Rivista Anarchica Online


dossier

Sfumature anarchiche
in Simone Weil
di Monica Giorgi

I miei contemporanei hanno preferito giudicarmi in mille modi diversi ma bastava semplicemente che ammettessero che l’oggetto della mia ricerca era l’umanità e l’oggetto del mio amore erano gli ultimi, i diseredati.

Simone Weil


Antefatto

L’opportunità di ordinare in scrittura lo studio su Simone Weil è sorta grazie all’organizzazione di un incontro tra compagni e compagne, amiche e amici del Circolo anarchico Carlo Vanza, avvenuto in Locarno il gennaio scorso e per dar seguito al mio desiderio di far conoscere, proprio in quel luogo, una piccola, ma per me essenziale, parte del pensiero della filosofa francese, della quale quest’anno ricorre il centenario della nascita.
La loro presenza, il loro ascolto, il loro interesse e le loro obiezioni sono state un dono prezioso che mi ha permesso di assolvere ad almeno due obblighi.
Il primo è verso il mio caro amico Paolo Finzi che ricordo di aver deluso un po’ con la decisione di privilegiare, per la stesura del lavoro di tesi, lo studio e la scrittura su un’autrice – Clarice Lispector – a discapito di Simone Weil che era comunque nel mio cuore in attesa di avvicinarla. I motivi di tale rinvio stavano nella intuizione, se non proprio nella consapevolezza, di non essere capace, pronta ad affrontare una relazione di studio e di analisi con la dovuta distanza che consentisse uno scrivere mostrativo più che dimostrativo. Non intendevo svolgere un lavoro ideologico condizionato dalla stretta ricerca delle coincidenze con il pensiero anarchico. Il fatto di sentirmi troppo implicata in esso non favoriva di fatto quella indipendenza necessaria. La presa a carico di una scrittrice che mi era più estranea in questo senso mi avrebbe aiutata. E così è stato. Con notevoli guadagni per la riuscita del lavoro allora svolto, per l’avvaloramento attuale di una concezione dell’anarchia, in me al tempo ancora un po’ troppo stereotipata, che invece la leggerezza acquisita nello spogliarmene, esercitandomi in altro, ha sortito. Rendendomi, credo, meno incapace di cogliere le differenze e le prospettive impreviste che sento stare all’origine di qualcosa di essenziale, di vero. Discuterne con altri/e (mi) offre la misura di quel che vado aspirando.
L’altro obbligo, evidentemente, è verso Simone Weil: obbligo immenso, insolvibile a fronte di una pensatrice a dir poco sconvolgente: per la profondità del pensiero e per il costante impegno, per l’inesauribile lavorìo di scavo tra politica e morale a partire da sé, per l’amore della verità anche quando, anzi soprattutto quando, essa tocca cose dell’altro mondo… che sembrano non stare né in cielo né in terra, fuori di lei e dentro di lei, fuori di sé in un sé di mistero. Il tutto testimoniato da una varietà di scritti, dai Quaderni alle lettere, dagli articoli improntati nell’urgenza del momento alle poesie (comprendenti un dramma, Venezia salva), fino ad una miriade di appunti, taccuini, fogli sparsi. Una simile vastità mi ha posto in una condizione per cui le dovute cesure, le scansioni, i tagli e le selezioni, per dire appena qualcosa di lei, vengono avvertite come dolorose perdite dell’altro ancora che l’esistenza e l’opera di Simone Weil rimandano.
Nadia Fusini sul quotidiano La Repubblica ha elaborato, nell’autunno scorso, un testo sulla figura della filosofa francese tra mito greco e orrore nazista. L’ha intitolato Simone Weil la guerriera. Di fatto, la solitudine, di cui Simone riconosce i frutti moltiplicati dell’amicizia, non l’ha mai indotta in un’esistenza appartata, nella turris eburnea cara, non di rado, a qualche “intellettuale”. Il mondo intero è la sua patria, come recita una canzone anarchica, ma è anche il mondo che si costruisce nella concretezza di relazioni vive, quotidiane. Le frequentazioni intense e non dispersive la fanno essere lì dove oppressi e vinti, deboli e prigionieri richiamano la sete di giustizia: fino alla morte che non avrebbe voluto fallire in un letto di sanatorio, ad Ashford nel Kent, come invece avvenne.
In un primo tempo avevo usato come titolo per la mia ricerca il termine “tracce”. “Sfumature” segnala, invece un’intermittenza, avvertita durante il percorso di studio, tra il forzare l’autrice in una vicinanza troppo prossima al senso di un’ideologia anarchica scontata, il che è un controsenso in verbis oltre che nei fatti, e il vederla a distanza, in una remota vicinanza. Il problema sussiste in me per quella rischiosa immedesimazione – schiacciata sul cercare le compiacenti affinità – che non lascia partorire niente di nuovo e della quale ho accennato, all’inizio del mio discorso, essere il motivo del rimando.

Simone a due anni
con il fratello André, Paris, 1911

Concezioni eretiche

Perché ci sia passaggio, movimento inalterato e fedele al testo occorre schivare la tentazione dell’interpretazione. Tanto più se il pulsare intermittente e sfumato ha il ritmo di un respiro vitale, che ho desiderato ritrovare nella discussione con le altre/i. Inserisco subito un’affermazione resa a posteriori: ciò che avvicina e allontana Simone Weil al pensiero anarchico è la sua indipendenza simbolica che la fa stare ovunque senza appartenere ad alcun schieramento. È anarchica e non è anarchica; non è comunista e non è socialdemocratica; non è cristiana e lo è ad altro ed eccedente livello: con l’assunzione della figura umana-divina di Cristo in senso particolare e con la lettura del tutto originale dei movimenti del cristianesimo primitivo, espulsi come eretici dal potere temporale della chiesa. Sono elementi quest’ultimi non estranei alla tradizione del pensiero e dell’esperienze anarchiche. A questo proposito ricordo la posizione di Simone Weil, riscontrabile nella Lettera a un religioso, sulla possibilità di lasciarsi battezzare e di entrare nella chiesa. Simone, nel 1942, circa un anno prima di morire, a En-Calcat, dove attende nell’abbazia benedettina alle cerimonie della settimana santa, sottopone un questionario a padre Clement per valutare quella eventualità con la determinazione però di non dover rifiutare a priori alcune verità, considerate ed espulse dalla chiesa in quanto eretiche. Lei non le avrebbe mai smentite in quanto, come si esprime, «le ha dentro». Pertanto l’interlocuzione con la chiesa comporta che questa si misuri con la “vocazione” di lei. Simone riposiziona un rapporto non di mera forza ma di ordine, dove sono le verità esperienziali di chi le testimonia (Chiesa, La grande secondo l’espressione di Margherita Porete) a dare credito parziale, e sempre contrattabile, alla chiesa, la piccola. Le condizioni irrinunciabili vengono poste da Simone nell’apertura della formulazione interrogativa, non sul piano incontrovertibile dei contenuti di principio. Le domande nella fattispecie di quel questionario chiedono l’ammissibilità circa:

  • il rifiuto della concezione della storia conclamata dalla chiesa, sostenendo invece la possibilità di incarnazioni precedenti a quella di Cristo e la considerazione di grave errore quello che ha spinto Israele ad attribuire a Dio gli ordini di sterminio;
  • l’accettazione da parte della chiesa di alcune opinioni di Marcione, ritenendo la conoscenza di Dio più diffusa in alcuni paesi non cristiani che in quelli cristiani, considerando inoltre le opere gnostiche, di mistica, i testi vedici, taoisti e tutto ciò che è scorporato dal dominio culturale delle istituzioni storiche come fonte di ricerca per la verità.

Padre Clement non le nasconde che tali opinioni sono da considerarsi eretiche. E lei non entra, sta sulla “soglia”, in quella fertile contraddizione tra ciò che è e non è, che costituisce la specificità del suo fare pensiero e del suo essere, come dice Nadia Fusini, La guerriera: una guerriera che lavora sempre su due fronti, quello simbolico e quello reale.
Il rifiuto dell’attribuzione che ha fatto del dio di Israele un dio degli eserciti, potente e sterminatore assume un significato singolare, più di antigiudaismo che di antisemitismo, giacché l’opposizione di Simone Weil alle concezioni ebraiche avviene in ambito teologico e non razziale (1); tanto più singolare se si tiene presente l’origine ebrea di Simone Weil.

Simone con il padre a Mayenne,
1915-1916

La cosa impalpabile

Nasce a Parigi, il 3 febbraio del 1909. Suo padre, Bernard Weil, era nato a Strasburgo nel 1872 da una famiglia di commercianti ebrei di origine alsaziana. Medico, si professava, a differenza dei suoi genitori, ateo. La madre, Salomea Reinherz, era nata a Rostov sul Don nel 1879 da una ricca e colta famiglia ebrea di origine galiziana: quando essa aveva due anni, la famiglia si trasferì ad Anversa. Donna intelligente ed energica, presiederà con grande cura all’educazione di Simone e di suo fratello André, nato nel 1906 e distintosi come eminente matematico.

Il ritrovamento di un più ampio senso anarchico, l’ho ricevuto paradossalmente – avverbio di valore considerevole, come ho già cercato di specificare in merito allo stare weiliano sulla linea della contraddizione e del conflitto – proprio nei contorni simbolici dove meno me lo aspettavo: nell’assunzione della necessità, nella tensione verso la trascendenza, nella libertà spirituale che cresce nell’obbligo d’amore per il mondo.

Simone Weil intesse la sua filosofia, senza farne discorso sul metodo, in questa trama. “La vera filosofia non costruisce niente, appunta nei Quaderni, il suo oggetto le è dato, sono i nostri pensieri; essa ne fa solo l’inventario. Se incontra delle contraddizioni non dipende da essa sopprimerle, a rischio di mentire”. Vorrei sgombrare il campo da scontati giudizi che fanno del pensiero e dell’opera di Simone Weil una sorta di rifugio intimista e di accettazione quietista. Tali apparenze insorgono quando, cercando di nominare l’innominabile e non potendone sostenere l’abissalità da cui proviene, il lavoro del simbolico sfuma in altro. La cosa impalpabile che è il simbolico – non è l’ordine sociale, né combacia con il reale, né si riduce all’immaginario e va ben oltre il politico ristretto a luoghi deputati – insomma, quando quella cosa sfumata che è il simbolico entra in campo, la sua parola è l’antideologico per eccellenza. È quel suo essere e non essere al contempo che mi induce a dichiarare Simone Weil più realista del re. In traduzione adeguata al contesto in cui mi trovo, è meglio dire, più anarchica di chi anarchica/o espressamente si dichiara.
Dunque: obbligo (diritto dell’altro), tensione alla trascendenza, rapporto con dio, spirito e libertà nella necessità sono istanze che fanno forse rabbrividire chi si appella alla storia libertaria e anarchica. Ma lasciate che sia Simone Weil a dispiegarle, a partire da sé come parte di sé senza assolutizzazioni, citandole una per una:

  • Filosofia (compresi i problemi della conoscenza, ecc), cosa esclusivamente in atto e in pratica. Per questo è tanto difficile scrivere al riguardo. Difficile così come un trattato di tennis o di corsa a piedi, ma in misura superiore.
  • Si ritiene che il pensiero non impegni, ma esso solo impegna e la licenza di pensare racchiude ogni licenza.
  • Preferisco dannarmi obbedendo al Dio, che salvarmi disobbedendoGli.
  • Ci sono due modi contrari di concepire la regalità: fare del proprio idolo Dio [e questo lo riconosce come il modo presieduto dal nazionalismo, dal totalitarismo, dalla concezione sionista del popolo eletto e dalla prescrizione iconoclasta] o fare di Dio il proprio idolo; fare del proprio desiderio la legge, o fare della legge il proprio desiderio. Dio quaggiù è destabilizzante. L’amicizia con lui non dà alcun potere [il potere di chi non ha potere] ma finché è presente nella sua verità ai pensieri degli uomini nessun potere terrestre raggiunge la stabilità.
  • La libertà autentica non è definita da un rapporto tra desiderio e soddisfazione, ma da un rapporto tra pensiero e azione. Non nella impossibile quanto formale coerenza logica tra pensiero e azione, ma nella consapevolezza della loro materiale virtualità d’espressione: il pensiero è agente e l’azione dà da pensare…

