Rivista Anarchica Online


 

In lotta anche
dopo il 25 aprile

Si intitola Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione 1945-1947, di Marco Rossi (96 pagine, 7,00 euro) il libro che le edizioni Zero in Condotta hanno appena pubblicato. Ne pubblichiamo stralci.

Attorno alla data del 25 aprile 1945, considerata e celebrata come l’anniversario della Liberazione, permangono ancora molti equivoci e rimozioni, dettate da un evidente utilizzo politico della storia, sino al punto di ventilare la cancellazione di tale festa dal calendario della Repubblica per sancire la conclusione della guerra che vide gli italiani combattersi su fronti opposti.
La principale mistificazione, da un punto di vista storiografico, riguarda proprio la data stessa del Venticinque Aprile con cui si vorrebbe far iniziare e concludere l’insurrezione popolare contro il fascismo e l’occupazione nazista, negando che quella guerra civile e sociale aveva un “prima” e, soprattutto, che conobbe un “dopo” tutt’altro che composto e riconciliato sotto la bandiera della cosiddetta pacificazione nazionale.
Uno dei fatti che contraddicono palesemente questa rassicurante ricostruzione del passato è l’esperienza, comune a migliaia di partigiani che, a distanza di poco più di un anno dalla Liberazione, tornarono in montagna “per rifiuto di abitare nella Repubblica che mitraglia i contadini, libera i fascisti e mette gli operai alla disoccupazione”.
La scelta di proseguire la guerra di liberazione percorse, a più riprese e in varie zone del Nord Italia, le componenti più intransigenti e avanzate del movimento partigiano che avevano vissuto la lotta armata contro i fascisti come la premessa per la costruzione di una società diversa, così come non avevano condiviso i cedimenti e gli appelli ai “fascisti onesti”. Tali insorgenze, nonostante le considerevoli dimensioni raggiunte, rimangono a tutt’oggi una parentesi pressoché ignorata e sconosciuta, a causa dell’evidente dissonanza che rappresentò e ancora rappresenta per la storia ufficiale della Resistenza. (…)
Il fenomeno ribellistico, seppur minoritario, coinvolse in modo spontaneo migliaia di volontari e soprattutto raccolse molti consensi tra quanti avvertivano la delusione per una situazione pesantemente segnata dalla mancanza di lavoro, dall’assenza di provvedimenti a favore di coloro che più avevano sofferto la tragedia della guerra e dalla negata riforma agraria, mentre il padronato riprendeva indenne il suo posto ed erano tornati pure in circolazione i fascisti con ritrovata baldanza.
Si verificarono quindi, nell’arco di alcuni mesi, estesi movimenti di ribellione armata contro il governo formato da quei partiti che pur avendo fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale, ora erano apertamente accusati di aver tradito gli ideali resistenziali. (…)
Le ragioni che, a distanza di un anno dai giorni entusiasmanti della vittoria antifascista, avrebbero portato migliaia di ex partigiani di nuovo alla macchia erano molte: dalla mancata epurazione dei fascisti all’amnistia nei confronti di questi firmata dal guardasigilli Togliatti (Decreto presidenziale del 22 giugno 1946); dalla criminalizzazione dei reduci partigiani e antifascisti alla loro emarginazione sociale; dalla mancanza di provvedimenti legislativi a favore degli ex internati nei lager nazisti fino al deludente clima di restaurazione capitalistica, ancora una volta a danno della classe lavoratrice. (…)
L’amnistia Togliatti ebbe conseguenze politicamente devastanti e l’associazionismo partigiano la considerò unanimemente un’offesa, politica e morale: se l’obiettivo utilizzato per giustificarla era stato quello della pacificazione nazionale, non poteva esserci smentita più netta. Numerose quanto dure furono le prese di posizione contrarie, intrecciandosi con i movimenti di aperta rivolta di quei mesi.
