Rivista Anarchica Online


 

4.280 pagine
sulla rivoluzione

È appena uscita la “International Encyclopedia of Revolution and Protest” (Oxford, Wiley-Blackwell, 2009, pp. 4280, 8 volumi, 803 euro), una monumentale enciclopedia delle insurrezioni, delle rivoluzioni e delle proteste popolari ai quattro angoli del pianeta: dalle lotte anticoloniali in India alle rivolte contadine in Bolivia, dagli scioperi insurrezionali in Patagonia alle ribellioni dei lavoratori tropicali delle piantagioni di banane. E poi ancora le lotte per i diritti comunitari indigeni, le guerre di liberazione, le proteste per i diritti umani, i movimenti studenteschi e i raduni contro il G8, passando attraverso Pancho Villa e i Mau Mau.

Curata da Immanuel Ness e pubblicata da Wiley-Blackwell in Gran Bretagna e USA (ovviamente in inglese), l’“International Enciclopedia” si inserisce in una serie di repertori che ha conosciuto fortuna già da molti anni anche altrove (si veda in Francia il “Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français” o in Italia, solo per citarne alcuni, il “Dizionario dell’antifascismo e della Resistenza”, “Il Movimento operaio italiano: dizionario biografico”, fino al più recente “Dizionario biografico degli anarchici italiani”).
La novità qui è rappresentata dal taglio internazionale, che permette di coprire fenomeni di insubordinazione popolare estremamente eterogenei; dalle esperienze ideologiche e strategiche inventariate; dal team di curatori attento a catalogare gli aspetti di intersezione tra genere, etnia e classe nei movimenti di protesta, coordinando il lavoro di più di 700 ricercatori provenienti da svariati paesi, esperti anche di antropologia politica, di postcolonial studies, di gender and subalternal-studies. Non solo storici, quindi.

L’abitudine redazionale anglosassone in questi casi è di etichettare la pubblicazione come “definitive”, “indispensable”, “impressive”. Di certo si tratta di un utilissimo strumento di lavoro per quanti si dedicano alla storia dei movimenti di massa. Monumentale l’opera lo è di certo nelle dimensioni – 8 volumi per un totale di 4280 pagine – e ahimè anche nel prezzo (803 euro l’acquisto dell’opera, altrimenti consultabile in futuro online, probabilmente con un abbonamento meno oneroso). Un prezzo purtroppo che la rende poco fruibile da chi fa ricerca in maniera indipendente in contesti non accademici e militanti e non dispone di fondi. Forse potrà essere acquistata in Italia almeno da qualche biblioteca universitaria, anche se i tagli delle risorse finanziarie non lasciano pensare a rosei incrementi dei patrimoni bibliografici.

La speranza è che opere di questo tipo non siano utilizzate solo da chi scrive una monografia per vincere un concorso, ma più proficuamente da chi progetta romanzi e saggi, sitiweb e fanzine con la prospettiva di continuare a “trasformare il mondo, cambiare la vita”. Quella della lotta contro il potere è un’epica di cui i movimenti degli ultimi cinquecento anni (dagli eretici ai luddisti fino ai sindacalisti rivoluzionari e ai nativi) hanno dato espressione, e c’è bisogno di una continua rielaborazione narrativa per estrarre da questo ammasso di materiale esistenziale sedimentato nelle varie enciclopedie e nei dizionari bibliografici – utili per riallacciare i fili e le trame dei movimenti – delle storie che siano ancora vive e parlino non solo del passato ma anche del presente. Non basta incrociare i repertori, ci vuole anche la capacità di ricercare negli archivi, di raccogliere la memoria orale, e soprattutto di sentirsi parte di un processo di trasformazione della realtà. Sta qui la differenza tra l’interpretazione vivificante di un’epica di lotta da un lato – di cui in Italia il New Italian Epic è un esempio – e dall’altro la classificazione delle ceneri dei movimenti.