Occorre ricordare che fin quando Gustave Thibon, il filosofo e agricoltore presso il quale Simone si reca a lavorare come contadina negli anni dell’esilio a Marsiglia (1940-1942), non pubblica La pesanteur et la grâce nel 1947, (pubblicazione postuma come quasi tutti gli scritti della filosofa francese, approntati sempre per interlocuzioni e studi richiesti dalle problematiche del momento), la notorietà di Weil era rimasta confinata negli ambienti sindacali e politici della sinistra, considerata un’intellettuale presente con una carica radicale in tutti i dibattiti sociali e ideologici degli anni ’30. Il merito di quella pubblicazione sta nell’aver rivelato al pubblico, ma anche a quanti l’avevano frequentata da vicino, un pensiero filosofico-religioso nuovo e per molti aspetti sconcertante. A me preme sottolineare ancora una volta come il suo pensiero sia lavorato sempre su due piani: uno a carattere teologico e l’altro politico, con l’effetto di provare un’unità di impegno che risulta trasformativa di sé e dello stato di cose presenti. In altre parole si mette in gioco nel cercare l’efficacia simbolica tra spazio pubblico e privato.
Simone Weil rappresenta un punto di riferimento privilegiato, se non addirittura originale, per la politica delle donne, che è chiamata anche politica del simbolico. La filosofa francese ha sempre trascurato, anzi rifiutato quando richiesta, di mettere a tema la donna e la sua condizione. Di sé considera una sfortuna essere nata donna. Questa sua, per certi aspetti oscura avversione, è recuperata, in forma altra, nell’attenzione riversata agli effetti sul corpo rispetto alle pratiche di lavoro e di riflessione, effetti che hanno e sono immediatamente effetti d’anima. Come dire, stretta connessione nella vita della mente in anima e corpo. Mi sento di poter affermare che proprio l’essere andata al di là del femminismo emancipazionista, con l’assunzione della singolarità del corpo e dei corpi – anima e anime incluse – rende Simone Weil una madre simbolica del femminismo della differenza e della politica del simbolico. Per questi temi rimando al saggio di Wanda Tommasi, alla folta bibliografia in esso presente e ai molteplici scritti pubblicati dalla comunità filosofica femminile Diotima.

Simone e André a Mayenne, 1915-1916

Due parole a immagine di un linguaggio

Vorrei spendere due parole per limitare un discorso infinito. Le due parole, alla lettera, sono: apeiron e anarchè. Le ho scelte per ovvi motivi.
Nei Quaderni, l’apeiron è citato spesso insieme al suo autore, Anassimandro, filosofo presocratico ed uno dei primi fisici naturalisti. Simone Weil lo annota come spunto di riflessione ulteriore relativamente al discorso sulla scienza e la conoscenza. Lo abbina inoltre ad un contesto per certi versi spiazzante: le fiabe araucane, Fiabe «de nunca acabar», ossia Fiabe che non finiscono mai. Infinite dunque, come infinito, indefinito sono alcune delle traduzioni date al termine greco. Di fatto Simone Weil, che conosce il greco antico, lo scrive in originale e lo traduce in più sensi: immateriale, caso, illimitato, Dio. Le sue traduzione avvengono non solo alla lettera, dal greco al francese e qui, malamente da parte mia, nell’italiano, ma su piani-mondi che concernono l’immagine creante realtà, come dimostrano i significanti di caso e di Dio. Sono in circolazione mondo, parola, linguaggio, realtà e qualche barlume di verità. Ciò che intriga la filosofa francese è inoltre la cosiddetta formula di Anassimandro: “Le cose che sono difatti subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia, secondo il decreto del Tempo”. La formula (le) sembra una dichiarazione della presenza del male, in senso ontologico e non morale, che rimanda ad un bene puro, infinito… Tanto che l’insito carattere negativo-distruttivo è impresso in termini positivi – creanti quando lei scrive: “L’apeiron di Anassimandro è la madre del Timeo, la materia pura, indifferente, specchio della giustizia. È il contrario del bene, ma non è il male; è il correlativo del bene. Il male non è il contrario del bene, come l’errore non lo è della verità”. L’assunzione del conflitto è da lei riletta all’origine delle cose quando così trascrive: “Anassimandro, ingiustizia della cose. Se le cose non fossero ingiuste, ci sarebbe equilibrio, cioè immobilità. Il divenire è il male. Al contrario l’indeterminato origine e fine degli esseri, nutrice e tomba, è di per sé perfettamente puro”. Sembra stia a dire che l’infinito lo si intuisce dal finito, la giustizia dall’ingiustizia, l’increato dal creato, l’immateriale dal materiale, il positivo dal negativo, il fare dal disfare, e così via? La formula dei contrari di Anassimandro, dipanata nel lemma apeiron, si dispiega secondo Weil in “rotture compensate”.

L’altra parola da spendere è anarché. Il motivo è ancora più ovvio: mostrare le sfumature anarchiche. Stando ai miei riscontri, Simone Weil la cita una sola volta come sostantivo e nell’accezione negativa di disordine: “[…] anarchia della produzione”, che determina spreco, guerra, sovrapproduzione, stoccaggio, concorrenza ecc, ecc. Come aggettivo è più spesso usata e viene fissata nell’idealità, nella purezza: anarchè come massima espressione dell’ordine, ricorda Eliseo Reclus. Anche Simone allude ad un’armonia atemporale, eterna e impossibile nel mondo terreno ma non meno reale, sebbene avvertita nella forma dell’irreale. Come quell’apeiron indeterminato, origine e fine degli esseri, di per sé perfettamente puro. “Un futuro del tutto impossibile, come l’ideale degli anarchici spagnoli, è molto meno degradante, differisce molto meno dall’eterno che non un futuro possibile. Anzi, non degrada affatto se non per l’illusione di possibilità. Se è concepito come impossibile, trasporta nell’eterno. Il possibile è il luogo dell’immaginazione, e quindi della degradazione. Bisogna volere o ciò che precisamente esiste, o ciò che non può affatto essere; meglio ancora ambedue. Ciò che è e ciò che non può essere sono ambedue fuori del divenire”, scrive nei Quaderni.

Apeiron e Anarché, contemplandole come meri segni, riflettono, o meglio a me fanno intuire, una incontrovertibile semiotica del mistero, al di là del loro rispettivo, seppur vagamente assonante, significato e oltre ogni conferibile significazione. I due lemmi sono articolati in radice negativa: alfa privativo in peiron e alfa privativo in archè. La ricongiunzione con il prefisso negativo, per entrambi, in-a-materia (peiron=materia) e in-a-principio (archè=principio, ordine, inizio) determina un significante del tutto sensato, un semema sufficientemente preciso da non far perdere il filo del senno, per non uscir folli: immateriale, amateriale, imprincipio, non principio, disordine. Dunque apeiron e anarchè contengono nell’immateria la materia e la non-materia, ossia la materia pura, e nel non-principio il principio e il non principio, altrimenti detto increazione ab aeterno, senza inizio e senza fine.
I suggestivi logoi di affermare negando e negare affermando sono riportati nell’ermeneutica (De interpretatione) di Aristotele come le due specificazioni del discorso enunciativo. Catafatico indica l’affermazione, apofatico la negazione. Entrambi vengono in seguito utilizzati nell’ambito del discorso teologico. La teologia affermativa costruisce un discorso positivo riguardo a Dio in quanto gli attribuisce al grado sommo tutte le perfezioni appartenenti al mondo creato. La teologia negativa dichiara invece l’impossibilità di affermare alcunché di positivo su Dio. Per la teologia negativa Dio è Nulla, perché i caratteri della sua esistenza sfuggono a ogni sforzo di definizione umana. Il riferimento ad Aristotele mi serve per dire che, a ridosso dei due lemmi considerati, l’essere e il non-essere convivono in un solo essere dicibile in tono apocatafatico. Ora la teologia weiliana e l’ideale anarchico condividono un dio impotente, un concreto nulla di dio e un costrutto decreante. La linguistica ha anche un puntuale modo di definire la relazione tra i segni. La chiama relazione partecipativa. Distinguendola da quella oppositiva e funzionale, essa trascrive A?B in tal forma: A?nonA+A.
Le due parole a immagine di linguaggio mi sembrano parlare una lingua consonantica. Dicono di un principio sottrattivo riscontrabile nella pratica dell’astensionismo anarchico; riecheggiano la pars construens nel motivo del destruens. Simone Weil coglie la doppia realtà nel Tao che è via e verità, meta e fine, azione non-agente e non-azione agente. L’immagine weiliana della creazione consiste nel mettere al mondo in gesto sottrattivo, come la madre mette al mondo la propria creatura ritraendosi. La propensione verso l’ordine ideale – per quanto impossibile – è decifrabile attraverso lo specchio rovesciato di ciò che non si è, di ciò che esiste in assenza. La disposizione ad accogliere una porzione pur minima di infinito è ponderabile attraverso quel che manchiamo; secondo la dicitura lacaniana, amare è dare ciò che non si ha. “Dio – risponde Simone Weil a padre Perrin, l’interlocutore dell’ultima ora che in lei riconosce il dono della grazia divina – Dio si compiace dei rifiuti; pratica il recupero degli scarti”.

Le due parole sono diventate un lungo discorso in cui sto rischiando di perdermi. Voglio dire semplicemente che lottare sulla base di un non starci al miraggio del potere e della delega è un lottare affermativo molto più di un’adesione irriflettuta e convenzionalmente accettata. La sottrazione è un’operazione magica (meno per meno dà più). Ciò mi sembra molto anarchico e sicuramente è (stato) molto weiliano.