Tra queste vanno citate quelle indignate della Confederazione italiana perseguitati politici antifascisti, delle associazioni dei familiari dei caduti nella lotta di liberazione e persino dei Partigiani e Reduci degenti nel Convalescenziario di Lavarone (Tn). Ben più minacciose quelle di diversi gruppi di partigiani che certo non si consideravano “ex”. È il caso, ad esempio, dei partigiani del Bellunese che per due volte (il 28 giugno e il 12 luglio 1946) scrissero nero su bianco la loro protesta contro l’amnistia, rivendicando al contempo la scarcerazione dei loro compagni “anche se hanno commesso dei delitti”.
Il 5 luglio, un gruppo di familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine dimostrò la sua indignata protesta davanti al ministro Togliatti.
Anche all’interno dell’associazionismo partigiano prevalevano sentimenti di rabbia e amarezza che esplosero, anche clamorosamente, nei diversi congressi regionali e provinciali. A Modena, i dirigenti dell’Anpi, fedeli alla linea dettata dal Pci, che in un primo momento avevano appoggiato il provvedimento, furono costretti a rinnegare l’amnistia una decina di giorni dopo la sua effettiva emanazione. A Imperia, nel corso di un comizio, un dirigente dell’associazione minacciò il ricorso alla violenza nel caso di ulteriori misure di assoluzione a favore dei fascisti. A Torino, in occasione dell’assemblea piemontese del 28 luglio, il segretario della inquieta sezione astigiana, senza mezzi termini, giunse a proporre di riprendere in mano il mitra per fare giustizia. (…)
Assieme all’amnistia che rimetteva in circolazione diverse migliaia di gerarchi e reduci delle varie formazioni armate di Salò, il 1946 vide anche la rinascita e una crescente riorganizzazione neofascista, già peraltro riscontrata a pochi mesi dalla Liberazione, spesso sotto la copertura fornita dal partito dell’Uomo qualunque. Fin dal settembre 1945 Giuseppe Di Vittorio aveva denunciato il risorgere dello squadrismo in Puglia contro le lotte contadine – Ma l’epicentro di tale ripresa fu soprattutto la Valle padana, già culla sia del primo squadrismo agrario che della Repubblica sociale. (…)
Nonostante qualche simile circoscritto precedente, fu nell’estate del 1946 che la protesta contro la mancata epurazione, la perdurante prigionia di partigiani incriminati per azioni compiute sotto l’occupazione nazifascista, ma anche per la non-concessione di provvedimenti legislativi ed economici in favore degli ex internati nei campi di concentramento, giunse a trasformarsi in rivolta armata.
Il governo De Gasperi, peraltro, aveva accettato i massicci licenziamenti voluti dagli industriali, tanto che nelle settimane precedenti si erano verificati forti scioperi operai per adeguati aumenti salariali e tumulti contro il carovita e la disoccupazione, da Genova a San Severo.
La prima ribellione partigiana si verificò il 21 agosto 1946, nell’astigiano, non lontano dal territorio che durante la resistenza aveva visto la repubblica partigiana di Alba. Ad innescarla fu la destituzione del capitano della polizia ausiliaria, Carlo Lavagnino, dalla biografia alquanto movimentata, ed in breve si sarebbe allargata in altre località del Piemonte, la regione che aveva conosciuto il più forte movimento partigiano (…)
Alla fine di ottobre si giunse quindi ad un tentativo di rilancio della precedente sollevazione partigiana che, stavolta, ebbe come teatro il biellese. Attorno al 18 ottobre, su iniziativa del Mrp, un primo consistente gruppo di ex partigiani ed alcune antifasciste si concentrò tra San Martino e San Bononio, frazioni montane del comune di Curino (Vc) contestando ancora una volta l’amnistia Togliatti e l’emarginazione dei combattenti antifascisti, ossia le questioni politiche rimaste irrisolte. (…)
Altri episodi sarebbero stati nuovamente registrati nel giugno e nell’ottobre del 1947 nelle province di Novara e Biella, con la mobilitazione di centinaia di ex partigiani ed il loro ritorno sui monti. Tali focolai di rivolta, puntualmente sconfessati dall’Anpi e dal Pci, furono presto isolati dalle forze della repressione statale, mentre la Resistenza veniva condannata a vivere solo nel mito, nonostante la memoria e la volontà di chi l’aveva autenticamente vissuta.

