Rivista Anarchica Online


cultura

Omaggio a Ivan Illich
di Federico Battistutta

Sottrarsi agli esperti di professione diventa sempre più difficile. Eppure è indispensabile per vivere meglio. La lezione di questo ex prete, le cui tesi provocatorie hanno suscitato un’attenzione che non si placa.

La traiettoria e il destino pubblico di Ivan Illich (1926-2002) è stato comune a quello di tanti irregolari nei confronti dell’universo culturale e del mondo della ricerca: dopo un momento aureo di celebrità, si sono ritrovati ben presto all’angolo. Apparentemente scomparsi, hanno proseguito con coerenza e attenzione il proprio lavoro, continuando, seppure in modo sotterraneo, ad incontrare l’ascolto di una cerchia, senz’altro meno appariscente ma anch’essa coerente e attenta.
L’anno passato sono usciti in italiano un paio di libri di Illich, a un primo sguardo diversi fra loro, ma i cui contenuti si rispecchiano e si integrano vicendevolmente. Si tratta di Esperti di troppo (Erickson) e Pervertimento del cristianesimo (Quodlibet).

Ivan Illich

Contro la scuola, contro la medicina

Il primo dei due prosegue i temi che hanno contraddistinto tutta l’opera di Illich, con libri che hanno goduto di un ampio riconoscimento, come Descolarizzare la società e Nemesi medica. Qui il centro del discorso non è rivolto all’analisi di una specifica istituzione, ma percorre trasversalmente le innovazioni in atto in ognuna di esse. L’edizione originale è del 1977: a quell’epoca Illich aveva davanti a sé lo sviluppo del modello nordamericano, ma leggendo oggi questo scritto non si può non rimanere colpiti dalle intuizioni profetiche della critica illichiana.
La tesi centrale del libro (accanto all’intervento di Illich vi sono quelli di altri collaboratori dello studioso austriaco) riguarda il potere insinuante degli esperti nell’ambito dei servizi, da quelli educativi, a quelli medici, socio-assistenziali e altri ancora. Ascoltiamo il linguaggio non certo asettico da lui usato per descrivere il dominio esercitato da queste corporazioni: “Sono radicate più profondamente di una burocrazia bizantina; più internazionali di una chiesa universale; più stabili di qualsiasi sindacato; dotate di più competenze che uno sciamano; con una presa ferma sopra le loro vittime più di qualsiasi mafia”.
Queste figure si presentano come professionisti del tutto rassicuranti al servizio dei cittadini, e questi ultimi si trovano a loro volta rubricati, repentinamente e senza accorgersene, alla categoria degli utenti o di clienti. Non più persone, nemmeno cittadini. Per ciascuno di loro gli esperti sono pronti ad indicare ciò di cui ha così intimamente bisogno al punto da non saperlo nemmeno. Situazione paradossale e preoccupante; con le parole di Illich: “in ogni ambito in cui possa essere immaginato un bisogno umano, queste nuove professioni, dominanti, autoritarie, monopolizzatrici, legalizzate – e, nello stesso tempo, disabilitanti – sono divenute depositarie esclusive del bene pubblico”. Dal momento in cui si nasce a quello della morte ogni ambito dell’esistenza si trova scomposto in parti sempre più piccole, gestita ognuna da un particolare specialista.
Sottrarsi agli esperti di professione diventa sempre più difficile, la loro presenza onnipervadente è sempre meno un’opportunità lasciata alla libera decisione personale, per divenire un obbligo codificato legalmente, il cui rifiuto viene letto e tradotto dalle istituzioni come il segno di un comportamento antisociale. Alla fine il potere di queste élite di professionisti si rivela profondamente disabilitante per i cittadini, in quanto tali corporazioni finiscono per auto-assegnarsi la determinazione dei bisogni umani e delle procedure previste per soddisfarli. Tanto i singoli che le comunità si trovano così espropriati della possibilità di esercitare per conto proprio determinate prestazioni, come avveniva in passato, come pure di ricorrere al sostegno di altri, scelti però in piena libertà.
L’accettazione acritica e passiva di questo sistema può avere esiti pericolosi che possono sfociare solamente in dottrine politiche autoritarie, in direzione di forme più o meno sofisticate di tecno-fascismo o in follie neoprometeiche. (E le due prospettive non si escludono: si vedano a questo proposito le antiutopie di Orwell o da Huxley).
L’alternativa a tutto ciò risiede per Illich nella scoperta di un ethos post-professionale, a un tempo gioioso e austero, praticato inizialmente da minoranze non ideologizzate decise a sfidare il dominio degli esperti e delle condizioni socio-tecniche nelle quali si trovano a vivere. “Speriamo che l’ethos post-professionale” conclude Illich “ ci porti verso un panorama sociale più colorato di tutte le culture del passato e del presente messe insieme”.

