Rivista Anarchica Online


 

Genova 2001
(Ri)leggere il G8

All’epoca di Genova G8 (luglio 2001), il libro che più di altri veniva accostato al movimento emerso poco tempo prima, all’epoca della contestazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (novembre 1999) e del primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre (gennaio 2001), era No logo (Baldini & Castoldi 2001), della giornalista canadese Naomi Klein. Si trattava di una corposa e puntigliosa inchiesta sulle multinazionali e i loro misfatti: puntava quindi il dito accusatore sui perversi meccanismi della globalizzazione liberista, spaziando dall’Asia all’Africa, dall’Europa al continente americano. Documentato, serio, ben argomentato, “No logo” resta un libro importante, ma forse non è mai stato il “manifesto dei movimenti” come si diceva invece al tempo.
A “No logo”, quanto meno, andrebbero affiancati altri testi, come Il Rapporto Lugano di Susan George (Asterios 2000), la quale immaginò una commissione di esperti messa segretamente al lavoro dai potenti del pianeta per valutare - con cinismo assoluto - i pericoli incombenti sul capitalismo mondiale (esaurimento delle risorse naturali, malattie endemiche, diffusione delle armi di distruzione di massa) e suggerire le soluzioni. Fra le proposte conclusive, naturalmente, c’erano il razionamento dell’acqua tramite la privatizzazione e un’accurata politica dei prezzi; l’esclusione dei malati di Aids dall’accesso gratuito o a basso prezzo alle medicine e così via. Ne veniva fuori, a contrario, un potente atto d’accusa contro il capitalismo globale.
C’erano poi i documenti, in parte disponibili in volume, usciti dalla Selva Lacandona del movimento zapatista del sub comandante Marcos: la rivolta messicana del primo gennaio 1994, giorno dell’entrata in vigore dell’accordo per il libero commercio fra Centro e Nord America (Nafta), fu sicuramente all’origine dei movimenti globali. Le riflessioni di Marcos sul liberismo e sul ruolo delle popolazioni indigene, nonché il rifiuto, da parte degli zapatisti, delle tradizionali aspirazioni dei “gruppi rivoluzionari” alla “presa del potere”, furono il lievito forse più potente per la crescita e l’affermazione dei movimenti, e anche per la sedimentazione - in una sua parte - di metodi e prospettive antiautoritarie.
Con questi libri sotto il braccio si arrivò dunque a Genova, dove si riuniva il “Gruppo degli 8”, capi di stato e di governo dei paesi più potenti del pianeta. Il vertice istituzionale si teneva nella “zona rossa”, nel cuore della città, ma il vero evento non era lì, perché il capoluogo della Liguria nel luglio 2001 fu teatro di un grandissimo fatto politico: la mobilitazione di centinaia di gruppi e associazioni, di decine di migliaia di persone (circa 300mila parteciparono al corteo di sabato 21 luglio), che contestavano non solo il vertice G8 e la sua legittimità di “super governo mondiale” autoproclamato, ma anche un intero modello di sviluppo e la globalizzazione liberista, in nome di un’idea rinnovata e sfaccettata di giustizia globale.
Sappiamo come andarono a finire le manifestazioni. Per qualche giorno, fino a venerdì 20 luglio 2001, la città fu animata dalla creatività dei “contestatori”, con innumerevoli forum, seminari, incontri, concerti, esposizioni, performance, cortei (molto importante e anticipatore di un tema chiave degli anni successivi quello di giovedì 19 luglio, dedicato ai diritti dei migranti). Poi su Genova calò la violenza.
I primi disordini di venerdì 20 luglio sfociarono in un’insensata carica dei carabinieri al corteo organizzato dai Disobbedienti, poco dopo un carabiniere uccise con un colpo di pistola alla testa Carlo Giuliani, genovese di 23 anni. Il giorno successivo il corteo conclusivo fu caricato a più riprese, col pretesto degli atti di teppismo del cosiddetto “Black Bloc”, trasformando la manifestazione in un’assurda caccia all’uomo da parte degli uomini in divisa. La sera, a corteo concluso e coi manifestanti ormai sulla via del rientro, la polizia assaltò il dormitorio allestito alla scuola Diaz, di fronte al “quartier generale” del Genoa Social Forum, la rete internazionale che aveva promosso il contro vertice, pestando e arrestando 93 persone. Nel frattempo la caserma di polizia di Bolzaneto (quartiere alla periferia della città) si trasformava nella prigione degli orrori, con decine di fermati sottoposti a violenze e angherie.