Marco Rossi


Sicurezza e decoro
innanzitutto

Nell’agosto 2007, l’amministrazione comunale di Firenze emise un’ordinanza che rendeva reato penale “l’esercizio girovago del lavavetri” e imponeva 150 prescrizioni, fra le quali “il divieto sul suolo pubblico di eseguire giuochi di qualsiasi genere”. Il libro di Lorenzo Guadagnucci Lavavetri (Terre di Mezzo-Edizioni Piagge, 7,00 euro) segue passo passo l’intera vicenda, mettendone a nudo tutti gli elementi più preoccupanti e contraddittori. Ma la documentata analisi contenuta in Lavavetri è molto più ampia e preziosa per capire la deriva autoritaria degli ultimi anni. Emergono con chiarezza la ritirata dello Stato di fronte ai bisogni sociali incrementati da un’economia basata su mercato e precariato e il parallelo diffondersi fra le istituzioni di un’ossessione sicuritaria, ormai abbracciata in modo bipartisan.

Sicurezza e decoro è il binomio che ha spinto i governanti fiorentini a scacciare 50 lavavetri, che l’autore ha poi ritrovato. I rom vivono in un’area periferica degradata, in condizioni disastrose; un muro protegge gli altri cittadini dalla loro vista. Il caso Firenze non è affatto isolato, in un contesto dove i sindaci hanno stretto “Patti per la sicurezza” rivendicando poteri più simili a quelli degli sceriffi del West che all’Europa democratica. Il cedimento della cultura democratica, di valori come uguaglianza e solidarietà, lascia spazio a un doppio registro di cittadinanza: leggi per gli italiani e regole molto più restrittive per gli stranieri. Il tutto accettato nel nome di una dilagante percezione di insicurezza che ha deboli motivazioni reali ma confonde fatti e sensazioni, atti concreti e fobie. Con uno strabismo di fondo: la nostra economia non può fare a meno dei migranti eppure non si attuano politiche di accoglienza, favorendo così il lavoro in nero e l’azione dei clan criminali.
La politica e il mondo dei media ne escono a pezzi e solo sparute voci della società civile provano a opporsi contro questo passaggio “dallo stato sociale allo stato penale”. Piccoli gruppi e associazioni, qualche isolato religioso. Troppo poco per un Paese che insiste a definirsi democratico e civile.

Fabio Gavelli


I neofascisti
in Italia oggi

Si intitola Le nuove camicie brune. Il neofascismo oggi in Italia il libro di Saverio Ferrari, appena pubblicato dalle edizioni BFS (pagg. 80, euro 6,00). Ferrari studia da anni il fenomeno delle destre radicali e si occupa di ricerche storiche relative agli anni della “strategia della tensione”. In questa sua ennesima opera Ferrari esamina con estrema chiarezza i nuovi raggruppamenti, i riferimenti politici e culturali, le simbologie e i miti di un preoccupante fenomeno
L’introduzione è di Vincenzo Vasile. Eccola.

