Rivista Anarchica Online


sfruttamento

Caterina alla campagna (Cerignola, Puglia)
di Marco Rovelli

Si intitola “Servi” il nuovo libro di Marco Rovelli, dopo quelli sui CPT e sulle morti bianche. Questa volta al centro della sua ricerca ci sono i clandestini al lavoro, cioè i nuovi schiavi, i servi del nuovo millennio. Eccone un capitolo.

 

Torno alla campagna Tre Titoli che è estate e si muore di caldo. Sono sceso insieme al mio amico Luca Galassi, di Peacereporter, la testata giornalistica legata a Emergency che racconta i conflitti nascosti in giro per il mondo: e qui in Puglia ce n’è uno. Scendo perché mi fa piacere tornare a salutare Marcella, ogni tanto ci sentiamo per telefono e ho voglia di vedere come se la passa adesso, in piena stagione di raccolta.

Qualche mese prima Monsef mi aveva chiamato disperato. “Hai visto” aveva detto, “È morto un ragazzo, era mio amico, lavoravamo insieme. Lui abitava vicino a me, a Borgo Libertà”. Io non ne avevo notizia, e nemmeno cercando su internet ne avevo saputo qualcosa, nessuna agenzia riportava di quella morte. Era un ragazzo rumeno di trentanove anni, rimasto schiacciato da un trattore ribaltatosi su un terreno in contrada Racucci Secondo, lungo la provinciale 95. La moglie stava lavorando anche lei su quel terreno, zappava. Lo facevano da quattro anni, ed erano diventati amici con Monsef. A loro andava perfino bene, prendevano tre euro e mezzo all’ora. In nero, ovviamente.
Perciò Monsef mi aveva chiamato. Lo sentivo nella voce, era sconvolto. “Aiutami” mi aveva detto, “voglio venir via di qui, io faccio il saldatore, trovami un posto su al nord”.
Mi ero dato da fare, e qualche possibilità l’avevo trovata. Ma poi, passato il momento di disperazione, Monsef si era riassestato nella sua quotidianità, in quella campagna che desidera e che odia. Per uno come lui, che ha fatto un salto mortale all’inizio, è difficile rifarne un altro, una volta trovata una sia pur minima stabilità. Così Monsef, per telefono, mi aveva detto che aveva cambiato idea, aveva deciso di star lì. Che anzi era tornato in Tunisia dove aveva conosciuto una ragazza, adesso si sarebbero sposati, e lei sarebbe andata ad abitare con lui.
“Però vediamoci” dice. Non riusciremo a incontrarlo, invece. Questo è il periodo in cui inizia a lavorare alle quattro e smette a mezzanotte. Gli dico che andiamo noi dove lavora, così almeno ci salutiamo. “No”, dice “se il padrone vi vede si arrabbia, non vuole estranei da queste parti, non vuole gente che ficchi il naso nelle sue cose”.

Con Marcella invece ci vediamo, anche se non è per il racconto, le sue cose me le ha già dette per telefono. Però mi mostra dal cellulare le foto della sua bella figlia, che ha vent’anni e studia a Bergamo.
Una birra, il solito peroncino. Bevo insieme a un ragazzo polacco, e penso a quel centinaio di ragazzi polacchi scomparsi da queste parti negli ultimi anni, come si è saputo a fine del 2006. Lui è qui da due anni e mi dice che è cosa nota che molti di quelli sono stati uccisi perché protestavano e reclamavano condizioni migliori. Sono stati uccisi a botte dai “capi”, dice, e i capi – che noi chiamiamo caporali - sono italiani, ucraini o polacchi come loro, in ogni caso persone che li sfruttavano facendoli lavorare e trattenendogli un euro e mezzo per ogni cinque euro guadagnate, a cui vanno aggiunti tre euro per il passaggio a macchina. Capitava che qualcuno venuto dalla Polonia si rendesse conto di questo taglieggiamento solo dopo un po’ di tempo, e osava pretendere condizioni migliori. Allora, i “capi” li mettevano al loro posto. Quello dei servi.