La migliore inchiesta d’insieme su Genova G8, sia pure a distanza di qualche anno dalla pubblicazione, resta Genova nome per nome (Terre di Mezzo-Altreconomia-Cart’Armata 2004), scritta da Carlo Gubitosa, mediattivista nonviolento, fra i fondatori di Peacelink. “Genova nome per nome” è un’inchiesta accurata, condotta con passione ed estremo rigore: riesce e restituire il clima delle giornate genovesi, non accetta alcuno schema predefinito ed approfondisce prospettive e comportamenti in tutte le direzioni: le varie anime del movimento, il Black Bloc, le forze di polizia... L’unico limite del libro è il tempo trascorso: i processi nel frattempo avviati, in particolare, hanno prodotto nuova documentazione, all’epoca non disponibile; tuttavia l’impianto tiene ancora.
Un buon volume dedicato alla natura e alle prospettive del movimento è il numero 3/2001 di Limes, intitolato “I popoli di Seattle”, uscito alla vigilia del G8. Nell’introduzione si legge una sorta di premonizione per quello che sarebbe avvenuto: “L’inerzia dello Stato e il sabotaggio delle frange estreme del movimento stanno inclinando lo scenario verso esiti violenti”.
Una buona ricostruzione delle ragioni politiche e culturali del movimenti è nel libro di Vittorio Agnoletto, già portavoce del Genoa Social Forum e poi europarlamentare: Prima persone. Le nostre ragioni contro questa globalizzazione (Laterza 2003).
L’enorme impatto emotivo, politico e mediatico dei “fatti di Genova” stimolò fin dall’inizio una vasta pubblicistica. Le prime ricostruzioni giornalistiche si devono a Giulietto Chiesa, con Genova/G8 (Einaudi 2001), e Concita De Gregorio, autrice di Non lavate questo sangue (Laterza 2002, poi Sperling & Kupfer 2006). Il primo è più meditato e ricco di spunti politici: vi si condensa l’attenzione del giornalista (poi anche parlamentare) per la geopolitica e i processi di globalizzazione; il secondo è soprattutto una cronaca (buona) dei fatti e dei soprusi delle forze di polizia.
Fra i numerosi pamphlet e libri-documento usciti a caldo, spicca il Libro bianco curato dal Genoa Social Forum: una ricostruzione, con testi e moltissime immagini, delle violenze subite dai manifestanti e delle loro ragioni. Il “Libro bianco” fu concepito e diffuso con l’idea di raccogliere fondi da destinare alle spesi legali, ma si rivelò un documento prezioso per diffondere un’idea veritiera dei “fatti di Genova” (come il primo documentario, uscito nell’autunno 2001 e diffuso da Unità, Liberazione, Manifesto, Carta: Genova. Per noi, di Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate, Francesco Martinotti. Altri documenti importanti sono in Obbligo di referto (Frilli 2001), curato dai sanitari del Genoa Social Forum, e Dalla parte del torto. Avvocati di strada a Genova (Frilli 2002), a cura del Genoa Legal Forum.
Il bellissimo cofanetto (5 cd audio più un volume di fotografie) curato da Radio Popolare – Genova / luglio 2001. Cronache (Radio Popolare 2001) – è un emozionante e dettagliato resoconto del lungo luglio genovese, con gli innumerevoli collegamenti andati in onda a partire da domenica 15 luglio fino alle cronache in diretta dalla scuola Diaz.