Un paese smemorato

L’Italia ha un vizio antico. Fatica a capire se stessa. Spesso non comprende la sua cronaca. Perché ha sotterrato, come uno struzzo, la sua storia. L’Italia, in genere, è smemorata. Non si ricorda di quel che è accaduto appena ieri. Figurarsi quel che è capitato ieri l’altro. Per esempio. Quando ricompare, a tratti – con una cadenza che sembra regolata da un piano, ma non lo è – l’uso della violenza come arma della politica, ci si rifugia lungo due sentieri. Apparentemente comodi. Ma in realtà senza uscita. Convergenti, non paralleli. I due vicoli ciechi sono: la generica condanna, e la strumentalizzazione di parte.
Questo vizio è trasversale, accomuna la sinistra e la destra. Figurarsi il centro, che è stato educato in fasce alla scuola democristiana degli “opposti estremismi”. Prendiamo il caso – che a nostro avviso è da considerare, ma in altro senso, speculare – del terrorismo rosso e delle stragi nere. A sinistra, sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, s’erano già scordati della retorica profusa a piene mani dall’ala anti-togliattiana del pci in centinaia di testi e di comizi sulla Resistenza tradita. E quando apparvero le Brigate rosse, in molti si chiesero, ammiccando, se fossero “rosse” per davvero. In buona fede, o no, poco importa. A destra, negli stessi anni di piombo, fecero finta di essersi scordati – oppure s’erano davvero dimenticati? – come il cuore dei gruppi eversivi estremi del loro campo avesse battuto per qualche decennio sotto la facciata missina in doppiopetto. E che, tanto il “cuore nero” dei giovani di estrema destra, quanto la facciata istituzionale e parlamentarizzata del partito di Michelini e di Almirante, avessero vissuto lungamente e fossero cresciuti in corrispondenza di amorosi sensi con gli apparati “deviati” dello Stato.
Così ancor oggi gli ex fascisti dell’ala moderata, inglobati nel partito di Berlusconi, in parallelo con gli ex fascisti dell’ala estrema (di cui troverete il nuovo e complesso atlante storico-ideologico nelle pagine che seguono), distinguono il capello in quattro. Soprattutto, e non solo, in sede di sempre più frequente ricostruzione memorialistica: Avanguardia nazionale contro ordinovisti, e Terza posizione, e Mambro e Fioravanti, e il “gruppo veneto”, più o meno movimentisti, più o meno organizzati, più o meno stragisti, più o meno fascisti, in definitiva, fascisti immaginari, fascisti per caso?
Ne viene fuori, negli editoriali cerchiobottisti dei grandi giornali, in libreria e nei talk show, un confuso chiacchiericcio che ottunde la comprensione di una ricrescita attuale ed evidente – in condizioni nuove e versioni rivedute e corrette – del pericolo eversivo. Esso riprende, pur in assenza di uno dei riferimenti geopolitici che la vulgata corrente riterrebbe essenziale, la fine della divisione del mondo in due blocchi, la caduta del Muro.
Questo libro di Saverio Ferrari ha il merito di contestare con ricchezza di documentazione e profondità di analisi questo obnubilamento diffuso. Il fatto è che manca un’efficace comprensione delle radici e delle prospettive di un’insorgenza inquietante e drammatica. Che – pure – occupa, a differenza del passato, prime pagine e titoli di testa dei telegiornali.
Se ne riparla a ondate, con inquietudine o curiosità folkloristica, una volta per le imprese violente degli “ultras” delle curve calcistiche, un’altra per le “strane” occupazioni di case sfitte in funzione anti-immigrati, un’altra ancora per le brutalità contro i cortei dell’Onda, o per le spedizioni punitive che tormentano, con cadenza sempre più frequente, i centri sociali.
Sfuggono in questo modo, secondo noi, molteplici elementi di riflessione.

  1. Anzitutto, il neofascismo del terzo millennio ricompare oggi nell’Italia berlusconiana in una veste apparentemente rinnovata e dotata di nuovo appeal nei confronti di estese fasce giovanili. Forza nuova, la più citata delle organizzazioni estremiste attualmente operanti in Italia, e i camerati che popolano il resto del nuovo arcipelago nero, si muovono in ordine sparso dentro a un orizzonte ideologico e politico che potremmo definire “filo-governativo”. Nello stesso tempo ne interpretano una versione “frondista”, quando non di aperta “opposizione”. Dicono, forse, apertamente nelle loro riviste e nei loro manifesti quel che pensa, ma non dice, una parte grande della maggioranza parlamentare. Giocano da battitori liberi in materia di razzismo, di politiche sociali, di immigrazione, di ebrei, di ordinamenti scolastici e di organizzazione sociale dello Stato.

  2. C’è novità, e c’è continuità. Troverete in questo libro un’impressionante antologia di falsità storiche e di orrori politici diffusi ormai, soprattutto sul web, senza freni. La polizia di Berlusconi – come abbiamo visto a piazza Navona, non solo su internet – sostanzialmente li lascia fare. E questo è un importante e forse ancora inesplorato punto di contatto con l’esperienza degli anni Cinquanta e Sessanta: quando i governi centristi – ma anche il primo centrosinistra, condizionato da apparati inquinati e legati alla vecchia politica dell’ordine pubblico – non vollero e non seppero fermare i giovani “mazzieri” che assaltavano, praticamente indisturbati, i primi cortei pacifisti e le scuole più rosse. Fu questo “colpire nel mucchio”, spesso all’ombra della protezione delle squadre politiche delle questure italiane, l’apprendistato di parecchi terroristi di destra, poi passati agli ordini di poteri occulti e torbidi, come risulta dalle accuse mosse a burattinai e burattini da “pentiti” e da “irriducibili” dell’eversione nera.