Simone e André a Penthièvre,
1918-1919

Alcuni dati biografici …per dire il tipo…

Filosofa, insegnante, operaia, contadina, scrittrice, mistica, credente e miscredente, dentro le cose divine e fuori dalla chiesa, Simone Weil mi appare la singolare guerriera senza eserciti, la cui breve esistenza – muore a trentaquattro anni, il 24 agosto del 1943 – occorrerebbe misurare in base all’intensità, alla profondità con cui è stata vissuta. Si intuirebbe, forse, che i due ordini di misura sono di ordine sghembo, particolare; non coincidono affatto, nemmeno secondo una proporzionalità indiretta; trovano contatto in un punto di mistero che resta la cifra di quel mistero riflesso che compone la Vita.
Di intelligenza precoce, si laurea nel 1931 e si dedica all’insegnamento. La scoperta della condizione operaia l’avvicina ben presto al sindacalismo rivoluzionario e la spinge anche a vivere quella condizione in prima persona (1934). Nel '36 si unisce alla colonna Durruti, “come soldato, nei ranghi”. Al 1938, dopo una settimana trascorsa a Solesmes, risale l’interesse, qualcosa di più vivente di un interesse culturale, per i problemi religiosi, destinati a diventare centrali nell’ultimo scorcio della sua vita. L’attenzione ad essi rivolta non diminuisce l’impegno per quelli operai e sindacali, anzi li approfondisce e li significa sotto una diversa concezione della politica non più ristretta nei luoghi deputati dei costituiti poteri temporali.
All’arrivo dei tedeschi lascia Parigi per rifugiarsi con la famiglia a Marsiglia; nel ’42 si imbarca con i genitori per l’America da dove riesce caparbiamente a ricongiungersi alla resistenza di France libre a Londra, con l’intento di essere impiegata nella lotta antinazista in azioni di sabotaggio, “preferibilmente pericolose”, come da sua richiesta. L’addio ai genitori viene da Simone “giustificato” in questi termini: “Se avessi più vite ve ne dedicherei una, ma ho solo questa”. A Londra redige il Progetto di una formazione di infermiere di prima linea: donne, lei compresa, disposte al sacrificio della vita per prestare i primi soccorsi ai feriti direttamente sul campo di battaglia, presenza che avrebbe dato coraggio morale, ben diverso dal fanatismo dei nazisti, ai combattenti. L’azione, che non avrebbe posto eccessivi problemi organizzativi, avrebbe avuto un’efficacia simbolica nello scenario della guerra. Il progetto fu sottoposto a De Gaulle, che però non l’approva. Si dice anche che abbia esclamato: «Ma è pazza?».
Gustave Thibon, il filosofo contadino che possiede una fattoria nell’Ardèche e presso il quale Simone svolge lavori agricoli, racconta così: “Ogni sera si sedeva su una panchina di pietra vicino alla fontana […] e là mi leggeva a lungo Platone sostenendo, con mille spiegazioni, il mio incerto procedere di grecista. I suoi doni pedagogici erano prodigiosi: se essa sopravvalutava volentieri le possibilità di cultura di tutti gli uomini, sapeva anche mettersi al livello di chiunque per insegnargli qualsiasi cosa. Sia nell’insegnare la regola del tre a un ragazzino ritardato sia nell’iniziarmi agli arcani della filosofia platonica, essa metteva se stessa e tentava di ottenere dal suo discepolo quella qualità di estrema attenzione che, nella sua dottrina, si identificava alla preghiera” (2).
Simone Pétrement, l’amica che scriverà la più completa biografia sulla Weil, la incontra per l’ultima volta a metà settembre del 1941. È colpita soprattutto dalla sua grande dolcezza e serenità: “Di una bontà più tenera, più calma, ora la sua compagnia era, più che mai, di un fascino estremo”.
Alain (Emile Chartier), il filosofo maestro durante gli studi alla Normale parigina, nel commento al prezioso scritto intitolato Manifesto per la soppressione dei partiti politici, la considera “una mente di prim’ordine”; i politici di professione nei raggruppamenti della sinistra di lei dicono: «…ci chiedeva la luna…».
Padre Perrin riporta, nell’introduzione per Attesa di Dio, una serie di riscontri espressi su di lei e da lei. Un giovane operaio, suo compagno di lotta racconta: «Simone non ha mai fatto politica. Se tutti fossero come lei, non vi sarebbero più sventurati». “Le Puy fu la sua prima cattedra, scrive Perrin, là poté testimoniare concretamente la sua autentica comunione con la miseria altrui. Per aver diritto al sussidio di disoccupazione gli operai erano costretti a dure fatiche. Simone li vedeva, per esempio, spaccare pietre; e come loro e con loro volle maneggiare il piccone. Li accompagnò in non so quale tentativo di rivendicazione in prefettura. Giunse al punto di trattenere per sé soltanto una somma corrispondente al sussidio di disoccupazione, distribuendo il resto dello stipendio agli altri. Il giorno in cui riscuoteva lo stipendio, la porta della giovane professoressa di filosofia era assediata da una fila di suoi protetti. Più tardi spinse la sua delicatezza sino a donare largamente il suo tempo, strappato ai libri tanto amati, per giocare a carte con qualcuno di loro, per tentare di cantare con altri”. L’essersi messa, in quanto richiesta dagli stessi disoccupati, alla testa di quel movimento scatena grande scandalo nella stampa conservatrice. Si fanno pressioni grossolane sulle autorità accademiche perché venga allontanata dal liceo, ma queste, anche per la solidarietà del sindacato, delle sue stesse allieve e della Lega dei diritti dell’uomo, preferiscono non intervenire con sanzioni disciplinari. Al contrario la lotta dei disoccupati ha successo. Un duro commento di Simone alla campagna di stampa promossa contro di lei in quanto insegnante e donna è espresso nell’articolo Une survivance du régime des castes.
In L’azzurro del cielo, Georges Bataille, intellettuale del Cercle communiste democratique, conosciuto dalla Weil nell’ambito della collaborazione alla rivista La Critique sociale, delinea una trasfigurazione di Simone Weil nel personaggio di Louise Lazare: “Era sui venticinque anni, brutta e visibilmente sporca… Il cognome, Lazare, si addiceva al suo aspetto macabro meglio del nome proprio. Era strana, anzi piuttosto ridicola… Era, in quel momento, la sola persona che mi aiutasse a sfuggire alla prostrazione… Portava abiti neri, sgraziati e macchiati. Pareva non vedesse nulla davanti a sé, spesso urtava i tavoli passando. Senza cappello, i capelli corti, irti e spettinati le creavano ali di corvo intorno alla faccia. Aveva un gran naso di ebrea magra, la carnagione giallastra usciva da quelle ali sotto gli occhiali cerchiati d’acciaio… Esercitava un suo fascino, e per la lucidità e per le sue idee di allucinata. Quel che mi interessava di più in lei, era l’avidità morbosa che la spingeva a dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati. Riflettevo: dev’essere un sangue povero di vergine sporca”.
In una particolare circostanza, quando è arrestata sotto l’accusa di gollismo, interrogata a lungo viene minacciata di essere gettata in carcere dove “lei, professoressa di filosofia, si sarebbe trovata a contatto con le prostitute”, Simone replica: «Ho sempre desiderato conoscere quell’ambiente e l’unico modo per potervi entrare sarebbe per me proprio la prigione». A queste parole, il giudice ordina di rimetterla in libertà come una folle innocua.
Giunta a New York, ricorre a tutte le conoscenze e vecchie amicizie per farsi richiamare a Londra ed entrare nella resistenza: “Ve ne prego, fatemi venire a Londra, non lasciatemi consumare di dolore qui!..Sono sull’orlo della disperazione”. Una volta a Londra, affossato dalla Commissione per la guerra il suo progetto di essere paracadutata sul campo di battaglia nella Francia occupata, si nutre per quel poco a cui i razionamenti del periodo di guerra costringevano la popolazione francese.
Poco prima di morire, in una toccante lettera alla madre, Simone, commentando le figure dei folli nelle tragedie di Shakespeare e nella pittura di Velazquez, scrive: «Cara M., non senti l’affinità, l’analogia profonda tra questi folli e me – malgrado la Scuola Normale, l’agrégation e gli elogi della mia “intelligenza“?… Scuola, ecc., sono nel mio caso delle ironie in più. Si sa bene che una grande intelligenza è spesso paradossale, e talvolta farnetica un po’… Gli elogi della mia intelligenza hanno lo scopo di evitare la domanda “Dice il vero o no?” La mia reputazione d‘“intelligenza” è l’equivalente pratico dell’etichetta di folli di questi folli. Come preferirei la loro etichetta!».

Simone Weil dodicenne a Baden-Baden,
1921

Oltre Proudhon e Marx: confronti

Dire che Simone Weil è un’outsider rende conto solo in parte della raffinatezza e del rigore con cui la filosofa francese esprime il lavoro del pensiero. Mai dimentica il rapporto tra pensiero e azione, giacché in tal rapporto legge la “libertà autentica”. Non di una coerenza tra il pensato e l’agito si tratta; viceversa l’abbinamento indìce un’analogia asimmetrica, non perfettamente coincidente l’uno sull’altra. Apre spazi dove circolano la libertà di pensare e di agire, a partire da sé, dalla propria riconosciuta parzialità che non sconfessa la parzialità dell’altro e di altro impensato. Credo che l’appellativo di “guerriera”, conferito a Simone da Nadia Fusini, trovi senso proprio in questa analogia. In altra immagine, la vedo come chi, sul filo della contraddizione, procede senza risolverne i termini, con passi di ulteriorità che nessuna rete di salvataggio sostiene. E, di certo, non per dimostrare un compiacente coraggio che Simone mostra avere in sé, ma che è coraggio visibile solo allo sguardo dell’altro.

Filosofa dunque della contraddizione, della libertà correlata, a sua volta, alla necessità accolta quale radicamento dove operare metodicamente. In una pagina dei Quaderni, Simone annota: “Proudhon, Verhaeren… sfuggire alla necessità? come i bambini? ma ci si perderebbe questa vita preziosa e ciò si paga con una schiavitù di altro tipo – innanzitutto di fronte alle passioni – poi di fronte alla potenza collettiva della società”.
Tra i molti scritti di Proudhon, va ricordato il Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria. Nel titolo l’autore assume la contraddizione come leva del suo trattare. Una certa affinità tra lui e lei è riscontrabile, almeno a prima vista. Nell’introduzione a questo voluminoso testo, Alfredo Bonanno considera Proudhon essere un pensatore “contraddittorio”, non solo come giudice di una situazione contraddittoria ma anche come indagatore utilizzante un metodo contraddittorio, nella piena coscienza dei limiti del metodo stesso.
L’analisi di Proudhon sulla proprietà (Che cos’è la proprietà) scorre su due valenze: la proprietà come struttura portante del privilegio sociale; la proprietà quale cardine della resistenza degli individui e dei gruppi al dominio dello stato. La proprietà è un furto, la proprietà è la libertà. Secondo Proudhon, quel che appartiene a ciascuno non è quel che ciascuno può possedere, ma quel che ciascuno ha il “diritto di possedere; e ciò che abbiamo il diritto di possedere è ciò che basta al nostro lavoro e al nostro consumo”. La soluzione proudhoniana evidenzia un margine problematico che resta inconsiderato: il nostro – di chi?, chi lo definisce?, come lo si riconosce? come lo si mette in circolo, eventualmente?…
L’approccio di Weil articola un discorso che, se inizialmente ha un’affinità, riconducibile alla struttura contraddittoria della proprietà, successivamente se ne distanzia. Il “diritto di possedere” proudhoniano è superato in questi termini: “il senso della proprietà non è un’appropriazione giuridica ma del pensiero che si appropria delle cose tra cui l’uomo spende la vita”. Trascurando l’astrazione giuridica anche nella forma giusnaturalistica, Weil allude ad una necessità obbligante agganciata al pensare e all’agire in presenza, nel qui-ora. Con l’attenzione rivolta alle condizioni di esistenza, allo stato presente delle cose.
Nell’analisi puntuale delle contraddizioni economiche, l’attenzione di Proudhon sullo stato dell’economia slitta nelle proposte organizzative di associazioni con funzione autonoma in cui il massimo di libertà individuale dovrebbe conciliarsi con il massimo di armonia sociale. Si tratta di proposte auspicabili e condivisibili, ma sono appunto auspicabili. La distanza fra la situazione di quel tempo allora presente e una situazione a venire è colmata teoricamente con uno scatto nel futuro. Il movimento simbolico di Proudhon sembra dar conto di una insostenibilità della contraddizione, percepita come qualcosa da risolvere, almeno teoricamente. Simone Weil fa della contraddizione il luogo del pensiero pensante e agente in contesto. La sua attenzione è rivolta alle condizioni di esistenza, al regime accettabile nella realtà di quel luogo che è la fabbrica “taylorizzata”. Per lei, la necessità è il punto di appoggio d’Archimede: radicamento su cui far leva per ri-sollevarsi. In altre parole, come già accennato, la libertà trova le sue radici nella necessità.

Giugno del 1934: l’insegnante di filosofia Simone Weil chiede al Ministero un anno di congedo «per studi personali». Il 4 dicembre è assunta presso una delle officine della società Alsthom a Parigi, impiegata alla pressa.