Per la ricostruzione dei fatti non si può prescindere da due libri-testimonianza: uno è del sottoscritto – Noi della Diaz (Berti-Altreconomia 2002, poi Terre di Mezzo/Altreconomia 2008) – e racconta dall’interno il blitz alla scuola di via Battisti e la successiva detenzione, senza trascurare di restituire il “clima” politico e culturale che aveva ispirato il movimento dal primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre in poi; l’altro è di Marco Poggi, l’infermiere penitenziario che trovò il coraggio di denunciare medici e colleghi per gli abusi commessi sui detenuti: Io, l’infame di Bolzaneto (Yema 2002). Un’altra testimonianza di forte impatto emotivo è quella di Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova: Genova, il posto sbagliato (Nonluoghi 2004) è il racconto di una madre che per due giorni ha una figlia “desaparecida”, prima di scoprirla incarcerata dopo la mattanza della Diaz e l’incubo di Bolzaneto.
Su piazza Alimonda e l’uccisione di Carlo Giuliani, archiviata frettolosamente senza processo, il miglior documento è il filmato autoprodotto Quale verità per piazza Alimonda? Fotografie e filmati agli atti del procedimento archiviato disponibile sul sito dell’associazione Piazza Carlo Giuliani (). Nel libro di Antonella Marrone, Un anno senza Carlo (Baldini & Castoldi 2002), si condensarono la denuncia dei silenzi e delle complicità istituzionali e la forte, dignitosa battaglia di Giuliano e Haidi, i genitori del ragazzo assassinato.
Lo svolgimento dei processi e le condanne di primo grado hanno fornito ulteriore materiale per nuove pubblicazioni. Su Bolzaneto, la caserma delle torture, il testo più importante è di Massimo Calandri, cronista dell’edizione ligure di Repubblica, il giornalista che forse con più costanza e determinazione ha seguito le vicende giudiziarie seguite al G8. Bolzaneto. La mattanza della democrazia (Derive Approdi 2008) ha una notevole efficacia politica ed emotiva: si giova del contatto diretto dell’autore con i magistrati, gli avvocati, gli stessi poliziotti imputati nel processo. Calandri riesce a collocare il processo nel contesto allargato di Genova G8 e della degradazione dei diritti costituzionali che ne è seguita. A Mario Portanova, uno dei migliori giornalisti d’inchiesta italiani, si devono molti importanti contributi su Genova G8: da Inferno Bolzaneto (Melampo 2008), uscito subito dopo la sentenza di condanna per sedici degli imputati, al libretto che accompagna il documentario Governare con la paura. Il G8 del 2001, i giorni nostri (Melampo 2009), più la fondamentale collaborazione alla puntata dedicata al G8 dalla trasmissione “Blu notte” (settembre 2007), ora disponibile in allegato al libro di Carlo Lucarelli G8. Cronaca di una battaglia (Einaudi 2009): si tratta del documentario più completo, più approfondito, più attendibile fra i tanti pubblicati in questi anni.
Sul caso Diaz, chiuso processualmente in primo grado nel novembre 2008 con 13 condanne, è disponibile Scuola Diaz: vergogna di stato (Edizioni Alegre 2009), curato dal giornalista Checchino Antonini, il mediattivista Francesco Barilli e l’avvocato Dario Rossi: ripropone e analizza la memoria consegnata dai pm al Tribunale. Di buona efficacia, e anch’esso basato sulla ricostruzione dei pm Riccardo Cardona Albini e Enrizo Zucca, è il volume a fumetti Dossier Genova G8 (Becco Giallo 2008), sceneggiato da Gloria Bardi e disegnato da Gabriele Gamberini.
Per finire, vale la pena segnalare tre romanzi che hanno raccontato le tragiche giornate genovesi. Stefano Tassinari ne I segni sulla pelle (Tropea 2003) assume il punto di vista di una giovane attivista “inviata” di una piccola radio “di movimento” e offre un bello spaccato dell’entusiasmo giovanile e politico spezzato dal terrore poliziesco; il racconto di Roberto Ferrucci in Cosa cambia (Marsilio 2007) è più sofferto e piace proprio per la sua intensità. Un punto di visto opposto, ma non meno interessante, è quello di Mauro Gensini: il protagonista di Genova sembrava d’oro e d’argento (Mondadori 2009) è un poliziotto, che al G8 vive una rovente storia d’amore e una sferzante esperienza professionale, se vogliamo chiamarla così. L’ultima citazione, sull’universo poliziesco, è per Acab (Einaudi 2009) di Carlo Bonini: forte e sconvolgente per la documentazione di prima mano sulla cultura fascista e machista diffusa fra gli agenti, anche se pecca di un eccesso di indulgenza e simpatia per alcuni dei protagonisti.

