Rivista Anarchica Online


dialetti

Tradizioni artificiali
di Carlo Oliva

I leghisti vogliono introdurre l’insegnamento dei dialetti locali nelle scuole di ogni ordine e grado, ma non hanno fatto i conti con la molteplicità degli idiomi. Esiste forse un lombardo o un ligure? Dietro questa questione, anche troppo al centro dell’attenzione, c’è ben altro. Proviamo a ragionare.

 

Potrebbe essere difficile spiegarlo al ministro Calderoli, che pure sull’argomento ha giocato la sua (modesta) campagna d’estate, ma l’ipotesi di introdurre l’insegnamento dei dialetti locali nelle scuole di ogni ordine grado è – sostanzialmente – un paradosso. Calderoli, come formazione, è un dentista, non un glottologo, ma non dovrebbe essere necessario essere tali per sapere che la categoria di “dialetto” differisce da quella di “lingua” esclusivamente dal punto di vista sociologico, per i diversi usi che i parlanti fanno degli idiomi che ricadono sotto l’una o l’altra definizione, e che una delle distinzioni più importanti in tal senso è appunto quella per cui il dialetto non viene insegnato a scuola. Se lo fosse, verrebbe orbato di necessità dalle sue caratteristiche più marcatamente “dialettali” (le principali sono l’oralità e la familiarità dell’uso): dovrebbe, come minimo, inventarsi una ortografia, sottoporsi a un qualche tipo di codificazione morfologica e sintattica, appoggiarsi a un repertorio di testi scritti da proporre ai discenti come modello, eccetera, tutte operazioni che comportano un alto grado di difficoltà teorica e pratica, a partire da quella di trovare qualcuno cui affidare le responsabilità relative. Ma anche ammesso che a questi ostacoli si potesse porre rimedio, ne resterebbe tuttavia un altro affatto insormontabile: il dialetto scolarizzato diventerebbe, a tutti gli effetti, una lingua con un suo grado di ufficialità, il che riproporrebbe ipso facto il problema dei suoi rapporti con i linguaggi effettivamente parlati nel territorio di riferimento. Il ragionamento può sembrare un po’ troppo sottile per il leghista medio, ma la dialettica tra lingua e dialetto (come qualsiasi dialettica tra lingua colta e lingua parlata, o, più in generale, qualsiasi dialettica linguistica) è tale da travolgere irrimediabilmente il piano istituzionale.
Si potrebbe rispondere che, quale che sia la natura dell’idioma di cui si propone l’introduzione a scuola, esso avrebbe comunque la funzione di esprimere, in modo più soddisfacente dell’attuale italiano standard e delle sue varianti regionali, la tradizione del territorio, dando voce a una cultura locale che l’uniformità del modello unitario rischia di cancellare. È probabile, anzi, che sia questo l’aspetto che più sta a cuore ai propugnatori della dialettizzazione dell’insegnamento: più che da un astratto interesse etnolinguistico, costoro sono mossi, in tutta evidenza, dalla sollecitudine per l’identità delle popolazioni che dichiarano di rappresentare. Nello stesso modo con cui si prefiggono l’affermazione di una loro identità politica, amministrativa e fiscale (il cosiddetto “federalismo”), o ne difendono – a modo loro – l’integrità culturale, rifiutando pervicacemente, senza paura di apparire provinciali o bigotti, ogni infiltrazione di usi, fedi e costumanze allogene, gli uomini di Bossi affermano la necessità del riconoscimento della relativa identità linguistica. Niente di straordinario, o di scandaloso, naturalmente, trattandosi della riproposizione sul piano locale di un rispettabile principio romantico, che ebbe grande importanza nella storia europea del XIX secolo, quello per cui la nazione si definisce per storia, lingua e tradizione. Ma è curioso notare come l’applicazione di quel principio, oggi, ripresenterebbe, amplificati, gli stessi problemi che dovettero risolvere (e non sempre risolsero) un paio di secoli fa i fautori dell’unità nazionale.