Alberto Prunetti

La pagina web dell’enciclopedia è consultabile all’indirizzo http://www.revolutionprotestencyclopedia.com/public/


Ida, Benito junior
e Benito

Un film importante, di grande tensione civile, etico e duro. È Vincere, di Marco Bellocchio, salutato a Cannes da una lunga standing ovation, tutta meritata.
Il film si dipana attorno alla storia di Ida Dalser, una donna importante nella vita del giovane Benito Mussolini, forse sua moglie forse no, sicuramente madre di suo figlio, Benito Albino – che Mussolini infatti riconobbe. Ida è bella, giovane, appassionatamente attratta da quell’uomo: lo aiuta, lo sostiene quando se ne va dall’“Avanti!” e fonda “Il Secolo d’Italia”. La pensa come lui, vive per lui. Ma il giovane Mussolini ribelle, anticonvenzionale, anticlericale cova un’anima perbenista e da “uomo d’ordine”: sceglie Rachele, la rassicurante massaia rurale.
Una fotografia ed un montaggio splendidi accompagnano nella estrema violenza sociale e politica del “periodo furioso che copre il primo ventennio del secolo”. Alla violenza dei moti di piazza interventisti (“Guerra sola igiene del mondo”), a cui Mussolini subito si avvicina, fanno da contrappunto le immagini di violenza da Sarajevo, dal fronte della Grande guerra e poi quelle del fascismo nascente: gli squadristi, gli assalti ai giornali di sinistra, alle case del popolo, alle feste socialiste. Fiamme, urla, fez issati su volti stravolti dall’odio, bastonature, prepotenze, linguaggio violento e ferino a cui si accompagna passo passo la grande, vergognosa violenza usata verso la donna Ida e suo figlio.
Mussolini, ad un certo punto, la cancella: il fascismo rientra completamente in ranghi perbenisti e reazionari, si prepara la firma del Concordato con la Chiesa cattolica.
Ida rincorre il suo uomo, gli mostra il piccolo: invano, riceve solo umiliazioni. Frappone tra la verità e la menzogna se stessa ed il suo corpo, si para davanti ai gerarchi nei momenti ufficiali, in cui i fez e le camicie nere si mescolano alle grisaglie borghesi ed alle tonache dei prelati: è troppo.
Ecco l’esilio nella casa della sorella e del cognato, che comunque sosterranno sempre con grande affetto e sacrificio personale lei e il piccolo Benito, ecco l’internamento in manicomio e la sottrazione del figlio.
Isa grida sempre la sua verità: non si accontenta che tutti sappiano, vuole che si riconosca la verità, lo vuole pervicacemente ed ossessivamente. Figura di un compulsivo eccesso femminile, Ida vuole che le parole riconoscano la verità, che la dicano. E il machismo, il disprezzo verso la donna, il perbenismo, la menzogna fascista risaltano per contrapposizione a questa donna sola nel suo essere internata, umiliata, cancellata, ma sempre resistente.
Bellocchio ci mostra cos’erano i manicomi, prima della grande e civile legge Basaglia: in una sequenza indimenticabile, in un manicomio, quello di Venezia, più “umano”, Ida e gli altri internati vedono “Il monello” di Chaplin, la povertà forte della propria dignità e del proprio amore che resiste alla violenza e alla mancanza di umanità dell’ordine costituito.
Piangono tutti, poi, quando Charlot si riprende il monello, scoppia un applauso incontenibile: l’amore può vincere.
Ida e suo figlio, chiuso in un istituto, seguono lontani l’uno dall’altra la carriera di Mussolini, che diventa sempre più grottesco nelle parole e nei modi: un clown feroce, la maschera farsesca di una tragedia che si avvicina alla fine.
Icona violenta, farisaica, volgare di un ventennio che ugualmente violento e volgare, le teste di Mussolini rotolano giù mentre rotolano nei cieli le bombe portate dalla guerra fascista, che metterà a ferro e a fuoco il nostro Paese: le nostre belle città in fiamme, i volti di chi soffre, un uomo carezza dolcemente le caviglie di una donna stesa su un carro, forse ferita, forse morta.