Simone e André a Knokkele-Zoute, in Belgio, 1922

La condizione operaia

Nel diario di fabbrica, Journal d’usine, si coglie la fatica penosa aggravata da terribili mal di testa da cui Simone è afflitta. Il diario di fabbrica non rappresenta affatto un mezzo per sfogare le proprie sofferenze. È luogo di riflessione, di annotazione puntigliosa sugli effetti fisici e morali che quel regime produttivo determina o non determina, a partire da sé ma sempre rigorosamente in relazione a chi le è accanto. Scrive a Thévenon che l’aveva aiutata per l’assunzione in fabbrica: “Non sono delusa d’aver fatto questo dopo averlo sognato così a lungo. Penso sempre più che la liberazione (relativa) degli operai deve avvenire innanzitutto in fabbrica, e mi sembra arriverò a cogliere in parte da cosa dipende”.
Il suo desiderio di sperimentare in prima persona la condizione operaia non è dettato da una coerenza moralisticheggiante, ma da un bisogno di capire che si esprime come sapere dell’esperienza, sapere del corpo e nel corpo, per il quale più donne che uomini hanno riguardo. Come lei dice, in riferimento al fatto che il regime accettabile non sia stato trattato da Marx e sia stato appena accennato da Proudhon, “da teorici non si può conoscere la realtà di essere trattati come ingranaggi”.
Occorre aggiungere come nel contesto della fabbrica la contraddizione in Weil viene mantenuta “positivamente” nella constatazione che la macchina (della catena), in funzione di migliorare la produttività a prescindere dagli esseri umani che ad essa vengono sottoposti, da un lato ha reso il lavoro vivo servile con conseguente alienazione umana, ma dall’altro ha creato anche l’operaio specializzato. Il contrappunto tra aspirazioni umane e produzione – necessità da cui non è possibile sfuggire, come non è possibile sfuggire dal lavoro per assolverla – delinea una concezione della proprietà in termini del tutto impensati dalle categorie proudhoniane e da quelle marxiane che alle prime si rifanno. “La proprietà è privata, secondo Weil, della connessione all’essere umano; non è il furto di un oggetto, ma il furto di quella connessione”. Lo sguardo weiliano focalizza il fatto che il movente del lavoro è sempre esterno al lavoratore. L’andamento simbolico di Weil delinea un procedere verso la libertà nel lavoro e non dal lavoro.
Al cuore delle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, la cui stesura occupa Simone quasi un intero anno, il 1934, sta una domanda su un’idea centrale: “Il capitalismo ha realizzato l’affrancamento della collettività umana rispetto alla natura (tempo libero considerevole (se…), metodo, ecc). Ma questa collettività, in rapporto all’individuo, ha ereditato la funzione oppressiva esercitata un tempo dalla natura. Questo è vero anche materialmente. La collettività si è impadronita del fuoco, dell’acqua, ecc., ecc., ecc., di tutte quelle forze della natura «che superano infinitamente le forze dell’uomo». Problema: è possibile trasferire all’individuo questo affrancamento conquistato dalla società?”. Le Riflessioni riportano come esergo all’opera un aforisma di Spinoza, che dice: Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire.
Weil riconosce a Marx di aver spiegato mirabilmente il meccanismo dell’oppressione capitalistica, tanto da far fatica a raffigurarsi in qual modo questo meccanismo potrebbe smettere di funzionare; sottolinea, d’altro canto, che lo sfruttamento non è legato alla proprietà privata ma alla lotta per il potere, il cui fattore decisivo di vittoria è la produzione industriale. La forza della borghesia per mantenere questo potere consiste nel propagare guerre per incentivare l’industria bellica. Di Marx Weil accetta inoltre la preziosità del metodo materialista, secondo cui nella società e nella natura tutto si svolge mediante trasformazioni materiali. Questa idea preziosa è stata però completamente trascurata dallo stesso Marx. In primo luogo quando "da metodo di indagine diventa dottrina capace di rendere conto di ogni cosa" e inoltre quando con “la teoria dello sviluppo delle forze produttive, quale motore della storia, Marx introduce un elemento mitico, illusorio, addirittura messianico”.

Il linguaggio marxiano-marxista parla di “missione storica del proletariato”, liberato dal lavoro nella società comunista. A discapito di un metodo prezioso, questo e quel fraintendimento sortiscono effetti particolarmente nocivi per la ricerca della verità. Nel primo caso il metodo dialettico della lotta di classe resta impigliato nell’idealizzazione storicistica, imputata da Engels, nella Sacra famiglia, alla destra hegeliana. In sfumata sintonia a distanza con Weil, Alfredo Bonanno nell’introduzione all’opera proudhoniana Sistema delle contraddizioni economiche, avverte che per Hegel e per Marx “il metodo dialettico non è un metodo, è la realtà nella sua essenza più intima; l’uno e l’altro ricompongono la contraddizione in una sintesi superiore”.
Quanto meno bizzarro è riconoscere come le sfumature anarchiche in Simone Weil siano avvertite indirettamente, sulla base cioè delle reazioni denigranti la sua indipendenza simbolica rispetto alla critica verso la dottrina e la propaganda rivoluzionaria di stampo marxista-leninista: reazioni denigratorie e ricorrenti non dissimili a quelle rivolte contro teorie politiche di pensatori e rivoluzionari anarchici (3).
Quando Simone scrive nella rivista Rivolution proletarienne sul fallimento della rivoluzione russa, sulla disfatta del movimento operaio in Germania e sulla situazione drammatica del movimento operaio francese, quali effetti di un’oppressione di nuova specie, esercitata in nome della funzione produttiva di cui si va appropriando la classe degli amministratori e dei burocrati, ed esplicita altresì la necessità di un’analisi di un ordine di problemi indipendente da quelli posti in gioco dall’economia capitalista, Trotzky l’accusa di “pregiudizi piccolo-borghesi tra i più reazionari”. Quando Simone sostiene l’insufficienza di eliminare la proprietà capitalistica per ottenere una società socialista, occorrendo altresì che lo stesso lavoro produttivo divenga la funzione dominante, in modo da spezzare la separazione tra lavoro manuale e intellettuale (l’unico mediatore tra i quali è la macchina), allora la cosa è addirittura inaudibile. Al congresso della Confederazione generale del lavoro le viene impedito di parlare dalla maggioranza stalinista. In seguito viene censurata la recensione da lei redatta a Materialismo ed empirocriticismo di Lenin, del quale critica il materialismo grossolano e il metodo “consistente nel riflettere per refutare, essendo la soluzione pronta prima di iniziare la ricerca”.
In secondo luogo, Weil vede sorgere dall’elemento mitico del discorso marxiano-marxista, (secondo cui l’avvento della società comunista è, magicamente garantito dallo sviluppo delle forze produttive), una propaganda rivoluzionaria altrettanto illusoria. Simone Weil, nel mettere in luce tali derive, denuncia l’impatto fuoriviante rispetto al presente della situazione reale e allo stato effettivo dei movimenti operai, fino a farle dire essere non la religione l’oppio del popolo, ma la rivoluzione.
L’ambiente in cui matura la precisa critica alla concezione rivoluzionaria è quello della rivista La critique sociale che esprimeva gli orientamenti di un gruppo di intellettuali aderenti al Cercle communiste democratique, dove spiccava la figura di George Bataille. Tale riferimento biografico è necessario per precisare la posizione di Simone Weil verso ambienti e persone della sinistra rivoluzionaria sindacalista con cui condivide esperienze di lotta e di riflessioni sin dall’inizio del suo impegno politico. Occorre tuttavia precisare che la collaborazione a La critique sociale è dovuta essenzialmente all’amicizia e alla stima per Boris Souvarine, ma senza coinvolgimento diretto nella problematica ideologica e nei progetti politici del Cercle. La critica alla concezione rivoluzionaria nasce nell’ambito di relazioni vive, per quanto conflittuali siano. Nei Quaderni e in una lettera all’amica Simone Pétrement si legge infatti: “…la parola rivoluzione è stata sempre usata come parola priva di senso. Così ciascuno vi mette il senso che preferisce. Per alcuni lo sviluppo della produzione (L.D.) (4) – una catastrofe con sacrifici – l’abolizione del lavoro – l’abolizione di tutto ciò che ostacola il libero sviluppo degli istinti (surrealismo); regime in cui l’uomo sia rispettato (Serge) … La rivoluzione è per lui [Bataille] il trionfo dell’irrazionale; per lui una catastrofe, per me un’azione metodica di cui ci si deve sforzare di limitare i guasti, per lui la liberazione degli istinti, e precisamente di quelli che sono correntemente considerati come patologici, per me una moralità superiore. Cosa c’è di comune? So che B. (5) è d’accordo con me, e spero anche altri”.

Simone Weil a casa dei genitori,
in una fotografia scattata in occasione
della visita di una famiglia indiana
ospite di André, 1933 (?)

