo il padrone, tutto bene, ma se l’operaio che “tutto può”, cerca di prendere in mano il proprio destino, allora non ci siamo, allora bisogna impedire che la società si suicidi affidandosi alla direzione e al giudizio delle “masse ignoranti”.

“Cosa impossibile”

Uno dei testi più interessanti e di ampio respiro che si occuparono dell’Internazionale, è quello di Eugenio Forni che in cinquecento pagine affronta la storia e l’attività dell’Associazione, partendo dall’antichità e dal sorgere delle prime idee comunistiche (4). Non a caso fu lui, nel 1878, a sostenere l’accusa contro i componenti della Banda del Matese. Fin dall’inizio Forni, consapevole dell’importanza della questione, afferma:

“Sarebbe vano negarlo. L’Internazionale è una delle più gravi preoccupazioni dei nostri tempi. Audace, operosa, fidente nell’adesione delle moltitudini [il quadro è preciso nell’individuare l‘aspetto “apostolico” degli internazionalisti] osa creder al trionfo della sua propaganda e giammai quanto oggi il suo agitarsi è stato più vivo. È illusione fallace, o il mondo si predispone inconsapevole a questa perigliosa fase sociale?”.

E, a dimostrazione di una particolare acutezza nell’analizzare i presupposti internazionalistici, si chiede:

“Ma che cosa vuole l’Internazionale? Vuole cosa impossibile. Vuole apportare una profonda trasformazione nella vita. Vuol cangiare l’uomo nei suoi istinti, nelle sue naturali tendenze, nelle aspirazioni tutte che sono tanta parte immutabile della sua natura. Autoritaria con Carlo Marx, anarchica con Michele Bakounine, l’Internazionale aspira, con l’uno e con l’altro, alla distruzione completa di tutti gli ordinamenti su cui si adagiano gli Stati odierni. Marx consente la costituzione di uno Stato che regoli e diriga l’associazione comunale, posto al vertice come un’autorità. Invece Bakounine, assai più radicale, esclude ogni istituzione che possa menomamente turbare l’assoluto principio delle generale uguaglianza. Quello che egli vuole è in conseguenza l’Anarchia. È passato di vita, sono presso che due anni, ma gli sopravvivono le professate dottrine”.

E per restare all’Internazionale anarchica, l’autore ne elenca, con lodevole precisione, i caratteri intrinseci

“negazione di ogni autorità, non consente alcuna scala di gradazioni sociali e di argomenti di ricondurre l’umanità quasi alle condizioni preadamitiche, sostituendo alle disuguaglianze naturali tra gli uomini un’eguaglianza cieca. Non uomini in livrea né soldati in uniforme. Non Curati, non Prefetti, non Sindaci, né proprietà fondiaria. La terra appartenendo a tutti in comune, la sola proprietà possibile è il lavoro. E l’operaio, questo infelice Schiavo moderno, emancipandosi lavorerà per conto proprio, essendo ormai finito il tempo dei padroni. Abbasso la tirannia del capitale bando alle religioni, si riformi la famiglia sostituendo alle pastoie contrattuali ed agli antiquati riti del matrimonio, l’unione incondizionata che promuovono i vincoli naturali di amore”.

Più chiaro di così!
Fortunatamente, a bloccare i progressi e le insanità degli internazionalisti interviene, con i suoi strumenti repressivi, lo Stato, e quindi

“rallegriamoci intanto che il lavorio degli agitatori sollevando d’ogni onde giuste ripugnanze, abbia pur anco potuto destare riprovazione in Italia e suggerire provvedimenti legislativi destinati a comprimerne le manifestazioni. Il progetto del Codice Penale, già approvato dalla Commissione istituita dal Ministro di Grazia e Giustizia, punisce della detenzione fino ad un anno, e della multa fino a lire mille, coloro che con la stampa, i discorsi, le pubbliche riunioni od altrimenti, impugnano l’inviolabilità del principio della proprietà, o eccitano l’odio contro l’ordinamento della famiglia”.

Davvero il modo migliore per affrontare le gravi contraddizioni, le disuguaglianze e le ingiustizie della società denunciate dagli internazionalisti! I quali, come si sa, di tali provvedimenti furono continuamente involontari ma puntualissimi testimoni.
A suffragare gli astiosi e ingenerosi giudizi di Forni si affianca il cav. Antonio Buffoni, di sicura fede monarchica e al tempo stesso acceso anticlericale (5), che spiega così il diffondersi delle idee internazionaliste e socialiste fra le masse diseredate:

“Molte e molte volte mi sono sentito ripetere che l’Internazionale non può attecchire fra noi; ma coloro che così si esprimono dimostrano di non conoscere, né di essersi formati un esatto criterio delle tendenze e delle aspirazioni delle plebi, in Italia più che altrove indigenti, pigre, dedite all’ozio e al vizio, e sempre desiderose di nuovi avvenimenti, di nuove emozioni. Questi figli del pauperismo, allevati e cresciuti nell’ignoranza, nella superstizione e nella miseria, non assistiti dai ricchi [e qui il massone mangiapreti si trova d’accordo con il clericale Curci], non percipienti un’equa mercede per l’opera che ad essi prestano, aggravati dai balzelli che vengono loro imposti dallo Stato, dalle Province e dai Comuni, aizzati dai partiti ostili al Governo, si lasciano facilmente adescare dai socialisti, i quali, compiangendo la loro infelice condizione li allettano con false promesse e li attirano a loro per valersene un dì a discendere in piazza armati contro la borghesia”.