Lorenzo Guadagnucci


Libro e DVD
sulla Spagna ’36

“Portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori” dichiara nel luglio del 1936 Buenaventura Durruti, militante anarchico da decenni e leader miliziano, al giornalista Van Passen (1). L’utopia sembra farsi storia nella Spagna dell’estate del 1936. La determinazione e i valori ideali spingono i combattenti libertari nella lotta che non è solo contro il golpe dei generali, bensì mira a fondare una nuova società. L’obiettivo sarà difficile da raggiungere e l’ostacolo maggiore è quello della guerra in corso.

Questo libro intende presentare l’anarchismo spagnolo durante la rivoluzione sociale e la guerra civile del 1936-1939. L’approccio è di tipo problematico e si vuole offrire una interpretazione con più domande che risposte, più confronti aperti che soluzioni preconfezionate.
La ricostruzione delle pagine seguenti preferisce concentrarsi su elementi che diano conto della complessità dello scenario storico in cui si svolsero le vicende del movimento anarchico che aveva trovato in Spagna un terereno più fertile che in ogni altra parte del mondo. Tale radicamento riuscì ad adattarsi ad un paese che era, ed è, assai più diversificato e plurale di quanto sia normalmente considerato.
Il difficile rapporto tra aspirazioni utopiche e condizionamenti reali cominciò il 19 luglio del 1936 con la risposta vincente, caso rarissimo nella storia, del “popolo in armi” sul golpe dei generali insorti contro il governo repubblicano. Ma la vittoria nascondeva dilemmi cruciali che ruotavano attorno al tema di “come fare la rivoluzione”.
Da sempre l’anarchismo, non solo in Spagna ovviamente, aveva rifiutato lo Stato in quanto inevitabile luogo di oppressione e sfruttamento. Da sempre la polemica con i marxisti verteva sulla possibilità o meno di conquistare libertà ed eguaglianza attraverso la presa e l’esercizio del potere politico. Le istituzioni statali, secondo la tradizionale chiave di lettura anarchica, erano un’invenzione delle classi privilegiate per far credere che l’interesse di tutto il popolo, in teoria difeso dallo Stato, coincidesse con quello della loro casta. Gli “antiautoritari”affermavano che era impossibile usare l’autorità statale per l’emancipazione dei lavoratori e dell’umanità e così si espressero già nel 1872, anno del congresso bakuninista della Prima Internazionale di Sant Imier, quando si sancì la rottura con gli “autoritari” marxisti.


Ai primi di novembre 1936 quattro anarchici diventavano ministri del governo del socialista Francisco Largo Caballero. Quali erano le cause e quali le conseguenze di questa decisione? L’opzione governativa, in nome della guerra antifascista, aveva reali alternative? Queste domande sono di cruciale importanza per l’esperienza libertaria, sia spagnola che mondiale, sia storiografica che politica.
Dopo il 19 luglio 1936 la dissoluzione dello Stato borghese e il protagonismo popolare e libertario avevano permesso l’autogestione delle collettività e delle milizie. Si prospettava un’evoluzione rapida verso una società fondata sui valori proclamati della giustizia sociale, del libero pensiero, della solidarietà popolare, dell’eguaglianza economica, della libertà politica.
Le rotture con il passato oppressivo, cioè accentratore e sfruttatore, maschilista e clericale, si stavano inoltre concretizzando su almeno tre piani cruciali e complementari: l’emancipazione femminile, la nuova cultura autogestita degli Atenei Libertari e la liberazione completa dalle istituzioni cattoliche. La “breve estate dell’anarchia”, per utilizzare un’espressione fortunata del romanziere Hans Magnus Henzenberger, durava appunto qualche mese e ben presto l’autunno costringeva a fare i conti con una realtà poco propizia.