Il ribaltamento fini-mezzi

Mi preme sottolineare l’occorrenza di una più alta moralità verso cui promuovere l’azione politica, giacché si ricollega alla propensione weiliana di rendere (“in atto e in pratica”) il fine ideale quanto più possibile presente nei mezzi per realizzarlo. Nei partiti politici, nel denaro, nel potere, nei diplomi scolastici, nella produzione organizzata su ritmi in funzione di un più alto rendimento della macchina, a prescindere dagli uomini che dietro essa operano, Simone Weil riscontra il mortale e mortifero ribaltamento tra mezzi e fini. Il mezzo, che dovrebbe adempiere al fine di migliorare le condizioni di esistenza degli essere umani e del loro grado di moralità, ha come risultato quello di diventare fine per se stesso. Sin dalle prime pagine delle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, l’esame critico di Weil all’idea di rivoluzione concepita nella propaganda marxista-leninista tiene conto sia dell’effettivo ribaltamento mezzi-fini, sia dell’abbaglio dimentico della presenza viva di chi in quelle situazioni si spende. “Il fascino della rivoluzione porta a dire che la situazione è oggettivamente rivoluzionaria, manca solo quel dato soggettivo come se il dato soggettivo che dovrebbe trasformare il regime non fosse un carattere ‘oggettivo’ della situazione attuale”, commenta Simone.
È uno scritto del 1933-34, Esame critico delle idee di rivoluzione e di progresso, a dare una diretta testimonianza dell’attenzione, e di riflesso della valorizzazione, riservata da Simone alle concezioni anarchiche e libertarie. A partire da una critica sempre più serrata del pensiero marxista per la concezione del meccanismo sociale che presiede alle rivoluzioni, per cui una rivoluzione ha luogo solamente quando un nuovo ceto si è già in gran parte impadronito del potere, e la credenza nell’avvento di una prossima rivoluzione, per la quale manca ogni presupposto, dato lo stato di totale asservimento del proletariato, Simone ribadisce come questa illusione abbia gravemente nuociuto allo spirito rivoluzionario, caricandolo di elementi pseudoscientifici e di eloquenza messianica, tanto da ritenere necessario il ritorno a “una fonte di ispirazione in ciò che Marx e i marxisti hanno combattuto e follemente disprezzato: in Proudhon, nei gruppi operai del ’48, nella tradizione sindacale, nello spirito anarchico”. Occorre ricordare che “spirito” in Weil è sinonimo di libertà e quest’ultima sta in rapporto analogico con pensiero e azione. È pertanto sostenibile la vicinanza di Simone Weil allo spirito anarchico: vicinanza simbolicamente sfumata in un andirivieni tra piano ‘naturale’ e piano ‘soprannaturale’. La loro inconciliabilità dà movimento sia al pensiero che all’azione, sul filo della contraddizione. Apre un vuoto che non va colmato, che non degrada, come riportato precedentemente, il valore dell’ideale anarchico. Anzi, lo proietta nell’eternità, in virtù della sua stessa impossibilità ad essere realizzato. Ripeto quel che scrive Simone nel Quaderno III, pag. 271, 331 in proposito: “Se concepito come impossibile [l’ideale degli anarchici spagnoli], trasporta nell’eterno. Il possibile è il luogo della degradazione. Bisogna volere o ciò che precisamente esiste (necessità) o ciò che non può affatto essere; meglio ancora ambedue”.
Concludo il confronto diretto con Marx. Il discorso weiliano apre una differente prospettiva rispetto al discorso marxiano sulla scienza e sulla teoria sociale.
Richiamandosi al rapporto tra funzione e organo come è stato espresso da Darwin e Lamark (per questi è la funzione che crea l’organo, per l’altro è l’organo che crea la funzione) e applicandolo agli organismi sociali, Weil sostiene che Marx, per quanto amasse credere di essere in linea con Darwin, di fatto è lamarkiano, giacché pone la produzione, ossia la funzione sociale, come causa dell’oppressione, ossia dell’organo sociale. La teoria marxiana prevede infatti che basta cambiare la produzione capitalistica per non avere più oppressione. Le cause dell’evoluzione sociale vanno ricercate per Simone “negli sforzi quotidiani degli uomini come individui”; tenuto conto che le condizioni di esistenza sono ignorate dagli uomini stessi che vi si sottomettono ed agiscono condannando all’inefficacia tutti gli sforzi rivolti in direzione che esse vietano. Il metodo dialettico di Marx non preserva da un simile errore. “Marx, scrive Simone, non spiega perché l’oppressione è invincibile finché è utile. Perché gli oppressi in rivolta non sono mai riusciti a costituire una società non oppressiva sia sulla base delle forze produttive che sulla repressione. Quali sono i meccanismi per cui l’oppressione viene sostituita da un’altra?” Per lei l’oppressione, diversamente da Marx, non è un’usurpazione di un privilegio, ma l’organo di una funzione sociale. La ricerca di Weil insiste nel sapere se è possibile concepire un’organizzazione che, impotente a eliminare le necessità naturali e la costrizione sociale che ne risulta, consenta di esercitarsi senza schiacciare sotto l’oppressione lo spirito e i corpi.
“L’unico contributo reale di Marx alla scienza sociale è di averne sostenuta la necessità. È molto, è immenso; ma siamo sempre allo stesso punto. Ne occorre sempre una”. Da questa citazione si precisa una movenza che taglia con la modalità simbolica della cultura scientifica tesa a generalizzare invece di studiare le condizioni di un fenomeno, e che apre al contempo al pensare agendo e all’agire pensando in contesto vivente: nel qui-ora, avendo sgombrato il campo dalle ideologie precostituite e dai regimi di verità dogmatica. La ricerca, in Simone Weil, è continua sia in relazione alle cose che agli esseri umani in carne ed ossa, che tra le cose spendono la vita. La libertà si radica e si esprime nella necessità; non è concepita per rapporto autoreferente tra desiderio e soddisfazione, ma da un rapporto tra pensiero e azione: pensiero pensante, non pensiero di già pensato e azione agente non su modello già agito. L’enigma implicito nel rapporto tra il pensare e l’agire lo guadagna attraverso la lettura e lo studio del Tao cinese, come pure dalle traduzioni di alcuni passi dei testi dell’epica indù (Weil studia il sanscrito nel periodo di Marsiglia). È l’enigma a dare nutrimento alla ricerca weiliana e al senso dei suoi originali, fertili quanto spiazzanti contributi.

Simone Weil in Svizzera,
probabilmente a Montana, febbraio 1935

La bellezza: prima condizione per un lavoro non servile

Weil ritiene la vita meno inumana quanto più grande è l’attitudine individuale a pensare e ad agire. Il discorso marxista, e più strettamente l’analisi economicistica, ruota intorno all’istanza del rendimento. In Weil a contare è il rapporto del lavoratore con il suo lavoro. Tale rapporto costituisce l’ambito, orientativo per formulare una sempre rinnovata teoria sociale, su cui riflettere e su cui adeguare di volta in volta il fare e/o il non fare.
A questo punto si inserisce un passaggio di senso, in riferimento alle proposte che Simone Weil, in seguito all’esperienza di fabbrica, suggerisce al sindacato e per le quali cerca la collaborazione di dirigenti e ingegneri addetti, allestendo un programma di massima secondo quanto attestato in Principi per un nuovo regime interno alle imprese industriali (6).
Si legge nei Quaderni: “Non ci sarebbe in generale da preoccuparsi della società se ci fosse una scienza universale assimilabile e una tecnica libera, basterebbe sforzarsi di vivere il più onorevolmente possibile nel quadro della società esistente. La vita conserverebbe tutto il suo senso. Ma bisogna vederci chiaro. che ogni atto del lavoro sia accompagnato dalla conoscenza di tutti gli sforzi umani (teorici e tecnici) che l’hanno reso e lo rendono possibile. (Nell’attesa avvicinarsi il più possibile…per mezzo della cultura teorica e tecnica dei sindacati) – preparare un simile rinnovamento della scienza e della tecnica; istruirne un’elite proletaria; e solamente dopo prendere il potere. (del resto questa tappa non ci riguarda in alcun modo) – a questo scopo creare dei gruppi di studio con tecnici, operai qualificati, studiosi, storici. Niente discussioni in riunioni… – questo non toglie tutto il senso all’azione – ma subordinata – non si può dare il meglio di sé in un compito così negativo, così spoglio di prospettive. Compito principale: trovare come sia possibile il lavoro libero. – cronaca e possibilità. [solo Boris mi può capire. Non è preparato a questo studio. Neppure io. Ma coloro che vi sono preparati non sono per ciò stesso in grado di intraprenderlo… Ha davanti a sé tanto tempo quanto me. Un‘intelligenza molto più vivace]”.
Nel 1935 visita le fonderie a Rosiers e offre al direttore tecnico Bernard la sua collaborazione al giornale di fabbrica Entre nous con l’intento di stabilire tra operai e dirigenti un rapporto di collaborazione. Scrive anche degli articoli per far conoscere e spiegare agli operai i grandi testi della poesia greca. Si tratta evidentemente di un modo per far entrare un po’ di bellezza nello spirito di chi è costretto a vivere gran parte della propria esistenza in una condizione tanto abbrutente.
In una lettera ad Albertine Thévenon, Simone restituisce un bilancio (“drammatico”) dei mesi trascorsi in fabbrica. Avverte chiaramente di essere entrata in una dimensione del tutto diversa. “La schiavitù, si legge, mi ha fatto perdere il sentimento di avere dei diritti, senza provocare sentimenti di rivolta, ma la docilità da bestia da soma rassegnata. È il genere di sofferenza di cui nessun operaio parla: fa troppo male anche pensarla”.
La collaborazione a Entre nous comincia a venir meno quando Bernard giudica uno scritto di Simone eccitante lo spirito di classe e si interrompe definitivamente quando allo scoppio del grande sciopero che segue la vittoria del Fronte popolare, Simone scrive a Bernard della gioia indicibile che quell’evento le procura: “Il seguito sarà quello che potrà essere. Ma non potrà cancellare il valore di queste belle giornate gioiose e fraterne, né il sollievo che gli operai hanno provato nel vedere per una volta coloro che li dominano piegarsi davanti a loro”.
Indipendentemente dai regimi politici, l’ideale di collaborazione che Weil ha in cuore si profila tra un misto di inevitabile subordinazione e di riconoscimento valorizzante l’operare manuale connesso ad un sapere che dà rappresentazione geometrica e fisica agli strumenti usati e al gesto compiuto. In tal senso prendono consistenza le proposte concrete per un lavoro non servile che coinvolge la trasformazione della scienza e la trasformazione sociale.
Destinato a Economia e Umanesimo, rivista gestita dai domenicani di Marsiglia, che ritengono necessario apportare consistenti cambiamenti al testo con l’inserimento di citazioni tratte dai discorsi del maresciallo Pétain, così da renderlo accettabile dal governo di Vichy, lo scritto Prima condizione di un lavoro non servile è del 1936. Ripreso dall’autrice nel 1942 ed elaborato contemporaneamente a Il cristianesimo e la vita nei campi, viene pubblicato postumo nel 1947 sulla rivista Cheval de Troie (7). All’esperienza di lavoro in fabbrica, Simone unisce quella del lavoro agricolo. Trascorre periodi estivi presso la fattoria di una zia nel Giura, come in quella di Gustave Thibon nell’Ardeche e partecipa alla vendemmia con la gioia che la bellezza di quella vita ispira.
Per entrambi i lavori, quello in fabbrica e quello nei campi, Simone è intenta a rivelarne la bellezza recondita, oscurata com’è da moventi posti all’esterno dei gesti e dei meccanismi che li regolano.
La fabbrica dovrebbe essere un luogo di gioia, dove se anche è inevitabile che il corpo e l’anima soffrano, se ne possa gustare una gioia. Come? Mutando la natura degli stimoli al lavoro, darne un senso che non lo comprima sullo scopo di ricevere denaro. “I borghesi, osserva Simone, sono stati molto ingenui quando hanno creduto che la buona ricetta consistesse nel proporre al popolo quel medesimo fine che governa la loro vita, cioè l’acquisizione del denaro. Sono giunti al limite del possibile con il lavoro a cottimo e l’estensione degli scambi fra la città e la campagna”.
In un luogo dove il pensiero si accartoccia in gesti insensati e secondo un movimento autistico, come avviene per quello dell’operaio alla catena di montaggio della produzione taylorizzata, il rimedio senza scelta a questa condizione di servilismo è la bellezza. Il valore del bello è di essere una finalità priva di fine e “l’operaio ha bisogno di bellezza più che di pane”, dichiara Simone. Il punto unitario del lavoro intellettuale e lavoro manuale è la contemplazione, un’attenzione cioè che va oltre ogni obbligo sociale. Proprio quel movimento autistico, cui l’operaio è sottoposto e che non gli consente neppure l’effetto di assopimento, reso impossibile dai rimproveri per non riuscire a stare al ritmo della macchina, allertato dai pericoli per l’incolumità del proprio corpo, agitato dalla paura di sbagliare e di essere licenziato…, occorre che trapassi in attenzione e in sensatezza. Occorre avere una visione d’insieme di quello che si sta facendo; occorre restituire all’operaio la dignità di aver restaurato il patto originario dello spirito con l’universo; occorre un sapere teorico, tecnico, geometrico intrecciato da nozioni di fisica, a partire dal quale sia possibile contemplare la bellezza negli strumenti di lavoro come nelle fasi del processo produttivo. “Nessuna intimità lega gli operai ai luoghi e agli oggetti fra i quali si consuma la loro vita e l’officina fa di loro, nella loro stessa patria, degli stranieri, degli esiliati, degli sradicati”, osserva Simone. I lineamenti didattici di sollecitamento alla bellezza che animano lo spirito educazionista delle sue proposte potrebbero essere nominati in termini di semiotica degli strumenti di lavoro.
In Prima condizione per un lavoro non servile sono evocate immagini meravigliose, bellissime appunto, esemplificanti in una ricorrente circolarità di piani, (dal naturale al soprannaturale, dall’immanenza all’ideale, dal pensiero alle parole per dirlo) l’orientamento, l’efficacia e la realizzazione di quel che va proponendo. “I soli oggetti sensibili sui quali [gli operai] possano portare la loro attenzione, sono la materia, gli strumenti, i gesti del loro lavoro. Se questi oggetti non si trasformano in specchio della luce, è impossibile che durante il lavoro l’attenzione sia orientata verso la sorgente di quella luce. Una simile trasformazione è la necessità più urgente. […] L’immagine della Croce, paragonata ad una bilancia, […] potrebbe essere un’inesauribile ispirazione per coloro che portano pesi, maneggiano leve e sono, la sera, stanchi per la pesantezza delle cose. In una bilancia un peso considerevole e prossimo al punto di appoggio può essere sollevato da un peso piccolissimo posto ad una distanza molto grande. Il corpo del Cristo era un peso ben lieve, ma per la distanza fra la terra e il cielo ha fatto da contrappeso all’universo. In modo infinitamente differente, ma sufficientemente analogo per poter servire da immagine, chiunque lavori, sollevi pesi, maneggi leve, deve egualmente, con il suo debole corpo, far da contrappeso all’universo. E ciò è troppo pesante e spesso l’universo piega con la stanchezza corpo e anima. Ma chi si tiene al cielo farà facilmente contrappeso.
Chi ha intuito questa idea una volta non può esserne distratto per quanta sia la stanchezza, la fatica e il disgusto. Tutto ciò non può far altro che ricondurlo a quell’idea. […] Le leggi della macchina, che derivano dalla geometria e comandano le nostre macchine, contengono verità sovrannaturali. L’oscillazione del movimento alternante è l’immagine della condizione terrestre. Queste verità e molte altre sono iscritte nella semplice contemplazione d’una puleggia che determina un movimento oscillante; possono esservi lette mediante conoscenze geometriche elementarissime; il ritmo stesso del lavoro, che corrisponde all’oscillazione, le rende sensibili al corpo; una vita umana è uno spazio fin troppo corto per poterle contemplare”.