E sapere che era già tutto là, in quel linguaggio pieno di odio, in quella vertigine di violenza e di volgarità che l’amore di Ida non ha potuto fermare.
Benito junior finirà anche lui in manicomio, distrutto dal sapere di essere figlio dell’altro Benito ma deprivato, progressivamente, della madre, degli zii, e poi del cognome: finiranno col chiamarlo Dalser, come la madre. E lui finirà con lo scimmiottare il padre, rifacendogli il verso nei momenti più grotteschi, uguale a lui in modo imbarazzante.
Troppo, anche per le sua stabilità mentale.
Nero e una gamma di grigi è il colore di questo film bellissimo: soli fotogrammi più chiari quelli dei rari momenti di quiete di Ida, una Giovanna Mezzogiorno meravigliosa, nel corpo, nel volto, nello spirito, che morirà anch’ella in manicomio.
Sapete, questo film suscita grande ammirazione, ma anche pena ed imbarazzo: è per questo, forse, ha scritto Ida Dominijanni, che non ha avuto grande stampa in Italia. È un film fieramente antifascista, “è una bomba scagliata al cuore dell’immaginario politico italiano obnubilato da vent’anni di berlusconismo e di rivalutazione prima strisciante poi sfacciata del fascismo. È un agghiacciante memento di quello che il fascismo è stato: repressione, manipolazione, machismo, militarismo, sadismo, un impasto della storia nazionale che può sempre tornare e anzi è già tornato. Ci mette implacabilmente di fronte a uno specchio. È in quello specchio che in tanti non sopportano di guardarsi”.
E non c’è niente di più difficile, e di più importante, che sapersi specchiare bene.

Paola Meneganti


I nostri primi
“ragazzi”

È sicuramente un versante scarsamente esplorato, e per questo ancor più interessante, quello da cui parte Piero Brunello, docente di Storia sociale all’Università Ca’Foscari di Venezia, nel ricostruire le poco conosciute vicende delle sezioni della Prima Internazionale sorte, fra il 1872 e il 1881, nelle terre ai confini fra Emilia e Veneto (Piero Brunello, Storie di anarchici e di spie, Roma, Donzelli, 2009). Un versante poco esplorato perché l’autore affronta le vicissitudini del periodo “eroico” del primo socialismo e anarchismo italiano, muovendo non solo, come è prassi, dalle fonti ufficiali di quegli anni – congressi e convegni, attività militante, produzione propagandistica e giornalistica dell’Internazionale – ma anche, grazie ad una attenta esplorazione delle carte di polizia, dalle vicissitudini quotidiane di questi giovanissimi “anarchisti” e dalle mene poliziesche che tentavano, a dire il vero con scarso successo, di frenare la crescita del sovversivismo italiano.
Sembra incredibile, oggi, in tempi nei quali maturi signori di 30-40 anni sono ancora definiti “ragazzi”, leggere le impegnative vicende di questi imberbi diciottenni e diciannovenni (si pensi a Costa, Malatesta e Cafiero, che a soli a vent’anni vanno a incontrare Bakunin a Lugano e di lì a poco iniziano a programmare le prime imprese insurrezionali) che affrontano, a volte con fare spavaldo, a volte con la pena nel cuore ma sempre a testa alta, la dura repressione poliziesca (mesi e anni di carcere inflitti nella più serena indifferenza) e la non meno dura riprovazione della chiusa e ipocrita bigottaglia dei loro paesi. Giovani tanto seriosamente impegnati a tracciare un futuro di solidarietà e progresso, quanto capaci di affiancare all’elaborazione di progetti “incendiari” l’ironia e lo sberleffo che ogni allegra brigata di ventenni riserva al mondo degli adulti osservato dai tavolacci dell’osteria.