Il tema della collaborazione governativa spagnola è stato, ed è, al centro di un dibattito animato da diverse ottiche e mai superato. Nel corso del tempo, negli ambienti libertari a livello mondiale si è sviluppata una tendenza interpretativa molto critica della linea “collaborazionista” prevalente nella CNT-FAI nel 1936-1939 (2). Libri, opuscoli, articoli nonché convegni, conferenze e audiovisivi hanno diffuso un giudizio negativo della scelta dell’unità antifascista, considerata l’errore fatale che avrebbe rovinato una situazione potenzialmente assai favorevole. Tuttavia all’epoca non si erano registrate molte voci di forte opposizione alla strada “circostanzialista” della dirigenza, quella ritenuta quasi obbligata e intrapresa per rispondere alle circostanze ostili, soprattutto sul piano internazionale. Si può attribuire il relativamente scarso dissenso verso la i centri decisionali della CNT-FAI alle condizioni di emergenza nelle quali l’intero movimento agiva e pure ai controlli, più o meno effettivi, che i vertici operavano sulla base. Non si può però negare che buona parte delle strutture e dei militanti libertari abbiano accettato, sia pure controvoglia, il processo di ricostruzione dello Stato repubblicano con la conseguente militarizzazione e l’avvio di nuove istituzioni gerarchiche.

In questo libro si cerca di presentare entrambe le ragioni di fondo delle due opzioni libertarie, quella dell’accettazione e quella del rifiuto dell’ingresso nel mondo governativo. La chiave interpretativa a posteriori che vede schierati i “collaborazionisti antifascisti” contro gli “intransigenti rivoluzionari” viene talora utilizzata in modo troppo schematico. Si dimentica, ad esempio, che i due schieramenti non erano cristallizzati e impermeabili e che si compivano vari passaggi tra i due campi in seguito all’evoluzione della guerra in corso. La mia lettura del rapporto tra guerra e rivoluzione nel contesto spagnolo è stata elaborata non solo partendo dalla nutrita bibliografia e dalle ricerche d’archivio. Queste si sono svolte, diversi anni fa, all’Archivo de la Guerra Civil di Salamanca, all’Archivo Histórico Nacional e alla Hemeroteca di Madrid, nonché all’I.I.S.G. di Amsterdam. Oltre agli archivi ho consultato molte fonti a stampa presso varie biblioteche di Barcellona, tra cui quella del Centre d’ Estudis Històrics Internacionals e dell’Ateneu Enciclopèdic Popular. Queste analisi, in particolare sui documenti della CNT e della FAI, mi hanno permesso di entrare meglio nel clima politico e organizzativo dell’epoca, al di là di singole fonti che peraltro in questo volume sono limitate.
Una parte rilevante delle riflessioni qui riprodotte comprende rielaborazioni di argomenti di conversazioni, anche accese, con militanti protagonisti nonché da confronti con ricercatori e studiosi. Ho avuto incontri frequenti con attivisti e scrittori come Diego Camacho, il biografo di Durruti ed ex “Quijote del Ideal” del 1937, come Antonio Téllez, giovane militante del 1936 e poi studioso della guerriglia antifranchista, e come Ramón Álvarez (Ramonín), sindacalista asturiano. Questi e i colloqui più occasionali con Antonia Fontanillas, erede di una famiglia di anarchici da quasi un secolo, con Federico Arcos, anch’egli ex “Quijote”, ed Eduardo Pons Prades, soldato libertario e studioso prolifico, mi hanno fatto conoscere l’aspetto soggettivo denso di idealismo vissuto all’interno di eventi drammatici ed esaltanti. O almeno ciò traspariva dalla memoria di anziani militanti ridefinita a decine d’anni di distanza. Tra l’altro da queste conversazioni ho avuto l’impressione che le attività quotidiane degli attivisti di base siano state più autogestite di quanto possa emergere dai documenti d’archivio che riproducono posizioni ufficiali.
Anche i volontari italiani mi hanno trasmesso il senso delle enormi speranze e delle amare delusioni di quegli anni straordinari. Qui ricordo solo quelli più vicini, tutti ex miliziani, da Umberto Tommasini, con cui ho avuto la fortuna di collaborare per più un decennio, a Vindice Rabitti, con il quale ho compiuto un viaggio a Monte Pelato, vicino a Huesca, a Umberto Marzocchi, testimone attento sul fronte aragonese. Questi e altri anarchici di lingua italiana sono presenti nel video curato insieme a Paolo Gobetti (Tra guerra e rivoluzione, ANCR, Torino, 1986).