Fototessera di Simone Weil, operaia alla
Renault, dal 6 giugno al 9 (?) agosto 1935

Lavoro manuale e lavoro intellettuale

Non mancano di fiorire altrettante belle immagini quando Simone rivolge lo sguardo al lavoro dei campi. Le ricava dal Vangelo, ma non solo. È possibile (e altresì suggeribile) a chi sta seminando portare la propria attenzione sopra la verità che è la morte a rendere fecondo il chicco di grano. Attraverso il proprio gesto e lo spettacolo che si cela, il seminatore si fa specchio dei simboli che fin dall‘eternità sono iscritti nella materia. Il mistero dell‘universo a cui l’umano terrestre è ricondotto, sortisce la bellezza di un’immagine che le fa scrivere: “Il sole e la linfa vegetale parlano continuamente, nei campi, di quel che c’è di più grande al mondo. Viviamo solo di energia solare, ci nutriamo di essa ed è quella energia a tenerci in piedi, a farci muovere i muscoli, ad operare corporalmente in noi tutti i suoi atti. Essa è, forse, sotto forme diverse, la sola cosa nell’universo che costituisca una forza antagonista alla pesantezza; sale negli alberi, solleva i pesi con le nostre braccia, muove i nostri motori. Essa procede da una sorgente inaccessibile e alla quale non possiamo avvicinarci nemmeno di un passo. Essa discende continuamente su di noi. Ma benché continuamente ci bagni, non possiamo captarla. Solo il principio vegetale della clorofilla può captarla per noi e trasformarla nel nostro cibo. È solo necessario che la terra sia convenientemente preparata dai nostri sforzi; allora mediante la clorofilla, l’energia solare diviene cosa solida ed entra in noi come pane, vino, olio, frutta".
Alla luce di queste belle immagini, mi sembra plausibile cogliere la crucialità del pensiero weiliano nell’interazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Interazione che attesta, attraverso rigorose quanto cristalline formulazioni, la dimensione morale e quella politica nell’ordine orientante dell’essere (fattuale e ideale), i cui attributi nell’argomentazione weiliana, sono il sentire e il pensare. Laddove la classe dirigente separa lavoro manuale e lavoro intellettuale, svalorizzando il primo per avere il privilegio di dominare con il secondo, Weil li reintegra in una prova di verità: la bellezza appunto.
Nella storia della filosofia, l’argomento ontologico è trattato prevalentemente come prova logica dell’esistenza di Dio, deducendola dal concetto di perfezione. Nell’impianto monolitico della metafisica razionalistica, il movimento di Weil è uno strappo che ripristina un’eccedenza esperenziale: il corpo toccato dalla verità della bellezza. Mi sembra più appropriato chiamare la prova “ontologica” di Weil: prova “ontoestetica”. E l’“esistenza” di Dio: “esperienza” di Dio, il caso essendo libera necessità.
Colgo la sfumatura anarchica in Simone Weil in una mai persa visione d’armonia che agisce all’interno-esterno del suo pensiero, sì che nelle proposte si rivela il tentativo di avvicinamento a rendere effettivo “il patto originario dello spirito con l’universo”.

Simone Weil in Spagna
dopo il suo ritorno dal fronte, 1936

Manifesto per la soppressione dei partiti politici

Lo scritto viene pubblicato per la prima volta sul n° 26 della rivista La table ronde nel febbraio del 1950. Poco dopo la pubblicazione, André Breton ne parla sul quotidiano Combat e Alain (Èmile Chartier) nel successivo numero di aprile di La table ronde. Entrambi lo considerano come uno dei più penetranti dell’autrice e richiedono che il Manifesto sia destinato “alla maggiore diffusione possibile”: cosa che per altro non avviene. Solamente nel ’57 è integrato nel volume Ècrits de Londres et dernières lettres per le edizioni Gallimard.
Probabilmente Simone lo scrive verso il ’34 poco prima di entrare in fabbrica, perché in una lettera all’amica e biografa Simone Pétrement si intravede, tra l’altro, l’urgenza di attingere ricerca e impegno fuori dai luoghi autoreferenziali delle organizzazioni politiche: “Ho deciso di ritirarmi del tutto da ogni specie di politica, salvo per quel che riguarda la ricerca teorica. Ciò non esclude per me nel modo più assoluto l’eventuale partecipazione ad un grande movimento di massa spontaneo (nei ranghi, come soldato) ma non voglio nessuna responsabilità per quanto piccola, neppure indiretta, perché sono sicura che tutto il sangue che verrà versato verrà versato invano, e che si è battuti in partenza”.
Occorre tener presente che fin dalle prime pagine delle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Weil ritiene essere la mancanza di pensiero pensante a rendere possibile la costituzione dei fascismi e dei regimi totalitari. A onor del vero, questi non hanno bisogno, almeno nella fase iniziale del loro avvento, di reprimere alcunchè, giacchè proprio quella mancanza ne costituisce la condizione favorevole. La ricerca storica e politica di Weil mette in chiaro come, nel presente dei tempi, il movente del pensiero non è più il desiderio incondizionato, indefinito, della verità, ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito.
Scrive a Thévenon, nel febbraio del 1933: “È soprattutto il momento – e soprattutto per i giovani – di impegnarsi seriamente a rivedere tutte le nozioni, invece di adottare al 100% una qualsiasi piattaforma d’anteguerra, ora che tutte le organizzazioni operaie hanno completamente fallito […]. Io non intendo più ammettere nessuna di quelle nozioni che prima della guerra si erano trasformate in articoli di fede, mai seriamente esaminate, e smentite da tutta la storia successiva” (8).
Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici mostra rigore di pensiero e richiama quella più alta moralità, a partire dalla quale Weil basa il senso della rivoluzione. Moralità e pensiero sono sostenuti dall’amore per la verità. Mentendo alla verità, i paladini dei poteri costituiti e dei partiti politici ammutoliscono il pensiero in dogmi e dottrine inconfutabili; Weil parla della verità vissuta in anima e corpo secondo le parole del Cristo: «sono venuto per rendere testimonianza alla verità».
“Per apprezzare i partiti politici secondo il criterio della verità, della giustizia e del bene pubblico conviene cominciare distinguendone i caratteri essenziali”, scrive Simone e ne attesta tre. Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva (e per passione collettiva lei intende fanatismo); un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte; il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite.
“Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade perché quelli che lo circondano non lo sono di meno”. Considerando la terza caratteristica, Simone la illustra come caso particolare di un fenomeno che si verifica ovunque la collettività prenda il sopravvento sugli esseri pensanti. “I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale in tutta l’estensione di un paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità”.
Weil prosegue ammettendo che il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica nella sua lotta contro l’eresia. E se, nonostante l’Inquisizione, la chiesa non ha soffocato del tutto lo spirito di verità è perché la mistica offriva un rifugio sicuro. Rifugio sicuro non tanto per l’incolumità fisica o la scomunica morale, ma per mantenere viva la verità, la testimonianza della quale “è costituita dai pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante, unicamente, totalmente, esclusivamente desiderosa della verità”. I partiti le sembrano, in conclusione, un male senza mezze misure. La loro soppressione “costituirebbe un bene quasi allo stato puro”, giacché l’operazione di prendere partito, anche in termini più generali, “di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero”.

Simone Weil con la madre a Sitges,
in Catalogna, 1936

Riflessioni sulla guerra

Molti anni fa mi capitò di trovare una pubblicazione, compilata in ciclostile da Jean, Maison du Peuple, Bois de Boulogne-Brest e ripresa in fotocopia dal Gruppo d’Edizioni Libertarie responsabile Assandri Luigi, Via Ravenna 3 Torino, 18 novembre 1976, Lire 200: Simone Weil, Riflessioni sulla Guerra. Tra il nome dell’autrice e il titolo è stato impresso il simbolo anarchico dell’A cerchiata.
Nella breve prefazione all’opera si legge: “L’autrice di questo scritto, pubblicato dall’ottima rivista La critique sociale, di Parigi, non è anarchica. Ma la sua presa di posizione di fronte alla guerra e al giacobinismo bolscevico corrisponde quasi interamente alle nostre idee attuali e a molte delle idee esposte dagli scrittori anarchici più eminenti. Quell’ombra di pessimismo che si proietta sulle conclusioni di questo vigoroso esame dei problemi rivoluzionari della guerra, gioverà a quanti si compiacciono nutrire illusioni cullanti la loro inerzia. È tempo di pensare chiaramente e di volere con fermezza. La guerra si avvicina a rapidi passi; e dobbiamo esaminare il da farsi per fare. Pubblicando questo scritto abbiamo fatto opera utile. Ne siamo certi; e speriamo che tutti i compagni faranno quanto è loro possibile per facilitarne la diffusione”.
Il saggio costituisce, a mio avviso, il più prezioso dei contributi che la filosofa francese ha donato al mondo. La ragione che mi porta a dare questa valutazione risiede, essenzialmente, nella precisione storica di una ricerca aderente ad una più alta moralità con cui vengono portate avanti le riflessioni sulla guerra. Scritte nel ’33, anticipano, con evidenza premonitrice, gli eventi del prossimo futuro rispetto al presente di allora e apportano altresì una vena di attualità riguardo a quelli odierni, assumendo il profilo di opera eterna.

