Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

The road

Troppo grosso per poterlo raccontare, ma ci provo comunque: sono nove cd e un dvd. Ore e ore di musica, di sogni, di invenzioni. Ci si mette un sacco ad ascoltarlo tutto, non è detto che ci si riesca: io, ad esempio, col fatto che tendo ad ascoltare e riascoltare, ho cominciato a inizio anno e sono ancora piuttosto indietro. Costicchia, e vabbé, bisogna ammetterlo (gli ho mandato una sottoscrizione di 99 sterline, spese postali comprese), ma non è obbligatorio acquistarlo in blocco: si può prendere a rate, tutto, un po’ alla volta o solo una parte, anche un solo cd. Come volete, come potete.

Henry Cow

Chi, tramite passaparola o curiosando sul sito di ReR Megacorp sapeva che sarebbe stato pubblicato se l’è di certo già procurato da sei mesi. Insomma, è il live box degli Henry Cow: annunciato per il trentesimo anniversario e pubblicato adesso che di anni dai loro primi concerti ne sono passati più di quaranta, è una specie di stella cometa. La si aspettava da così tanto tempo che ormai la speranza era andata quasi esaurita e si ripiegava sull’ascolto di bootleg traballanti e copie di copie di cassette passate artigianalmente in digitale. Da dove comincio a parlarvene? È un lavoro di raccolta durato quindici anni. C’è voluto tanto perché nella ricerca sono state coinvolte moltissime persone. Non si è mosso l’archivista di una casa discografica: sono stati invitati a partecipare i testimoni. Il pubblico dei concerti, i curiosi di trent’anni fa, chi c’era per davvero. Un lavoro pensato e realizzato quindi in una direzione contraria: non c’era né c’è mai stato un “archivio ufficiale”, queste sono le registrazioni raccolte dalle radio libere di allora, sono le registrazioni amatoriali fatte dai collettivi che hanno organizzato i concerti, quelle fatte dagli amici e dai compagni, catturate su cassette e bobine conservate con quella cura che si riserva per le cose che hanno un valore affettivo inestimabile.
Gli Henry Cow erano indipendenti, anzi gli Indipendenti con la i maiuscola. Chiamavamo qui in Europa, a partire dalla fine degli anni Sessanta, “indipendenti” quelle etichette discografiche che non avevano effettivamente alcuna affinità di mezzi, orientamenti, metodi e strategie commerciali rispetto alle grosse ditte industriali fino ad allora esistenti. Il fenomeno indie era già invece già largamente diffuso negli Stati Uniti, dove numerose piccole imprese discografiche, spesso a conduzione familiare, avevano segnato la strada del rock e del jazz negli anni precedenti. In Europa l’ambiente si è differenziato “naturalmente” in due diverse specie: da una parte le piccole imprese commerciali che replicavano in scala ridotta la struttura ed i meccanismi delle major, dall’altra quelle con una forte caratterizzazione politica.
Spesso i collettivi musicali dal 1968 in poi invece che appoggiarsi a delle etichette discografiche preferivano organizzarsi in proprio ed autoprodurre (e distribuire nel circuito militante, evitando la catena distributori / grossisti / negozi) le proprie canzoni, il mezzo più diffuso la cassetta magnetica ed il vinile in formato 7”, il cosiddetto “quarantacinque giri”. Frequentemente, più che di imprese si è trattato di “marchi” di emanazione diretta dei musicisti stessi: le uscite erano sporadiche e la diffusione per lo più militante ai concerti e ai raduni. Henry Cow è stato (anche) tutto questo: partiti alla grande con un contratto con la Virgin, un amore durato poco, sono stati un collettivo, un’impresa, un’impronta, un suggerimento, un’ispirazione, un mito. Insomma, hanno “inventato” l’autoproduzione in Inghilterra almeno cinque anni prima dei punks anarchici, esportando la loro idea in tutta Europa stabilendo una fitta rete di collaborazioni con musicisti e collettivi di vari paesi. Sebbene ben piantati a sinistra, erano incapaci di rigidità intellettuale: in Italia intrecciarono la loro attività con quella della Cooperativa l’Orchestra degli Stormy Six e suonarono spessissimo nelle manifestazioni del partito radicale e del PCI, a sostegno di Stampa Alternativa e per iniziativa di collettivi politici locali (anche anarchici).

