Rivista Anarchica Online


politica

La politica della catastrofe
di Maria Matteo

Da New Orleans all’Aquila. Prove tecniche di guerra interna.


Era l’agosto del 2005. Giovedì 25 Katrina, un urgano classificato come disastroso, passa sulla Florida lasciandosi alle spalle 7 morti. Il 28 agosto il sindaco di New Orleans, Ray Nagin, ordina l’evacuazione, facendo allestire 10 rifugi, tra cui il gigantesco Superdome, per chi non può scappare. Chi ha soldi e mezzi abbandona la città, gli altri sono costretti a rimanere nei quartieri più poveri, quelli costruiti sotto il livello delle acque che circondano la città. Anche la vita ha un prezzo: un prezzo che occorre pagare in contanti o carta di credito.
Katrina perde di forza ma le dighe che circondano la città, prive di manutenzione da tempo, cedono. Le acque del Mississippi, del golfo del Messico e del lago Pontchartrain si riversano sulla città, sommergendola. Dal pantano di rifiuti, sostanze chimiche e cadaveri emergono solo i tetti delle case. A New Oleans vivevano circa un milione di persone. I poveri e i neri, che abitavano le zone più basse e miserabili, erano circa il 20% della popolazione. Il numero dei morti e degli sfollati non verrà mai calcolato con precisione. I cadaveri non vengono raccolti né dagli angoli delle strade, né dalle acque dove galleggiano, né dalle baracche.
Viene avanzata l’ipotesi che i morti possano superare i 6.000 del terremoto di San Francisco del 1906 o i 12.000 dell’uragano che nel 1900 distrusse Galveston nel Texas.
I superstiti trascorreranno due terribili giorni senza ricevere alcun aiuto. Intrappolati nei loro tuguri o nel fango sono costretti alla ricerca di acqua cibo vestiti medicine.
La Fema, la protezione civile statunitense, la guardia nazionale e la polizia, non soccorrono in alcun modo la popolazione ma trattano da sciacalli i disperati alla ricerca di qualcosa da mangiare e da bere, aprendo il fuoco sulla gente.

New Orleans, agosto 2005. Dopo Katrina / L’Aquila, aprile 2009. Dopo il terremoto

Il governo peggio di Katrina

I sopravvissuti forzano i negozi e le case per sfamarsi e coprirsi. Aumentano gli scontri con gli agenti che intervengono in forze a difesa della proprietà privata. Il 30 agosto Bush dichiara Louisiana Mississippi Alabama Georgia Florida zone disastrate, mobilita l’esercito a difesa dei patrimoni e ordina di usare le armi contro chi si appropria di oggetti altrui.
La stampa statunitense diffonde numerose notizie sulle violenze dei neri poveri contro i turisti che hanno trovato rifugio nel Superdome. Si parla di rapine, stupri, soprusi. Nessuna di queste notizie gridate dai media troverà conferma nelle successive testimonianze dei turisti. Ma, a questo punto, i riflettori saranno calati.
La governatrice della Louisiana, Kathleen Blanco, ordina l’evacuazione dei sopravvissuti dalla città. I gendarmi vanno a caccia di superstiti e arrestano chi oppone resistenza. Il 31 forze dell’ordine e gruppi di superstiti si scontrano più volte. I sopravvissuti fanno irruzione al Lindy Boggs Hospital e contendono ai gendarmi le barche di salvataggio.
Il 3 settembre la Casa Bianca invia 7.000 militari, come primo contingente di un dispositivo di 50.000 soldati, per domare i sopravvissuti e riprendere il controllo della città. Ordine: sparare a vista.
Katrina non è stato così feroce coi poveri come governo, esercito, protezione civile, polizia. Il 4 settembre l’ordine regna su una distesa di fango, escrementi, cadaveri. New Orleans si è trasformata in una città spettrale, pronta per una redditizia opera di ricostruzione, dopo la deportazione dei superstiti della catastrofe.
L’amministrazione statunitense, ribadendo la propria attitudine a trattare in termini di ordine pubblico le questioni sociali, ha dimostrato di essere in grado di mantenere il controllo militare del territorio. Gli organi di stampa hanno collaborato alla trasformazione delle vittime in sciacalli, giustificando l’intervento dell’esercito.
Il cerchio si chiude.
Quanto accaduto a New Orleans quattro anni fa non rappresenta un’eccezione. L’occupazione militare del territorio, la violenza contro i poveri, la trasformazione del disastro “naturale” in affare sono frutto di un’oculata strategia. In occidente, il modello statunitense di gestione del conflitto, un modello essenzialmente bellico, ha trovato numerosi imitatori. Dalle periferie francesi e inglesi a quelle nostrane, dove ronde, formazioni paramilitari, soldati nelle strade preparano il terreno per un futuro prossimo all’insegna della guerra contro i poveri.
In Italia il retaggio socialdemocratico e quello cattolico rendono difficile “sparare a vista” sulle vittime di un disastro “naturale”: la sperimentazione sociale è quindi più lunga e articolata. Necessita di un apparato propagandistico più sofisticato ed attento.