La natura demoniaca del potere

Il secondo libro di cui parliamo ha una forma insolita: si tratta della trascrizione di una conversazione, registrata tra il 1997 e il 1999, in seguito trasmessa da una radio canadese. Il testo viene presentato come il testamento di Illich stesso, e vi sono buoni motivi per avvalorare l’affermazione, infatti in questo volume l’autore ritorna dopo tanti anni, a compiere una riflessione sul cristianesimo e sulla Chiesa. Ricordiamo che Illich, prima di dedicarsi all’analisi critica delle forme istituzionali in cui si esprime il mondo contemporaneo, aveva effettuato rigorosi studi teologici presso la Pontificia Università Gregoriana. Era stato inoltre ordinato sacerdote sotto il pontificato di Pio XII, divenendo in seguito uno dei più giovani monsignori della Chiesa del tempo. Più tardi, a causa di alcuni provvedimenti disciplinari nei suoi confronti istruiti dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Illich aveva maturato in maniera unilaterale la decisione di autosospendersi dalla Chiesa, dichiarando di non poter esercitare alcun incarico presso un’istituzione che non nutriva alcuna fiducia nei suoi confronti.
Nel volume in questione rivediamo Illich tornare a discutere di quei temi su cui aveva taciuto per tanti anni e, in tale prospettiva, questo Pervertimento del cristianesimo costituisce proprio una sorta di messaggio estremo, di vero e proprio atto testamentale.
Il centro di queste conversazioni sta nella percezione dell’insegnamento e della testimonianza di Gesù come di un invito all’uomo a volgersi nei confronti dell’altro in piena e sincera libertà, e di conseguenza in modo disponibile e spontaneo, al punto da farsi sorprendere e spiazzare dalla presenza dell’altro, come accade con lo sconosciuto “che bussa alla porta e chiede ospitalità”. Questo annuncio compiuto in forma diretta e viva da una persona verso un’altra persona, ha finito con l’essere corrotto, a partire dal momento in cui ciò che poteva essere un gesto compiuto nella libertà ha finito per essere istituzionalizzato, sottomesso a una legislazione, protetto attraverso la criminalizzazione del suo contrario.
Se da un lato col primitivo messaggio cristiano si è resa possibile una capacità di apertura interamente nuova, si è ben presto reso possibile l’esercizio di un nuovo potere, quello di coloro che organizzano il cristianesimo, coloro che rivendicano “la loro superiorità come istituzione e organizzazione sociale”.
“Il mio regno non è di questo mondo”, recita un noto versetto del vangelo, ma commenta Illich: “dal Medioevo in poi, la Chiesa ha cercato di costruire un ordine cristiano sulla terra, rafforzando la fede col potere, nel tentativo di regolare la carità, garantire la speranza e assicurare la salvezza”.
Corruptio optimi pessima, “Ciò che era ottimo, una volta corrotto, diventa pessimo”. In questo nucleo denso e paradossale sta per Illich il mysterium iniquitatis: la Chiesa, a partire dall’età costantiniana, per passare a quella gregoriana, sino all’età tridentina, per giungere alla più recente Chiesa pre- e post-conciliare ha ribaltato e pervertito l’unicità di un annuncio rivolto agli uomini. La natura del potere, sembra dire Illich, è intimamente demoniaca, sempre, anche quando pensa di agire per nobili obiettivi; poiché il potere si preoccupa in primis di sé stesso, della sua sopravvivenza e della sua espansione, finendo inevitabilmente per entrare presto o tardi in collisione con quei fini per i quali doveva essere un docile strumento. E in questa prospettiva la riflessione presente in questo volume si riannoda con quelle riscontrabili in Esperti di troppo riferite ai vari professionisti.
Un’ultima osservazione, quanto mai attuale, riguarda il fatto che per Illich – contrariamente a una chiave interpretativa del tempo presente che oggi va per la maggiore, secondo cui la nostra società occidentale altro sarebbe se non un’evoluzione secolarizzata di categorie cristiane –, ciò che si è realizzato storicamente è il rovesciamento del messaggio cristiano, a cominciare dalla parabola compiuta dallo stesso cristianesimo. Le radici storiche dell’Europa, su cui tanto si accapigliano intellettuali e politici, risiederebbero non nel cristianesimo quanto nel suo radicale pervertimento.

Prospettiva conviviale

Convinto di non avere risposte bell’e pronte da fornire, a differenza degli esperti di professione (“Spero che nessuno consideri le cose che ho detto come delle risposte”, è l’ultima affermazione che compare nel libro), quali tracce di percorso lascia intravedere Illich per il presente che viviamo? Sommessamente ci invita a percorrere una vocazione di amicizia, nel domandarsi costantemente quello che è possibile fare per l’altro (“che cosa posso fare io, in questo preciso momento, in questo hic et nunc assolutamente unico”), anziché sforzarsi di umanizzare questa o quella istituzione. Parallelamente vi è l’invito a scoprire per sé quelle piccole ma essenziali pratiche di rinuncia che possono divenire un’abitudine necessaria per una pratica di libertà effettiva (“la certezza di potercela fare senza è uno dei modi più efficaci per convincerci di essere liberi”), per la riscoperta di un sé “al di sopra delle costrizioni del mondo”.
È, questa, un’ulteriore declinazione dell’annuncio di quella prospettiva conviviale, rivolta in primo luogo – come stava scritto nell’introduzione all’omonimo volume risalente agli anni Settanta – “all’uomo austeramente anarchico”. Un invito, dunque, da non dimenticare, anzi da raccogliere e sviluppare, con passione e intelligenza, con fervore critico e sentimento.

Federico Battistutta