Mi siedo al sole. Luca torna dal suo giro per i campi con la sua macchina digitale. Seduta accanto a me una bella ragazza nera, e una bambina che la chiama mamma. Ma la mamma è piuttosto ubriaca, e da come la bambina le si rivolge pare che le relazioni tra di loro siano invertite. La bambina, che si chiama Diana, è volitiva, sicura di sé. Instaura subito un rapporto con Luca, che le insegna a usare la macchina digitale. Lei capisce al volo, è molto intelligente. Nel frattempo, parlo con Caterina. Che viene dalla Sierra Leone. “Sono venuta con mio marito, a Napoli. Ma mi picchiava. Sono scappata” dice. Parla lenta, di quella lentezza propria dell’alcool in un pomeriggio d’estate. Sembra raccontare con levità, ogni tanto sorride, di un sorriso dolce, bambinesco – precisamente quel sorriso che manca dal volto della bambina che deve farle da madre. Poi d’un tratto, come se fosse un ricordo della sua condizione presente che si ripresenta come spavento, esclama: “The world is wicked”. E piange.
Le accarezzo la nuca, i capelli. Poi si solleva dal suo scivolare, il corpo si fa più eretto sullo schienale della sedia di plastica bianca: “Basta, parlare. Parlare mi fa male. Balliamo?”, mi dice.

Poi arriva un vecchio, camicia sbottonata, una sensazione di sporco che emana. Papà, le dice lei. Il “papà” le si getta addosso, quasi le si siede in braccio, si strofina su di lei, la mano a sfiorarle il seno. È impaziente. “Aspetta” dice lei. “Andiamo”, lui insiste. “No, adesso no. Più tardi”.
Lei adesso vuole me. “Voglio stare con te” dice. Sono una possibilità migliore di quel vecchio viscido e sporco. Mi chiede di darle il mio numero di telefono. “Non voglio stare con te” le dico. Però sono a disposizione per te e la tua bambina. “You love her more than me”, mi rimprovera.

Dalla stanza del bancone Marcella manda musica africana, che muove alla danza. Io mi sono alzato, accenno un passo. Caterina mi viene davanti, e si muove, scivola. Diana pareva concentrata nell’imparare il funzionamento della macchina digitale, ma è lì, e vigila. Viene e prende sua madre per mano. La tira via. Non vuole che balli. Non vuole. Caterina si fa tirare via, e dice “Lei è l’unica cosa che ho”. Torniamo alle sedie circolari, con Luca. Io dico due battute, Caterina ride. Luca dice a Diana, “Take a picture of your mama laughing”. Diana scatta.

Nella sedia accanto a me si viene a sedere un signore alto, distinto, di mezza età. È rumeno. Si presenta, mi chiamo Pietro. “Scusate se mi intrometto, ma vi vedo qui e mi piacerebbe parlare con voi. Sapete, questo non è il mio ambiente, io so parlare. Mi sono sempre interessato di tante cose: sono appassionato di storia. Io qui soffro per non poter parlare bene, per non poter usare tutto il mio vocabolario”. Caterina intanto mi passa una mano sulle spalle, e stringe, si aggrappa a me, che non le scivoli via. “Purtroppo un poliziotto tre anni fa mi ha fatto togliere la patente, io ero un autista, così ho perso il lavoro. E ho perso anche la parola.”

Mentre parliamo viene a interromperci un signore ghanese anche lui di mezza età, ma molto più segnato dal tempo. L’ho visto altre volte qui, ma non ci ho mai parlato. Anche le altre volte, come adesso, era ubriaco. So come si chiama, Kojolì, perché ho sentito Marcella dirgli tante volte di star buono, di non urlare, di non chiedere più vino perché non gli faceva più credito. “Ah sì, lui parla” dice di Pietro. “Io sì che ho una bella storia! Sono stato in America io, negli Stati Uniti, facevo la guardia. Poi mi sono sposato e sono tornato in Ghana. Accidenti a me quando mi sono sposato”. Il racconto è confuso, e la storia è una storia da ubriaco, che si inventa l’America dei sogni.
Il racconto di Kojolì si interrompe, ché tanto non ha bisogno di finire. Segue Caterina che si è rialzata per ballare, anche Marcella è uscita, balla anche lei, e con Kojolì fanno tre, adesso Caterina ha di nuovo quel sorriso dolce di bambina, guardo Diana e ce l’ha anche lei quel sorriso dolce adesso che la sua madre-figlia non balla con uomini che la possano comprare.