  3. Pesa in questo frastagliato itinerario politico ed ideologico certamente il fatto che una parte di queste nuove formazioni, nella fase in cui il centrodestra era all’opposizione, abbia stipulato – a volte per romperli subito dopo, altre volte per riannodare legami più stretti – alcuni accordi elettorali, gestiti direttamente con il network di Arcore, scavalcando il partito di Gianfranco Fini. È cronaca di qualche anno fa. L’abbiamo già scordata? Non ci può servire, forse, per capire il potenziale di ricatto e di pressione – anche sul sotto – governo delle amministrazioni locali, per ritagliarsi spazi e per campare – che la “lobby” della destra radicale può mettere in gioco?

  4. C’è un’altra novità, e in proposito il libro di Ferrari bisognerebbe farlo circolare nelle scuole. La camicia nera sta virando sempre di più verso il colore bruno. Sono sempre più nazisti, e sempre meno fascisti, i giovani affiliati ai gruppi eversivi della destra estrema. Le loro radici ideali – anche se questo termine può apparire inappropriato – traggono linfa in un retroterra culturale esoterico e misticheggiante che ha ben poco a che fare con la nostalgia “repubblichina” o di “regime” che scaldava i “cuori neri” qualche decennio addietro. Oggi tornano le croci celtiche, non solo tracciate sui muri delle nostre città, ma anche al collo di qualche sindaco in grisaglia. E tornano i caratteri runici nei “loghi” e nei manifesti elettorali (cfr. il capitolo dedicato al tema del ritorno dei simboli neonazisti).

  5. Sorge a tale proposito un dubbio, un cattivo pensiero. Che dietro certe professioni di “afascismo” degli ex fascisti istituzionali si nasconda – oltre che qualche sincera resipiscenza – anche qualche strizzata d’occhi verso il proliferare tra i “giovani di area” di tante camicie non più nere e sempre più brune? Inseguire la destra più radicalizzata, antisemita, filonazista, nel nome di istanze sociali e di generica comprensione del disagio giovanile, potrebbe rivelarsi infatti per i colonnelli meno “finiani” dell’ex Alleanza nazionale un calcolo politico non banale. Un’utile carta da tenere in serbo nella manica. Soprattutto se in futuro l’imprevedibile capo del neonato “popolo delle libertà” continuasse a pretendere mano libera all’estrema destra. Se Berlusconi si ostinasse a voler fare tutto da solo, il moderato e l’ultrà, se Fini si ostinasse a coltivare la chimera del Quirinale, c’è insomma nelle retrovie un piccolissimo e tumultuoso – oltre che deluso – esercito giovanile che può sempre tornare utile, in caso di redde rationem.

Queste e altre riflessioni si possono trarre dal denso volumetto che vi apprestate a leggere. Non ultimo l’inquietante sospetto e l’apprensione che vengono generati dal ricorrere di troppo dirette e numerose filiazioni e ascendenze dei nuovi “cuori neri” con la vecchia genealogia di consistenti frange dello stragismo italiano. Navigando oggi per molti siti web ritrovate certe facce e certi nomi, Pier Luigi Concutelli, Luigi Ciavardini – evocati come miti positivi, comandanti militari, innocenti perseguitati, modelli viventi di esistenza e battaglie – che pensavamo di potere ormai relegare negli archivi della nostra memoria, tra noi addetti ai lavori dei misteri e delle trame d’Italia. E l’avremmo fatto, lo faremmo volentieri, come si suole fare al mattino per liberarci di un incubo dopo una notte troppo lunga e tormentata. Se non fosse utile e sempre più necessario, viceversa, esercitare il dovere della memoria e della ricerca storica. Per contrastare una magmatica e violenta deriva di cui purtroppo è prevedibile che torneremo presto a dovere parlare.