Henry Cow e Robert Wyatt

Troppo grosso per poterlo raccontare: si chiama “The road” e non poteva essere altrimenti. Sono migliaia di giorni e migliaia di chilometri sulla strada, migliaia di incontri, di scambi di opinioni e di cibo e di sguardi, di intrecci di relazioni e affetti. Migliaia di cartoline spedite per rallentare il tempo e accorciare le distanze, migliaia di arrivederci e di addii. Troppo grosso e troppo complicato: per raccontare gli Henry Cow è difficile/impossibile separare la musica dai ragionamenti. Il gruppo era tenuto insieme da quel cemento di coerenza e rigore che, a pochi anni di distanza, caratterizzarono anche i Crass.
Erano giovani bizzarri hippie vagabondi, ma si prendevano sul serio, voglio dire. Maledettamente sul serio. La musica era importante (potrei chiamarla ancora oggi come allora: nuova, diversa da tutto, stimolante, curiosa), ma era comunque un pretesto, un’occasione buona, una scusa altrettanto buona, un impegno per far circolare idee. Di tutto questo si ritrovano evidentissime tracce scritte nei libretti che accompagnano i cd: contengono un mosaico di diari, note, appunti di viaggio, numeri, precisazioni, riflessioni. Trovo terribilmente significativo che il malloppo delle spiegazioni inizi soltanto dopo un appello alla raccolta di fondi per sostenere Lindsay Cooper, il cui soffio nell’oboe e nel fagotto era divenuto una delle caratteristiche peculiari degli Henry Cow, costretta spietatamente all’immobilità dalla sclerosi multipla, incapace di muoversi, suonare, parlare. Mettetevi in due, tre, dieci e non fate cadere il silenzio.
Non so come raccontare gli Henry Cow a mia figlia, che ha adesso sedici anni. Non trovo le parole giuste per la meraviglia, lo stupore e il disorientamento che avevo provato io quando avevo la sua stessa età e di questa musica “alternativa” (date un’occhiata ad una rivista musicale di oggi, date un’occhiata alle classifiche cosiddette “alternative” di vendita e vi renderete conto di quanto indietro siamo tornati, anzi di quanto peggio stiamo) avevo iniziato a nutrirmi avidamente. L’ho però vista qualche giorno fa che leggeva quell’unica copia rimasta a casa nostra de “Nel cuore della bestia”, non gliel’ho chiesto ma mi piace illudermi che si sia fermata su questa pagina, dove ho provato a raccontare i tumulti del mio cuore di sbarbo:
“…I primi incontri ravvicinati del terzo tipo con questa nuova “musica alternativa” li ho avuti in occasione di un concerto organizzato dalla radio: un gruppo inglese dal nome strano, appunto gli Henry Cow, ed uno francese dall’altrettanto strano e intraducibile nome di Etron Fou Leloublan. Arrivarono in un paio di vecchi furgoni poveramente adattati a camper, e si dimostrarono persone semplici ed affascinanti, condivisero il nostro cibo e ci fecero assaggiare il loro. Non era come agli altri concerti, dove spesso noi si andava “a guardare” e “per esserci”: con loro nonostante la diversità delle lingue (i nostri discorsi erano composti di un mosaico di inglese, francese, italiano e dialetto veneto) si poteva parlare, stare assieme, scambiare delle opinioni e chiedere e dare informazioni, persino scherzare. La sera, più che ad un concerto sembrava di stare ad una festa, a una specie di circo misterioso e felice: la loro musica era strana, inaudita, come bizzarro era il modo di suonare. Ricordo bene Guigou Chenevier che incredibilmente riusciva allo stesso tempo a cantare e suonare il sassofono e la batteria, ricordo altrettanto bene Tim Hodgkinson senza le scarpe tradito da un buco nel calzino, Chris Cutler con i tamburi della batteria dipinti di paesaggi naif. Quel pugno di giovani girovaghi, ragazzi e ragazze assieme, offriva suoni e vibrazioni che non avevano nulla a che spartire con la musica ascoltata prima, ma soprattutto col loro atteggiamento semplice, aperto e sorridente erano riusciti a compiere un miracolo: i ruoli di “musicista” e “spettatore”, le etichette “rock” e “jazz” erano improvvisamente divenute espressioni del tutto prive di senso…”.
Alla fine, “The road” non ve l’ho raccontato. Non ci sono andato neanche vicino. Però proverò a parlarne con Marta, mia figlia: chissà se accetterà di ascoltare insieme un po’ della roba vecchia che amava/ama suo papà. Vi farò sapere come andrà a finire. Contatti diretti: www.rermegacorp.com. Segnatevi questo indirizzo: un bel segno scritto in rosso sul cuore.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it


“Duemila papaveri rossi”
2 cd con libretto

I due cd contengono 37 canzoni di Fabrizio de André
interpretate da musicisti e gruppi indipendenti.
Una iniziativa a sostegno di "A" delle Edizioni stella*nera.

Una copia 15 euro

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Paola Sabbatani e Roberto Bartoli
“Non posso riposare”
cd+dvd

Un cd e un dvd, dodici canzoni da ascoltare e un documentario realizzato da
Mario Bartoli e Giangiacomo De Stefano (Va.C.A. Vari Cervelli Associati).
Una co-produzione Editrice Bruno Alpini, Aparte e stella*nera.

Una copia cd+dvd 15 euro

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