Certo che, se questa è la realtà, non si capisce perché questi ingrati abbiano a ribellarsi! Più avanti il Buffoni, che forse reazionario e ottuso del tutto non era, si spinge a dire che, se si deve cercare un rimedio perché l’Internazionale non abbia più a mettere radici fra il popolo, quello è togliergli gli argomenti forti:

“Facciamo che il patrimonio dei poveri non venga sperperato da chi lo amministra. Favoriamo l’industria e il commercio, ma più di tutto l’agricoltura. Imponiamo le tasse ai ricchi ed esentiamone i poveri. Studiamo la maniera di emancipare il lavoro dal capitale, affinché cento operai non siano costretti a lavorare e a sudare da mane a sera a totale beneficio e profitto di un solo padrone. Dirozziamo le menti delle plebi con una proficua e non superficiale istruzione”.

Tutte lodevoli intenzioni che testimoniano una certa volontà di riassorbire nel modo più indolore le contraddizioni che in Italia il nascente capitalismo produce a danno del nascente proletariato industriale, ma che, come sappiamo, non solo non troveranno alcuna attuazione, ma, al contrario, si inaspriranno al punto da far diventare l’Internazionale, e il suo succedaneo Partito Socialista, una delle forze sociali più importanti nel Paese.

Gli eredi di Giuseppe Mazzini

Su un altro piano, e di altro tenore, come dicevamo, i commenti e le considerazioni dei repubblicani. Consapevoli, infatti, della profonda lacerazione che il giudizio di Mazzini sulla Comune parigina aveva provocato all’interno dell’ampio schieramento democratico e progressista nel quale si inseriva anche l’Internazionale, i pubblicisti repubblicani cercarono di recuperare al mazzinianesimo quanti, delusi dalla sostanziale condanna dell’esule, si erano rivolti al nascente movimento socialista. Significativo, al riguardo, l’opuscolo scritto dal romagnolo Enrico Golfieri sul finire dell’800 (6), nel quale l’autore cerca di recuperare, per quanto possibile, l’immagine di Mazzini, il quale

“intento com’era alla nobile e generosa opera di rigenerazione morale e materiale del popolo, gettò in tempo l’allarme, ma i suoi consigli non valsero e dovette più tardi assistere alla rovina d’ogni principio morale, rotto il freno alle più basse cupidigie, minacciata la Francia di completa rovina. Per questo suo apostolato morale si ebbe insulti da uomini del popolo e plausi da una parte della borghesia: ingiusti i primi, mal fondati e mal sinceri i secondi”.

Riportato dunque l’esule a fianco del popolo, si evidenziano, anche se con una certa forzatura, le affinità ideologiche, perché

“tutte le verità contenute nei programmi e nelle manifestazioni dell’Internazionale appartenevano alla parte repubblicana e furono propugnate gran tempo prima che l’Internazionale sorgesse”

anche se le

“utopie socialiste venivano combattute da Mazzini perché esse, mirando soltanto all’utile, sostituivano al problema dell’Umanità il problema della cucina dell’Umanità e isolando la questione economica dalla questione politica dimenticavano essere, la politica, l’arte di ordinare la società e la Repubblica un’associazione di uomini liberi e uguali e quindi strettamente congiunta all’emancipazione delle classi oppresse”.

Insomma, se non si dovessero riempire le pance tutti i giorni, probabilmente il dissidio tra mazzinianesimo e internazionalismo si sarebbe già risolto! E anche la Comune, se si fosse mantenuta sui postulati sui quali era sorta e non avesse dato retta all’autoritarismo di Marx e all’egualitarismo di Bakunin, avrebbe ben potuto essere quel sommovimento ideale e rigeneratore auspicato dai mazziniani.
Su un piano strutturalmente diverso, anche se oggettivamente coerente con il precedente, lo scritto di Alberto Mario (7), uno dei più autorevoli discepoli di Mazzini, che rimarca le profonde differenze ideologiche fra i due schieramenti, evidenziandone la inconciliabilità:

“Il concetto dell’Internazionale afferma che il lavoro e il capitale sono cosmopoliti, dunque cosmopoliti anche gli uomini, dunque giù le patrie. Soppressa l’individualità della patria, sillogisticamente si sopprime l’individualità della famiglia e della proprietà, e in ultimo l’individualità umana”.