Da numerosi convegni scientifici, in Spagna, Italia e Francia, ho ricavato spunti e critiche, anche radicali, dell’immagine dell’anarchismo spagnolo. Questi elementi, nonché i frequenti colloqui a Barcellona con Pere Gabriel, storico specialista dell’anarchismo, si sono rivelati preziosi per formulare le domande appropriate ai testimoni, oltre che ai documenti. La doppia indagine, tra accademici e tra militanti, ha potuto giovarsi del fatto che la mia formazione di storico si sia sviluppata negli anni Settanta. Ho quindi potuto consultare, da un doppio punto di vista, un’ampia documentazione sugli anni Trenta proveniente sia da fonti scritte che orali.

Nel corso di questi studi ho inteso constatare come e quanto nelle dirigenze CNT-FAI abbiano prevalso l’impegno verso i problemi bellici e di conseguenza politici. Ho ricavato la convinzione che la positiva sperimentazione collettivista e la rivoluzione culturale a vasto raggio siano state sostanzialmente vissute dalla base degli attivisti molto più che dai responsabili delle decisioni strategiche. Sono quindi partito dall’ipotesi di lavoro che per capire e spiegare la collaborazione governativa occorra considerare definire le limitazioni drastiche imposte dal contesto bellico. È un dato di fatto, consolidato ma tutt’altro che banale, che la rivoluzione abbia subìto stretti condizionamenti e limitazioni dalla guerra. Ciò non significa sottovalutare l’aspetto più propriamente libertario degli sforzi di gran parte della militanza, bensì cercare di collocare l’”utopia realizzata”, con le sue luci e le sue ombre, all’interno del più vasto contesto storico. Sarà logicamente il lettore a valutare se le finalità di questo testo, al tempo stesso introduttive e problematiche, siano state raggiunte. (...)

Claudio Venza

Note

  1. Pubblicato sul “Toronto Star” del 18 agosto col titolo “Due milioni di anarchici lottano per la rivoluzione”
  2. La CNT (Confederación Nacional del Trabajo) è il sindacato libertario nato nel 1910, la FAI (Federación Anarquista Ibérica) è il movimento specificatamente anarchico fondato nel 1927.


Questo matrimonio (gay)
non s’ha da fare

Se guardiamo al quadro politico attuale dominato dalla destra clericale e se proviamo a fare un piccolo calcolo sul numero di deputati e senatori semplicemente “laici” nell’attuale parlamento come laico-libertari potremmo essere presi dallo sconforto e parlare di matrimonio gay sembra un lusso o un azzardo velleitario. Eppure in tutto il mondo libero i diritti delle persone omosessuali vanno avanti e a volte sono persino promossi da governi non di sinistra. Negli Usa, per esempio, il presidente Obama ha ricevuto alla casa Bianca 300 leader della comunità lgbt e ha adottato per tutti i dipendenti federali un provvedimento che equipara i conviventi, anche dello stesso sesso, a quelli sposati ai fini previdenziali e pensionistici, fatto non di poco conto se si tiene presente che negli Usa non esiste l’assistenza sanitaria universale come in Europa.