Simone Weil e Lanza del Vasto, Marsiglia, primavera 1941

Fra i meccanismi dell’oppressione sociale e quelli che presiedono, in forma ancora più acuta, allo stato di belligeranza Weil dimostra la perfetta continuità.
L’elemento che caratterizza la cultura europea è la forza. A partire dalla storia greca, attraverso la lettura dell’Iliade, definito da Weil “poema della forza”, tale elemento viene colto in un duplice orientamento: la forza subìta e la forza imposta. Al primo senso corrispondono lo sradicamento e la propensione verso il tradimento, anche nella forma del collaborazionismo; al secondo corrispondono i regimi nazionalisti e totalitari.
Già attraverso la critica all’illusione rivoluzionaria Weil sottolinea il doppio laccio che la forza impone a vinti e vincitori. Nel Quaderno III, si legge: “L’illusione della rivoluzione consiste nel credere che le vittime della forza siano innocenti riguardo alle violenze che si verificano, e, quindi, se si mette la forza nelle loro mani, esse ne faranno un uso giusto. Ma, se si eccettuano quelli che sono almeno assai prossimi alla santità, le vittime sono macchiate dalla forza quanto i carnefici. Il male che è all’impugnatura della spada si trasmette alla punta. E così le vittime, pervenute ai fastigi e inebriate dal cambiamento, fanno altrettanto o più male, poi ricadono ben presto. […] Il socialismo consiste nel collocare il bene nei vinti; il razzismo, nel collocarlo nei vincitori. Ma l’ala rivoluzionaria del socialismo si serve di quelli che, benché nati in basso, sono per natura e per vocazione vincitori; e così approda alla stessa etica”.
Per sciogliere il nodo gordiano che si profila sulla questione della guerra, Weil trova una mediazione, teologica e morale al contempo, nel testo dell’epica indiana Bhagavad Gita dove si narra la storia di Arjuna. Questi, trovandosi nella condizione di dover fronteggiare una guerra fratricida (tutte le guerre sono fratricide) tra rami della stessa famiglia, è ispirato dal dio Krishna a partecipare al conflitto accanto ai membri della propria famiglia, con la consapevolezza che uccidere è anche accettare di essere uccisi. Arjuna inoltre viene ispirato dal dio nel senso di cancellare in sé l’intenzione, per farla franca, a dare la morte con sotterfugi e di disporsi a rifiutare i frutti di un’eventuale vittoria.
In base allo spirito con cui Weil “risolve” la drammaticità della scelta belligerante, credo di poter dire che non si tratta di pacifismo per principio. Si tratta, e la cosa appare ancora più evidente nelle Riflessioni sulla guerra, di antimilitarismo vero e proprio. Sono gli apparati militare, burocratico e poliziesco le forze agenti, simboliche e reali, a condurre al massacro della guerra, definito da Weil “la forma più radicale dell‘oppressione”. In ultima istanza potrei dire che l’autrice considera “rivoluzionaria” soltanto la guerra che non c’è.
Le Riflessioni svolgono un’analisi storica delle varie concezioni a partire dal 1792, periodo in cui matura l’idea della guerra rivoluzionaria. Si sognavano guerre liberatrici e se ne facevano eloquenti apologie. Anche su Proudhon la guerra ha esercitato un certo prestigio, indotto probabilmente dall’aleatorio quanto illusorio termine di “rivoluzionaria” ad essa impresso. Gli eventi bellici del 1870 obbligano le organizzazioni proletarie, in primis l’Internazionale, a prendere un atteggiamento concreto di fronte alla guerra: atteggiamento impostato sull’opposizione a qualsiasi tentativo di conquista, ferma restando la difesa del paese.
La concezione di Engels del 1892, fatta successivamente propria da Plekanov e Mehring, sostiene che per giudicare un conflitto bisogna vedere quale ne sarebbe l’epilogo più favorevole al proletariato internazionale e comportarsi di conseguenza. In pratica Engels invita i socialdemocratici di Germania, il caso occorrendo, ad intervenire con tutte le proprie forze in una guerra combattuta contro la Germania dalla Francia alleata della Russia. “Non si trattava più di difesa o di attacco – osserva Weil – ma di preservare, con l’offensiva o la difensiva, il paese dove il movimento operaio era più forte e di schiacciare il paese più reazionario”.
Da Lenin e i bolscevichi proviene un sì deciso alle guerre nazionali e rivoluzionarie; sono gli spartachisti, Rosa Luxembourg e Karl Liebknecth, a opporre una qualche diversa nozione: lei con l’assenso solo per le guerre rivoluzionarie, lui con la considerazione che il principale nemico del proletariato è in casa propria. Nella tradizione marxista-leninista riguardo alla guerra, Weil mostra la generale confusione del quadro teorico, quadro addirittura discrepante per l’unità del proletariato. Lo evidenzia il fatto che “la celebre frase di Liebknecth, «il nostro principale nemico è in casa nostra», assegna alle frazioni nazionali del proletariato un nemico diverso, opponendo così, almeno in apparenza, le une contro le altre”. Si arriva all’assurdo, per cui una frazione del proletariato lotterebbe contro il governo del proprio paese favorendo di fatto la vittoria dell’imperialismo, rappresentato dal governo nemico contro il quale deve lottare l’altra frazione nazionale del proletariato.

Simone Weil e Jean Lambert, Marsiglia, primavera 1941

Se dunque nella tradizione marxista regna la confusione per quanto riguarda le concezioni e i relativi atteggiamenti da assumere di fronte alla guerra, persiste nondimeno un unico tratto comune che, nella riflessione weiliana, risulta essere peggiore delle suddette implicazioni. Esso consiste nel “rifiuto di condannare categoriacamente la guerra in sé”.
Dove Kautsky e Lenin, parafrasando la massima di Clausewitz, vedono nella guerra la continuazione della politica di pace, Weil ravvisa il punto di contatto e, partendo per la tangente, afferma su tutt’altro piano: “Bisogna giudicare la guerra dai mezzi violenti che impiega, non dagli obiettivi a cui mirano questi mezzi”.
Nel dopoguerra si respira una diversa atmosfera morale. Il partito bolscevico, che desidera ardentemente la guerra rivoluzionaria, deve rassegnarsi alla pace, non per ragioni di principio ma sotto la pressione dei soldati russi, ai quali l’esempio del 1793 non ispira maggiore emulazione quand’è evocato dai bolscevichi, di quando lo è da Kerenski. Il fatto è che invece di condannare la guerra in quanto imperialista, si incomincia a condannare l’imperialismo in quanto fautore di guerra. La guerra, per Weil, è il prolungamento della produzione, della concorrenza e della supremazia; le armi sono messe al loro servizio e lo stato di belligeranza non fa che riprodurre, ad un grado molto più acuto i rapporti sociali costituenti la struttura stessa del regime. Il grande errore in cui cadono quasi tutte le opere riguardanti la guerra è di considerarla un episodio di politica esterna, mentre è prima di tutto un fatto di politica interna, il più atroce; un rilievo elementarissimo lo conferma: “il massacro è la forma più radicale dell’oppressione. […] La guerra è un bene per gli ufficiali dell’esercito, per gli ambiziosi, per gli aggiotatori, per il potere esecutivo”. A chiare note Simone continua: “La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione e lo sarà sempre fino a quando non si sarà dato ai soldati, o piuttosto ai cittadini armati, la possibilità di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza leggi eccezionali, senza punizioni per i disertori. Una volta nella storia moderna, la guerra è stata fatta in questo modo, sotto la Comune [...] Entrata in guerra la rivoluzione però soccombe sotto i colpi della controrivoluzione e diventa controrivoluzione per effetto stesso della lotta militare”.
Riflessioni sulla guerra riprende a svolgere, in una diversa messa a fuoco, la critica alla concezione rivoluzionaria: più precisamente alla vaghezza del termine “rivoluzione”, in quanto parola usata insensatamente, privata di senso, a cui ciascuno mette quello che preferisce. Tale critica, congiunta al riferimento sulla forza che caratterizza la storia europea, induce Weil ad attestare che il fattore rivoluzionario di una guerra è possibile nel senso impiegato dai nazional-socialisti. L’assenso alla guerra nazionale presente nella propensione bolscevica, come nell’intento dell’union sacree dei socialdemocratici, viene da entrambe le istanze motivato come una condizione favorevole al proletariato, in quanto la partecipazione alla guerra costringerebbe lo stato a fare concessioni in favore della classe lavoratrice. “L’ostilità verso i capitalisti, che in un certo modo determina la posizione dei nazionalsocialisti, viene da questi ultimi ripresa a vantaggio dell’apparato statale”, avverte Weil.

Il fenomeno della guerra e il fascismo sono intimamente legati: lo spirito guerriero evocato da testi fascisti, il socialismo del fronte esplicitano questo legame anche simbolicamente. “Si tratta dell’annichilimento totale dell’individuo davanti alla burocrazia dello stato grazie a un fanatismo esasperato. Se il sistema capitalistico si trova più o meno danneggiato nella faccenda ciò non può essere che a discapito, non a profitto, dei valori umani e del proletariato, per quanto oltre possa in certi casi spingersi la demagogia”, scrive Weil.

L’impotenza in cui ci si trova, di fronte ad una società che rassomiglia ad una macchina da cui gli uomini sono afferrati e di cui nessuno conosce le leve di comando restandone stritolati, conduce tuttavia Simone Weil a concludere che tale impotenza "non può mai dispensare dal rimanere fedeli a se stessi, né scusare la capitolazione davanti al nemico, di qualunque maschera si vesta. E sotto tutti i nomi che può assumere, fascismo, democrazia o dittatura del proletariato, il nemico capitale resta l’apparato amministrativo, politico e militare. E non è il nemico che abbiamo di fronte, perché lo è solo nella misura in cui è quello dei nostri fratelli, ma è il nemico che dice d’essere il nostro difensore e fa di noi degli schiavi. Il peggior tradimento possibile, in qualunque circostanza, consiste sempre nell’accettare di sottostare a questo apparato e di calpestare in se stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valori umani”.

Simone Weil a Marsiglia,
primavera, 1941

Lettera a Georges Bernanos

Allo scoppio della guerra civile in Spagna, Simone avverte l’impossibilità di restarne fuori. L’8 agosto passa la frontiera come corrispondente di guerra e raggiunge la colonna Durruti. Questo è l’unico episodio in cui partecipa attivamente a una lotta armata.
Nella colonna Durruti, Simone è impiegata per un’incursione di sabotaggio sulla riva dell’Ebro opposta a quella in cui sono stanziati i miliziani anarchici. Ma la sua permanenza nella colonna è di breve durata; in seguito ad un banale incidente (Simone urta contro un calderone di acqua bollente ustionandosi una gamba) è costretta a lasciare la Spagna con l’intenzione, però, di ritornarvi nell’immediato, appena guarita. Di fatto, confessa poi a Bernanos di non aver più sentito la necessità interiore di partecipare a quella che non è, come all’inizio appare, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra Russia, Germania e Italia.
La partecipazione sembrerebbe contraddire le convinzioni di Simone sui rischi di una guerra rivoluzionaria, come appurato in Riflessioni sulla guerra. Weil, tuttavia, punta sull’eventualità per quanto debole che la rivoluzione eviti di diventare guerra; inoltre, come già aveva scritto a Simone Pétrement nel ’34, il ritiro da ogni specie di politica non le avrebbe nel modo più assoluto vietato “l’eventuale partecipazione ad un grande movimento di massa spontaneo (nei ranghi, come soldato)”. E nei ranghi come soldato si arruola.

Un’emozione particolare dell’esperienza spagnola nelle fila anarchiche viene espressa nello scritto, progettato per un articolo, Non-intervento generalizzato (inverno 36-37). Il giorno in cui Leon Blum ha deciso di non intervenire in Spagna, si è assunto una grave responsabilità, argomenta Weil. “[…] Ebbene! Se noi abbiamo accettato di sacrificare i minatori delle Asturie, i contadini affamati di Aragona e di Castiglia, gli operai libertari di Barcellona piuttosto che scatenare una guerra mondiale, nient’altro al mondo deve portarci a scatenare la guerra. Niente, né l’Alsazia-Lorena, né le colonie, né i trattati. Non si dirà che qualcosa al mondo ci sia più caro della vita del popolo spagnolo”.