Il primo inganno

Prendiamo, tra questi problemi, il più semplice: quello della definizione del dialetto che si vorrebbe insegnare e della popolazione cui insegnarlo. Sembra facile, ma è una facilità apparente. Un dialetto, come accennavamo prima, è una lingua come tutte le altre e, come tutte le lingue, non si lascia definire da criteri puramente linguistici. Per unificare in uno schema unitario tutte le possibile varianti rintracciabili sul territorio, l’intreccio di isoglosse in cui concretamente si manifesta un idioma, scritto o parlato, è necessario partire, appunto dal territorio. Come l’italiano è la lingua (o il sistema di lingue) parlato prevalentemente in Italia, così il lombardo non potrà essere definito in altro modo che come il sistema di lingue parlato comunemente in Lombardia, il ligure come quello parlato in Liguria, il marchigiano come quello diffuso nelle Marche e via dicendo.
L’ovvietà è patente, ma, come dicevamo, ingannevole. E il primo inganno si annida proprio nei criteri usati per identificare il territorio. La Lombardia, la Liguria, le Marche e le altre diciassette regioni che costituisco, al momento, lo stato italiano non rappresentano di necessità delle realtà linguistiche: sono, in effetti, delle strutture politico amministrative, definite dalla legislazione della repubblica e assunte come tali dalle forze politiche che vi operano. Sarebbe possibile identificare nel territorio nazionale altre suddivisioni locali cui l’epiteto di “regioni” non disdirebbe (che so: il Monferrato, la Garfagnana, il Sannio, la Barbagia, la Ciociaria...), ma non avendo esse una dimensione istituzionale vengono di solito trascurate, o considerate, se va bene, dei semplici sottoinsiemi dell’insieme regione. Parimenti possibile sarebbe identificare dei criteri – storici, economici, etnici, geografici o che altro – in base ai quali modificare i confini attualmente vigenti, proponendo, per esempio, di aggregare il Novarese e il Piacentino alla Lombardia o di sciogliere l’antistoricissima unità tra il Trentino e il Sudtirolo. Proposte del genere sono state fatte varie volte, già all’epoca della Costituente e, in anni a noi più vicini, dal primo governo Berlusconi (che insediò, nel 1994, un’apposita Commissione affidata, non sembri strano, all’allora senatore Donato Speroni), ma si è sempre preferito lasciare tutto com’è, per non disturbare gli interessi consolidati a livello politico.
È poco ma sicuro, comunque, che far coincidere biunivocamente a ogni regione il relativo dialetto è una impresa superiore alle forze di qualsiasi legislatore o glottologo italiano. In pochissime realtà regionali sarebbe possibile identificare una koiné linguistica riconducibile a una ragionevole unità: la Val d’Aosta, certo, ma è un problema a parte, la Liguria, forse, il Veneto, probabilmente (esclusa però la città di Venezia), la Sicilia, con un certo sforzo e poi? Nella stessa Lombardia dove è nato il progetto il milanese arioso di Bossi e dei suoi amici brianzoli e varesini si oppone con grande evidenza al bergamasco di Calderoli e ai vari idiomi parlate sulle rive del Po. Una carta dialettale della Penisola tracciata con criteri scientifici travalicherebbe tutti i confini amministrativi esistenti e determinerebbe un puzzle capace di far incanutire dalla disperazione chiunque avesse il compito di definire le “lingue madri” da insegnare e gli enti cui affidare i compiti relativi. Persino una realtà isolana apparentemente compatta come quella della Sardegna si rivelerebbe suddivisa al proprio interno in almeno quattro comparti fortemente differenziati.

Il dialetto che non c’è

La spiegazione, chi gli interessa, è abbastanza facile, anche se un po’ paradossale. Le regioni, anche se sono l’entità nella cui prospettiva si muovono le forze tradizionaliste, non hanno in sé molto di tradizionale. Sono state, per così dire, inventate dopo l’unità e non prima, derivando in linea diretta da quei “dipartimenti statistici” tracciati nel 1861 per permettere la realizzazione del primo censimento del nuovo regno. Alcuni di essi, ma pochi, tramandavano il ricordo di singoli stati preunitari – unità, dunque, dotate di una qualche tradizione storica – altri furono escogitati per l’occasione, suddividendo o accorpando delle unità troppo grandi o troppo piccole per servire ai fini statistici. In un caso, quello dell’Emilia, si dovette persino inventarne il nome ex novo. Il risultato è che, salvo le solite eccezioni, il senso di identità, o di appartenenza, dei rispettivi cittadini non è certamente sviluppatissimo e lo è comunque molto meno di quanto lo sia a livello civico o subregionale. L’osservazione non vale solo a livello linguistico: lo si è visto sempre questa estate, quando non ricordiamo più quale leghista sostenne la necessità di onorare adeguatamente, piuttosto che quelli nazionale, gli inni e le bandiere di ogni regione. Si scoprì che di inni non ce ne sono, nel senso che nessuna Giunta o Consiglio ha ritenuto necessario dotarsene, e che le bandiere, pur essendone stata assegnata una nel 1995 anche a chi prima non se n’era curato, per iniziativa – sembra – del presidente Scalfaro, sono per lo più affatto ignote ai cittadini che dovrebbero orgogliosamente sventolarle. Poco male, naturalmente, perché l’identità non si identifica con l’accettazione di una simbologia, ma è interessante il caso di chi, per arrivare all’identità, avrebbe voluto partire dal simbolo e non viceversa.
Il realtà il problema è appunto questo. In un paese come il nostro, in cui la conclamata fine delle ideologie ha lasciato spazio a una sorta di inestricabile guazzabuglio, in cui si dà voce ad ircocervi ideologici come quello degli atei devoti o ad altre simili amenità, c’è evidentemente spazio anche per i regionalisti senza regioni, o, ancor meglio, per i tradizionalisti che, mancando di una tradizione cui riferirsi, decidono tranquillamente di inventarsela. Il dialetto che non c’è, come l’inno che manca o la bandiera che non si conosce, potrà comunque servire a confondere le idee alla gente, che è poi il ruolo che a ogni ideologia, più o meno inventata, si addice. Il guaio è che per parlarne si sciupa una quantità di tempo e di energie che con maggiore profitto ad altro si potrebbero dedicare. Ma cosa possiamo farci?

Carlo Oliva