L’Italia è buon’ultima rispetto a tutti gli indicatori del tasso di libertà: l’approvazione dell’orrida legge 40 sull’inseminazione assistita e il ddl sul fine vita in discussione alla Camera ci dicono che si stanno facendo molti passi indietro. Proprio per questo è bene essere molto chiari sul tema dei diritti, dell’uguaglianza formale fra i cittadini, della libertà di ciascuno di organizzare la propria vita come meglio crede e del diritto di scegliere come sistemare in campo giuridico le proprie relazioni personali di affetto o di amicizia. In pratica di come organizzare la propria vita familiare.

Il bel libro di Persio Tincani, Le nozze di Sodoma (La morale e il diritto del matrimonio omosessuale, ed. l’Ornitorinco), rappresenta da questo punto di vista uno valido strumento di comprensione da un lato e di autodifesa dall’altro. Una sorta di manuale sul tema del matrimonio tra omosessuali che mette a disposizione di esperti e di profani gli argomenti volti a sostenerne la legittimità e la validità. Il libro di Tincani da un lato è assolutamente “leggibile”, con una prosa gradevole e a tratti persino ironica e dall’altro però, forse per la prima volta, ci mette a disposizione tutti gli strumenti cognitivi per replicare nel dettaglio alle argomentazioni, per lo più di origine romano-cattolica, che vorrebbero il matrimonio tra omosessuali come una minaccia alla famiglia tradizionale se non addirittura l’inizio del declino dell’istituto familiare tout court.
In realtà l’approvazione delle leggi sul matrimonio omosessuale, degli istituti similari come quello sulla partnership domestica o il lebenpartnershaft tedesco e la loro applicazione pratica nel corso degli anni hanno smentito il catastrofismo vaticano dimostrando, al contrario, che allargare l’area dei diritti attraverso norme inclusive ha portato grandi benefici collettivi intermini di felicità personale, di maggiore coesione sociale e di grande benessere individuale. In alcuni paesi, come la Francia o la Svezia, si è addirittura arrivati ad un aumento della natalità e persino dei matrimoni eterosessuali. Il numero dei Pacs celebrati in Francia sta addirittura raggiungendo il numero di matrimoni civili di quel paese.

Sono leggi che fanno bene quindi, sia agli interessati che alla collettività nel suo insieme perché, come dice Persio Tincani, i diritti delle minoranze sono parte integrante dei diritti di tutti.

Colpisce, negli argomenti contro l’introduzione del matrimonio omosessuale, quindi, la debolezza teorica dei clericali e degli omofobi, debolezza che il testo di Tincani mette in luce molto bene. Sono teorie essenzialmente ideologiche, di natura religiosa, che non tengono in alcun conto della vita reale delle persone. Come diceva Weber esiste un’etica dei principi e un’etica della responsabilità. La prima è tipica delle religioni monoteiste: i principi sono fissati una volta per tutte e non devono essere dimostrati, è la realtà che si deve conformare ai principi. Nell’etica della responsabilità trova invece posto la vita reale, le persone con i loro diritti, la logica e la razionalità.

Prendiamo ad esempio alcune tra le pagine più belle di Tincani, quelle sul concetto di natura, usato come una clava dai clericali contro ogni diversità e in particolare contro gli omosessuali che in natura esistono ed anche nel mondo animale prosperano e si moltiplicano. Tincani lo contesta magistralmente quando dice che “l’assunto che la natura sia normativa è, per l’appunto, un assunto, e di quelli non dimostrati. La natura è una realtà mutevole ….dato che la sua definizione dipende per intero da costruzioni culturali”.

Franco Grillini