Quanto di più lontano, dunque, dall’accentuato individualismo etico del mazzinianesimo, dell’egualitarismo anarchico, “che si compendia nella lotta di una classe contro l’altra e che cova la guerra civile”! Si badi bene, non la rivoluzione politica di cui Mazzini fu continuo e coerente propagandista ma, ben più pericolosa per l’ordine costituito, la rivoluzione sociale e la guerra civile. Una rivoluzione, oltretutto, portata avanti non dalla borghesia produttiva e liberale, quella che ha fatto il Risorgimento facendo dell’Italia un paese al passo coi tempi, ma da un proletariato che, secondo l’azzardato sillogismo dell’autore, non ha alcun diritto di farsi soggetto sociale, perché

“non si può chiamare proletario che il manovale e colui che non ha nemmeno gli strumenti del lavoro. C’è in Italia chi ha e chi non ha. Ma l’ingegno coltivato rappresenta una ricchezza al pari d’altra proprietà, e chi la possiede perde il carattere di proletario e diventa proprietario”.

Come mi auguro sia emerso da questo veloce e sicuramente incompleto spoglio della pubblicistica anti internazionalistica dell’800, si può vedere come, a fianco dei tentativi di comprensione di questo nuovo fenomeno, ben più spesso l’atteggiamento del blocco sociale che deteneva le sorti del paese sia stato quello della condanna e della chiusura, appena mitigate, a volte, dalla consapevolezza che, se non si fossero lenite le sofferenze del proletariato, e non si fosse offerta una seppur pallida possibilità di emancipazione e sviluppo, le contraddizioni che emergevano nel corpo sociale avrebbero potuto assumere aspetti preoccupanti, se non “terrificanti” quale, ad esempio, lo spettro della Comune. Fortunatamente il proletariato, e quei coraggiosi e lungimiranti Internazionalisti che erano certi di assecondarne i bisogni e le aspirazioni, non si lasciarono condizionare dall’ostilità del sistema di potere del tempo, ma portarono avanti le loro nobili idee di uguaglianza e fraternità con una dignità, una fermezza e una determinazione che dovettero riconoscere loro anche gli avversari. E che anche noi, oggi, vogliamo giustamente ricordare e celebrare. Perché i loro ideali sono, a distanza di centoquaranta anni, ancora i nostri.

Massimo Ortalli

Note

  1. Carlo Maria Curci, Sopra l’Internazionale nuova forma del vecchio dissidio tra i ricchi ed i poveri, Firenze, L. Mandelli editore, 1871.
  2. Francesco Russo Preiti, Su i mezzi per abbattere l’Internazionale in Italia. Riflessioni Sociali-Politico-Religiose, Napoli, Stamperia Governativa, 1873.
  3. Giacomo Raimondi, Contro l’Internazionale, Milano, Fratelli Rechiedei Editori, 1871.
  4. Eugenio Forni, L’Internazionale e lo Stato. Studii sociali, Napoli, Tipografia degli Accattoncelli, 1878.
  5. Antonio Buffoni, Sulla propaganda Internazionale-Anarchica in Italia, Belluno, Premiata Tipografia Cavessago, 1878.
  6. Enrico Golfieri, L’Internazionale, la Comune e il pensiero di Giuseppe Mazzini, Faenza, Pubblicazioni del Periodico “La Giovane Romagna”, s.d.
  7. Alberto Mario, L’Internazionale, Milano, Editori della “Rivista Repubblicana”, 1879.

 
Gli opuscoli di cui sono qui riprodotte le copertine, e da cui sono tratte le citazioni,
fanno parte del Fondo Ortalli dell’Archivio Storico della Fai di Imola. Si tratta solo di
alcuni dei numerosi testi conservati a Imola, usciti negli anni a cavallo fra il 1870
e il 1880, e riguardanti la Prima Internazionale e l’Internazionalismo.
Si tratta in prevalenza di opere che cercano di indagare, e spesso anche esorcizzare,
questa “novità” e che riflettono le ansie, le paure, e le aspettative
che il paese, in tutte le sue componenti, nutriva nei confronti di quel
movimento di emancipazione sociale che dalla prima definizione
di “internazionalista” avrebbe poi assunto, in successione ma anche
contemporaneamente, quelle di “anarchico”, “socialista” e infine “comunista”.
Alcuni sono lavori fortemente polemici,
altri sono veri e propri studi del nuovo fenomeno sociale finalizzati alla comprensione
delle dinamiche contingenti e di quelle future, molti sono i resoconti
dei numerosi processi che videro sui banchi degli imputati
nei tribunali di mezza Italia i primi protagonisti di quella straordinaria avventura:
i Malatesta, i Costa, i Cafiero…
La difesa dell’avv. Giuseppe Ceneri, proferita per Andrea Costa,
vedrà negli anni numerose riprese editoriali,
soprattutto nelle raccolte delle arringhe del famoso avvocato bolognese.
Ancora oggi la loro lettura ha un’indu bbia utilità. Non solo per capire come
il nascente movimento anarchico e antiautoritario venisse interpretato al suo sorgere,
ma anche per rendersi conto di come le critiche e i consensi
ai postulati dell’anarchismo e del socialismo
non siano poi così mutati in questi centoquarant’anni.