Il lavoro di Brunello ha sicuramente il pregio di intrecciare felicemente le tre direttrici, i tre piani attraverso i quali si è sviluppata la sua ricerca: la vita privata dei primi internazionalisti, la loro attività propagandistica fatta di riunioni pubbliche e di accidentate azioni alla macchia, le attenzioni e le mene poliziesche volte a controllare, se non a indirizzare, gli avvenimenti. Tanto che questa fedele, attenta e puntigliosa ricostruzione viene puntualmente a trascendere l’aspetto della specifica rielaborazione storica, per introdurre il lettore in una sorta di dimensione romanzesca che ne rende ancora più avvincente e coinvolgente la lettura. Perché sono proprio come il canovaccio di un romanzo le pagine che narrano i momenti “eroici” della nascita dell’anarchismo e del socialismo nel nostro paese, e che mostrano come quel grumo di idee, di sentimenti, di principi che avrebbero segnato, e (forse ancora) segnano la storia del nostro paese, nasceva soprattutto in ambienti provinciali (Ferrara, Imola, Monselice, Abano, Badia Polesine, ecc.) ed era spesso il portato non di prestigiosi teorici o di sperimentati militanti “della classe”, ma di gracili giovanotti, di studentelli, scrivani, contadini, di artigiani e apprendisti operai, che spalancavano, con il loro ingenuo e scanzonato ardore, le porte di un nuovo mondo.
Eccole, quindi, le tormentate avventure di questi personaggi, di “compagni” quali il ferrarese Oreste Vaccari, o Carlo Monticelli di Monselice e il veneziano Pietro Magri, ed Emilio Castellani di Badia Polesine, oggi quasi dimenticati anche se furono fra i primi a predicare l’inconciliabilità del conflitto fra mondo del lavoro e società del profitto. E accanto a loro, a fare da controcanto, i poliziotti, quelli di mestiere, questori e funzionari di ambasciata, più preoccupati di far carriera che non di preservare quell’ordine costituito di cui avrebbero dovuto essere fedeli custodi, e quelli occasionali, chi per vocazione come il tristemente noto Carlo Terzaghi, o chi, come il veneziano Rodolfo Boenco, costretti alla delazione per sottrarsi a ricatti e vessazioni. Vediamo così i nostri protagonisti percorrere a piedi le campagne padovane e ferraresi a portare il verbo fra i contadini, o raggiungere rocambolescamente e con mezzi di (scarsa) fortuna Chiasso, Lugano, Milano per partecipare ai semiclandestini consessi internazionalisti e conoscere i padri fondatori del nascente movimento. E dare vita, con incrollabile costanza, a numeri unici e periodici, fogli dai nomi fantasiosi (Vespertilio, La pietra infernale, Petrolio) scritti da redattori con noms de plume ancora più fantasiosi (Chirottero, Conte di Luna, Nottivago) e nei quali non solo si dispiegano solennemente i principi universali della lotta contro lo Stato e il potere, ma si stigmatizzano, con identica determinazione, i vizi privati e le pubbliche virtù delle chiuse e bigotte società borghesi di quelle terre. Le stesse società che ci rimandano con il pensiero, senza essere malevoli, a quelle che oggi fanno il bello e cattivo tempo nelle iperproduttive e paranoiche lande del mitico nord est.
Era inevitabile che questo impegno di destare la coscienza delle masse contadine ed operaie in una società soffocata dalla miseria e dal conservatorismo e di denunciare la falsità dei dogmi sui quali si impiantava la società italiana nata dal Risorgimento, spingesse la borghesia conservatrice e fedele alla dinastia a delegarne il contrasto non a politiche di riforme e di sviluppo, ma alla efficacia della autorità di polizia. La quale, con la solerzia necessaria alla bisogna e con l’aiuto delle sue quinte colonne costrette dal ricatto, affiancò all’occhiuta vigilanza la puntuale repressione di ogni forma di associazione e di propaganda. E anche se una parte della magistratura non volle stare al gioco – furono numerosissimi, infatti, i processi risoltisi con l’assoluzione degli internazionalisti preventivamente incarcerati, ai quali veniva riconosciuto l’alto valore morale che ne aveva ispirato i “delitti” – non v’è dubbio che l’attività repressiva, se non seppe fermare lo sviluppo dei movimenti sociali, poté comunque disseminarne il percorso con ostacoli fatti di anni di carcere e di emarginazione.
Del resto, come avrebbe dimostrato la successiva storia del paese, la posta in gioco era effettivamente alta. Infatti, quelli che sembravano i velleitari tentativi di sprovveduti adolescenti, di trasmettere ideali di rinnovamento ed emancipazione e di infondere una volontà di riscatto all’interno di masse popolari incapaci di pensare un destino che non fosse quello della fame e dello sfruttamento, dovevano diventare, nella maturità del movimento, una potentissima leva capace di imporre il mutamento sostanziale delle dinamiche sociali. E quindi, come illustra la ricca ricerca di Brunello, aveva davvero l’occhio lungo la polizia del nuovo Stato unitario, quando si affannava a creare la sua sordida trama di spioni e delatori.
Ma per quanti ne cercasse, con le minacce, gli arresti e i ricatti, furono davvero pochi quelli che rinunciarono alla propria integrità tradendo i compagni. E furono ancora meno quelli che del proprio tradimento vollero, successivamente, menare vanto. Nonostante tutto, anche per chi non era più in grado di condursi lealmente, rimaneva la consapevolezza che l’idea che si rinnegava restava pur sempre un meraviglioso sogno d’amore.

Massimo Ortalli