Simone Weil a New York, 1942

La lettera a Georges Bernanos costituisce una testimonianza di fedeltà alla verità. Per molti aspetti risulta essere anche una testimonianza sconcertante per chi vede il male schierato tutto dalla parte dell‘altro e strumentalizza il bene come mezzo per raggiungere un fine che è fuori dal bene stesso: solo il bene è fine a sé. Simone si rivolge allo scrittore per aver letto I grandi cimiteri sotto la luna e per esserne stata colpita sulla base dell’esperienza che Bernanos ebbe della guerra civile spagnola, rivissuta in quel suo libro. “Io ho avuto un’esperienza che corrisponde alla sua, scrive Simone, benché assai più breve, meno profonda, collocata altrove e vissuta in apparenza – solo in apparenza – con tutt’altro spirito”.
Parla (cosa inusitata in lei il riferimento personale) delle sue simpatie che, fin dall’infanzia, sono andate ai raggruppamenti che si richiamano agli strati più disprezzati della gerarchia sociale, finché non ha preso coscienza del fatto che questi raggruppamenti risultano essere di natura tale da scoraggiare ogni simpatia. “L’ultimo ad avermi ispirato un po’ di fiducia, prosegue Simone, è stato la CNT spagnola […] avevo visto nel movimento anarchico l’espressione naturale della grandezza [del popolo spagnolo] e dei suoi difetti, delle sue aspirazioni, quelle più e quelle meno legittime. La CNT, la FAI erano un miscuglio sorprendente, dove si accettava chiunque, e dove, di conseguenza, erano a stretto contatto l’immoralità, il cinismo, il fanatismo, la crudeltà, ma anche l’amore, lo spirito di fraternità, e soprattutto la rivendicazione dell’onore, che è così bella negli uomini umiliati”.
In quel che Georges Bernanos riesce ad emanare con I grandi cimiteri sotto la luna, Weil riconosce “l’odore di guerra civile, di sangue e di terrore” respirato durante la sua breve esperienza. Benché non abbia visto né sentito nulla che raggiunga veramente l’ignominia delle storie raccontate da Bernanos – assassinii di anziani contadini, balilla che fanno correre i vecchi a colpi di manganello – Simone ammette che quel che ha sentito e visto è stato sufficiente. E racconta una serie di episodi di crudeltà, di spreco di sofferenza, di inutile morte, non solo per evidenziare il raccapriccio suscitato dai fatti di per se stessi, quanto per testimoniare l’atroce verità di non aver mai “visto nessuno, nemmeno in confidenza, esprimere repulsione, disgusto o solo disapprovazione per il sangue inutilmente versato”. Qui sta il punto che, nella guerra dispiegata, tormenta Simone e che, ribaltandolo, lei assume come elemento centrale del senso del confliggere: rispetto dovuto al nemico e valore di ogni essere umano.
Nella Lettera a Georges Bernanos Weil ripropone, con altra versione simbolica che vede la verità non sulle teorie astratte, bensì sull’evidenza di quanto gli atteggiamenti concreti degli uomini manifestano di interiore, il suo vigoroso e sempre precisato antimilitarismo, che l’accomuna a mio avviso all’antimilitarismo anarchico. Ma come sempre l’allontana con un di più di verità che sfugge alle ideologie: il nemico non visto è dentro di sé.
La differenza notata tra miliziani, uomini armati e popolazione disarmata le fa dire: “Questi miseri e magnifici contadini d’Aragona, rimasti così fieri sotto le umiliazioni, non erano per i miliziani nemmeno oggetto di curiosità. Senza offese, senza ingiurie, senza brutalità – io almeno non ho mai visto niente di simile, e so che furto e stupro, nelle colonne anarchiche, erano passibili della pena di morte – un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione disarmata, un abisso del tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Ciò si avvertiva nell’attitudine sempre un po’ umile, sottomessa, timorosa degli uni, e nella spigliatezza, nella disinvoltura, nella condiscendenza degli altri”.
Nessuno, che lei sappia, si è immerso come George Bernanos nell’atmosfera della guerra spagnola. In fedeltà alla verità – che importa se Bernanos è monarchico – lui le è più vicino dei compagni delle milizie d’Aragona, “di quei compagni che, pure, amavo”.
La lettera a Bernanos lascerebbe pensare ad una certa amarezza deludente a seguito dell’esperienza in terra di Spagna. La cosa, che probabilmente ha un suo peso effettivo, viene però smentita o, meglio direi, rilanciata, rigiocata da una serie di lettere, sedici per l’esattezza, che Simone Weil scrive durante l’ultimo periodo dell’esilio a Marsiglia ad Antonio Atarés, spagnolo, contadino e anarchico internato nel campo del Vernet nell’Ariège e successivamente in quello di Djelfa in Algeria. La linfa d’oro puro che cola da queste lettere trova titolo nella pubblicazione, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, L’amicizia pura – Un itinerario spirituale.
Simone incontra Antonio nei termini e nei modi con cui inizia la prima lettera, datata 10-3-1941: “Signore, sarà certamente meravigliato di ricevere una lettera da una persona sconosciuta; ma un suo vecchio compagno di prigionia, Nicolas, mi ha parlato di Lei in un modo tale che mi sembra di conoscerla […] Sono stata, per qualche tempo, nel suo bel paese […] Non ho mai dimenticato i contadini che ho visto nelle campagne; mi hanno lasciato un’impressione indimenticabile. Per questo, quando Nicolas mi ha parlato di Lei, mi è parso di conoscerla da tanto tempo”. Simone lascia l’amico, senza perderlo, alla verità della bellezza che le fa dire, nell’ultima lettera (non datata): “Alle stelle, alla luna, al sole, all’azzurro del cielo, al vento, agli uccelli, alla luce, all’immensità dello spazio, a tutte queste cose che ti sono sempre accanto, affido i miei pensieri per te, perché ti donino ogni giorno la gioia che desidero per te e che tu meriti sicuramente. Credi alla mia profonda amicizia”.
La vertiginosa concezione dell’amicizia, che Simone Weil vive nella concreta relazione epistolare con Antonio Atarés, trova ancora la sua splendida attestazione nelle pagine che dicono Le forme dell’amore implicito di Dio: “L’amicizia è il miracolo grazie al quale un essere umano accetta di guardare a distanza e senza avvicinarsi quello stesso essere che gli è necessario come un nutrimento”.

Lasciapassare di Simone Weil a Londra, 1943.
Photo Snark International

Prologo in conclusione

Gli obblighi sono molti, devo ripetere. Ma per aver tentato di assolverne qualcuno, occorre averli circoscritti in piccola parte, all’ombra di quell’obbligo immenso verso Simone Weil. Sì, proprio verso di lei, in umile ascolto, chinata sulle parole e sui pensieri che ha lasciato come eredità senza testamento: una miriade di scritti colmi di passione e di incertezze, di verità pungenti e di rilanci inesauribili, di compiutezza circolante e di ordine rigoroso.
Obbligo e necessità sono i significanti che mi hanno aperto orizzonti impensati. Li avevo resi invisibili, cancellati da una posizione assunta come scelta tra i significati già riscontrati nella tradizione del pensiero anarchico. È avvenuto non un rinnegamento, bensì un ampliamento di quella tradizione e di quel pensiero. Obbligo e necessità sono semi-frutti che arricchiscono, con il vento delle parole, il presente in virtù del passato e il passato vive la presenza del ripensamento.
Obbligo: il diritto dell’altro. Necessità: il riconoscimento di altro. Che c’è e con cui occorre fare i conti, non per un vantaggio a senso unico, come si fa in proprio tornaconto, ma per obbligo verso l’altro: mondo creato e curato in relazione vivente, anche quando è relazione impersonale. L’obbligo e il diritto dicono che chi si lascia aiutare è di aiuto a chi dispensa aiuto, credendosi forte di realizzarlo per la propria magnanimità senza tener conto della condizione dell’altro. La necessità e il riconoscimento dicono che il bene agisce anche nella realtà del male, considerato tale nella convinzione, cieca e innocente, più ignorante che colpevole, di chi riconosce come assoluto il proprio bene. E lo dispensa come se il bene dell’altro non esistesse se non nella forma del proprio e fosse, per ciò stesso, male se non la riflette a pieno. Non intendo discernere tra bene e male come concezioni opposte su cui improntare la moralità generale, intendo il bene una necessità che la necessità del non-bene attesta. A tal proposito, ricordo una considerazione di Luisa Muraro, espressa in riferimento al senso della libertà in relazione all’altro, che per me resta un insegnamento folgorante, semplice e così vero, da non far fatica a tenerlo in mente: «Una concezione della libertà non è una concezione libera; la libertà è la non-libertà dell’altro». Sono due enunciati contigui, non due opposte definizioni che mi fanno capire questo: l’essere orienta, il dover essere ingiunge e molto spesso comporta sprechi di sofferenza e di dolore.
L’orientamento verso altro è dono d’essere relazionale; fa posto e apre a qualcosa d’altro che non siano le certezze assolute del proprio “io”, anche nella forma di ribaltamento dell‘immagine della propria certezza: acquisizioni pregresse verso il futuro per eternizzarle in un delirio di onnipotenza. Che misconosce la limitatezza, la fragilità e l’esposizione relazionale della condizione umana.

Monica Giorgi

Note

  1. cfr. Wanda Tommai, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori 1997.
  2. Gustave Thibon, Simone Weil telle que nous l’avons connue.
  3. In verità quanto da me notato mostra più l’intransigenza dottrinaria e la tendenza totalitaria delle formazioni partitiche piuttosto che la stretta affinità tra le posizioni weiliana e anarchico-libertaria. Ritengo invece verosimile leggere la singolarità di lei – outsider, estraneità rispetto al linguaggio dominante – alla luce della differenza sessuale: taglio che nel contesto tematico di questo mio studio ho lasciato che restasse implicito.
  4. Iniziali del nome di Troztkj, Lev Davidovic.
  5. Boris Souvarine.
  6. Il testo di riferimento, databile all’inizio del ’37, si trova tra i saggi e le lettere che compongono La condizione operaia.
  7. cfr. nota precedente per il reperimento bibliografico di Prima condizione per un lavoro non servile.
  8. Il corsivo è di Weil.

Bibliografia di riferimento

Quaderni, 4 volumi, Adelphi 1982
La condizione operaia, Edizioni di Comunità 1974
Riflessioni sulle cause della libertà e oppressione sociale, Adelphi 1983
Attesa di Dio, Rusconi 1999
L’ombra e la grazia, edizioni di Comunità 1951
L’amore di Dio, Borla 1968
Lettera a un religioso, Adelphi, I ed. 1966, V ed. 2008
Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi 2008
Sulla guerra, Pratiche editrice 1998
L’amicizia pura. Un itinerario spirituale, Città aperta 2005.

Fra gli innumerevoli saggi su S.W. segnalo, unitamente agli studi e alle prefazioni di Giancarlo Gaeta, la biografia di Simone Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi 1994, ai quali più volte mi sono riferita nello svolgimento del testo.
Per l‘incidenza che S. W. esercita sul pensiero della differenza sessuale e sulla politica delle donne richiamo, tra i molti, il lavoro di Wanda Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa esperienza femminile, Liguori 1997 e quello della Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier 1987. Per il valore e il significato simbolico che S.W. attribuisce all’azione non agente – il wu-wei del tao – raccomando il prezioso libricino di Chiara Zamboni, L’azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1989.


Bibliografia delle traduzioni italiane
non elencate precedentemente

La prima radice, SE 1990
La Grecia e le intuizioni precristiane, Rusconi 1974
Venezia salva, Adelphi 1987
Sulla scienza, Borla 1971
I Catari e la civiltà mediterranea, Marietti 1997
Piccola cara… lettere alle allieve, Marietti 1998
Lezioni di filosofia, Adelphi 1999.


Questo dossier esce come supplemento del n. 345 (maggio 2009) della rivista mensile anarchica “A”; direttrice responsabile: Fausta Bizzozzero; registrazione al tribunale di Milano n.72 in data 24.2.1971; stampa e legatoria: Officina Grafica – Milano; progetto grafico e impaginazione: Erre & Pi – Milano.

“A” esce regolarmente 9 volte l’anno dal febbraio 1971. Non esce nei mesi di gennaio, agosto e settembre. È in vendita per abbonamento, in numerose librerie e presso centri sociali, circoli anarchici, botteghe, ecc.. Se ne vuoi una copia/saggio, chiedicela. Siamo alla ricerca di nuovi diffusori.

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