Una ragionata follia

Calamità come inondazioni, terremoti, frane creano l’occasione per sperimentare sul campo strategie di occupazione e controllo militare del territorio, trasferimento forzato di intere popolazioni, repressione del dissenso, e, infine, buoni affari per tutti.
La gestione del recente terremoto in Abruzzo ci offre numerosi spunti di riflessione.
In rete gira questa lettera: “Ho visto l’Aquila. Un silenzio spettrale, una pace irreale, le case distrutte, il gelo fra le rovine. Cani randagi abbandonati al loro destino. Un militare a fare da guardia ciascuno agli accessi alla zona rossa, quella off limits. Camionette, ruspe, case sventrate. Tendopoli.”
A soli sei giorni dal terremoto riapriva un grosso centro commerciale: business is business. Ancora a metà giugno il centro storico è chiuso, sorvegliato da uomini armati che impediscono l’accesso a tutti. Chi vuole tornare a casa propria per recuperare qualcosa è obbligato a code infinite, infinita folle burocrazia nel nulla che circonda i campi tende, dove manca tutto, tranne il controllo asfissiante di carabinieri, polizia, protezione civile.
All’Aquila chi può va via: per gli altri i campi. Di concentramento.
Il futuro qui è una New Town costruita dalla solita combriccola di affaristi senza scrupoli, gli stessi che hanno devastato il territorio e saccheggiato risorse pubbliche in ogni angolo della penisola. Amici di quelli di sinistra e amici di quelli di destra, perché il colore dei soldi è sempre bipartisan. Come l’Impregilo, che ha tirato su un ospedale di sabbia, crollato come un castello di carte alla prima scossa. Alla faccia del certificato antisismico.
Un ragazzo di una tendopoli ha dichiarato “quello che il governo sta facendo sulla nostra pelle è un gigantesco banco di prova per vedere come si fa a tenere prigioniera l’intera popolazione di una città, senza che al di fuori possa trapelare niente”.
Nei campi hanno vietato internet e distribuire volantini; chi vuole visitare un amico o un parente deve sottoporsi a perquisizioni umilianti. Chi porta aiuti deve essere provvisto di pass. Poi si sono inventati anche il G8. Una ragionata follia che consente al governo di riempire di militari anche i boschi, imponendo regole ancora più rigide a chi non può permettersi di lasciare i campi tende.
Controllo del territorio, la vita quotidiana segnata da burocrazia e uomini in armi, i media che nascondono la mancanza di igiene, tutela sanitaria, libertà di movimento, agitando nel contempo il fantasma della protesta violenta, degli anarchici, del Black Bloc. Ma niente paura: l’ordine di “sparare a vista” non l’hanno dato. Per il momento.
L’Aquila come New Orleans è un laboratorio. Un laboratorio dove provare le strategie per un futuro dove la rinuncia agli ammortizzatori sociali apre la strada a conflitti senza mediazione politica o sociale. Conflitti dove la parola passa alle armi e alla propaganda. L’emergenza, reale o immaginaria, semplifica il conflitto e l’applicazione immediata di misure giustificate dall’urgenza.

Il dissenso criminalizzato

A Napoli l’emergenza rifiuti, pur reale, ha giustificato la repressione delle popolazioni in rivolta contro l’ulteriore scempio del territorio rappresentato da discariche e inceneritori. Un’abile campagna stampa di supporto ha criminalizzato chi si opponeva, accusandolo di collusioni con la Camorra.
Nel nostro paese la questione “sicurezza”, pur in gran parte immaginaria, ha aperto le porte a leggi contro gli immigrati, gli oppositori politici e sociali, al dispiegamento sul territorio dei militari.
Niente di nuovo o di scandaloso. Tutte le guerre cominciano con una campagna di costruzione del nemico. Sempre feroce, cattivo, pericoloso. Da annientare.
Quelli della NATO, che la guerra la pensano e la fanno per mestiere, sin dal 2003 hanno elaborato strategie militari per il controllo delle rivolte urbane. Sanno bene che le guerre di oggi sono esterne, ma anche interne. E si preparano. Si preparano al 2020, per adeguare l’azione bellica agli scenari posti dai mostruosi agglomerati metropolitani del futuro prossimo venturo.
Nel rapporto Urban Operations in the year 2020, redatto dall’RTO, Reserch and Technology Organisation della NATO, si afferma esplicitamente che le “operazioni urbane” serviranno sia per l’occupazione di territori nemici, sia per affrontare “crisi” interne.
Ogni guerra necessita di esercitazioni, per provare nuove armi, nuove strategie, nuove possibilità. Ma la sperimentazione in vitro prima o poi viene sostituita da prove sul campo.
Uragani e terremoti offrono ai soldati l’occasione di un test concreto.
A New Orleans hanno provocato il disastro, tagliando i fondi per le dighe, abbandonando i poveri al loro destino, trattandoli da delinquenti e infine deportandoli altrove. All’Aquila hanno costruito con la sabbia, chiuso la popolazione in campi organizzati militarmente, criminalizzato preventivamente il dissenso.
È la politica della catastrofe.

Maria Matteo