Finisce la danza, Caterina torna a sedersi, e viene anche Marcella. Che dice di aver detto tante volte a Caterina di portarla in collegio o di darla a un educatore. Ma come fare, Caterina è clandestina. “E se lei non decide, non posso mica decidere io per lei.” Io non voglio perderla, dice Caterina.

Arriva un’auto, una vecchia Fiat Tipo. Scende una donna giovane e corpulenta, con i capelli raccolti in treccine nero ruggine. Caterina si alza, come se sperasse di andar via. Mama, le dice. Ma la mama – quella che probabilmente gestisce la casa in fondo alla strada – le ordina: Sit down.

E Caterina siede, e riprende il lavoro. Torna ordinatamente nella fila di quell’esercito nel quale si è arruolata, divisione di una legione straniera dalla quale, una volta entrati, è poi così difficile uscire. Penso ai libri che ho a casa, alle storie che ho letto. Forse la storia che Caterina mi ha raccontato è vera, forse in questa rete c’è caduta davvero dopo il suo arrivo, quando è scappata dal marito. Non so. Ma di certo lei fa parte di una rete potente, ed è l’anello più debole. Una rete che usa decine di migliaia di ragazze africane ed esteuropee, le stime vanno dai 20mila ai 50mila, per “servizi alla persona”, come nel caso delle badanti – solo che queste “sex workers”, essendo illegali, sono nelle mani di trafficanti che le riducono in stato di semi-schiavitù, quando non in schiavitù vera e propria.
Del resto l’Italia ha il record in Europa, 115 vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale ogni 100mila abitanti maschi adulti. Al secondo posto l’Austria con 84. In Spagna, 54. In Germania, 45. In Francia, 27. E questo record di offerta corrisponde evidentemente a un record di domanda. Si dice che siano 9 milioni gli italiani che “consumano” questa merce.
Ecco, quel vecchio “papà” – riguarda tutti noi, le viscere di questo paese, molto più di quanto non si pensi. O se si pensa, non si dice.

Marco Rovelli

Serie Bianca/Feltrinelli
Marco Rovelli

SERVI
Il paese sommerso dei clandestini al lavoro

Il libro
L’universo dei clandestini al lavoro. Una situazione drammatica fatta di violenze e soprusi da parte di caporali e datori di lavoro italiani che fanno leva sulla ricattabilità della forza lavoro clandestina per sequestrare loro documenti, trattenere le misere paghe concordate, il tutto condito da insulti e violenze quotidiane, con la collaborazione attiva di piccoli malavitosi locali. Uno scenario che mai compare sui quotidiani nazionali e che invece rappresenta la dorsale nascosta di un’Italia truce e violenta: l’altra faccia del mito “italiani brava gente”.
Dalle campagne siciliane e del foggiano, fino ai cantieri edilizi e agli ortomercati del Nord,da questo libro emerge una fotografia brutale del nostro paese. Marco Rovelli si è mischiato con i clandestini, bevendo insieme a loro il tè, e comunicando, facendosi raccontare le loro storie finora inascoltate: dal loro racconto emerge anche il volto crudele del nostro capitalismo,ritornato in alcune aree e comparti a forme ottocentesche di sfruttamento.
L’autore
Marco Rovelli (Massa 1969) insegna, suona e scrive. Tra i suoi libri Lager italiani (Rizzoli 2006), un “reportage narrativo” dedicato ai centri di permanenza temporanea (Cpt). Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide (Rizzoli), sulle morti sul lavoro in Italia. Suoi racconti e reportage sono apparsi su “Nuovi Argomenti”,“l’Unità” e “il manifesto”. Fa parte della redazione della rivista on line “Nazione Indiana”. Collabora con Transeuropa Edizioni. Dopo aver fatto parte per anni del gruppo musicale Les Anarchistes, è da poco uscito con il CD LiberAria.