Vincenzo Vasile


Camus e
Foucault

In questo mio contributo alla Rivista vorrei prendere spunto da due libri usciti recentemente, ambedue, a mio giudizio, particolarmente attuali.
Il primo è un agile volumetto pubblicato da Elèuthera alla fine dello scorso anno e, per la cura di Vittorio Giacopini, contiene gli scritti politici di Albert Camus apparsi in varie testate dal 1946 al 1956. Il suo titolo è Mi rivolto dunque siamo.
Il secondo porta il titolo La strategia dell’accerchiamento, pubblicato lo scorso febbraio dall’editrice palermitana Duepunti e contiene una selezione mirata di conversazioni e interventi di Michel Foucault, tra il 1975 e il 1984. Il curatore è Salvo Vaccaro, che ha fatto precedere i testi da una articolata e puntuale prefazione.
Ma andiamo con ordine.
Camus, come tutti sanno, è l’autore, tra l’altro, de Lo straniero e de L’uomo in rivolta, due libri fondamentali per riconoscere, in quel letterato apparentemente prigioniero della società intellettuale del tempo, un libertario in perenne rivolta contro un mondo che non gli piaceva affatto e che, lucidamente, vedeva correre verso la sua rovina. Non era un rivoluzionario nel senso proprio del termine, ma il suo evocare l’immanenza delle ombre, l’apparente estraniamento del suo cantare alla luna mal celavano l’immenso suo anelito alla libertà, il rammarico costante di vedere l’uomo perenne prigioniero delle molte gabbie che le istituzioni costruivano attorno a lui.
Ed è proprio dell’angoscia annichilente di quest’uomo contemporaneo che Camus parla nel suo scritto Né vittime né carnefici apparso nel lontano 1946. Ad un certo punto del testo, si legge:

Presi in mezzo tra la paura assai generale di una guerra che tutti preparano e quella tutta particolare delle ideologie assassine, è dunque vero che viviamo nel terrore. Viviamo in mezzo al terrore perché la persuasione non è più possibile perché l’uomo è stato consegnato tutto intero alla storia e non può più volgersi verso quella parte di sé, altrettanto vera quanto quella storica, che egli ritrova davanti alla bellezza del mondo e dei volti....(pagg. 18/19)

Oggi le paure dell’uomo non sono più quelle dell’immediato dopoguerra, ma è certamente vero che i suoi incubi e i suoi terrori derivano dal suo essere stato per intero consegnato alla storia...
Ma cosa c’è oltre la storia? E come dalla storia si può venir fuori?
Sono molti gli intellettuali, storici e filosofi, ad avere immaginato soluzioni alternative. Adorno, ad esempio, col suo rifiuto della sintesi dialettica, con il suo no reiterato da opporre all’apparente ineluttabilità di un divenire (lineare?) delle sorti del genere umano, iscritto una volta per tutte, indicava ai suoi allievi un modo per consolidare la rottura costituita dai moti del Sessantotto. Ma non ne venne fuori e finì col confinarsi in un isolamento, interrotto soltanto dalla sua attività di geniale critico musicale (i suoi saggi sulla dodecafonia sono ancora oggi insuperati).
Camus immagina che, per uscire dal mondo degli uffici e delle macchine, delle idee assolute e del messianismo senza sfumature, che è il mondo della storia, occorre ripensare e ripensarsi, allargare la sfera delle relazioni e della solidarietà, dell’azione meditata e consapevole.
Ma se la storia è il tracciato del potere che si perpetua, dove allocare i senza potere? Come districarli dall’ineludibile e compromissorio confronto (perdente) col potere?
Non è forse vero che ogni qualvolta l’uomo si è rivoltato contro un esistente percepito come annichilente, nei libri di storia lo ritroviamo descritto come soggetto scapigliato e privo di futuro?
Ma il peggio è che, nei rari casi in cui la rivolta si consolida in forma istituzionale, quello stesso soggetto, protagonista del moto di rivolta, lo ritroviamo a riscrivere una diversa storia del potere, con le mani lorde del sangue delle nuove vittime
I Pisacane, i Gandhi, i Martin Luther King sono certamente citati dagli storici, ma come incidenti privi di conseguenze, come rompicoglioni coraggiosi che nulla o quasi nulla aggiungono al corso principale della storia, nel quale, viceversa, splendono di luce propria i carnefici: Umberto I di Savoia, Benito Mussolini e persino i dittatorelli in pectore, come lo scalcinato pifferaio di Arcore, per limitarci alla relativa contemporaneità del nostro afflitto Paese.

Albert Camus

Per Michel Foucalt il discorso è diverso.
A suo modo di vedere, a partire dal XIX secolo, l’uomo si vede privato della tradizionale storiografia onnicomprensiva e si accorge che i vari saperi (le scienze umane, l’economia, il linguaggio) e le cose stesse, possiedono ciascuno la propria storia e i propri tempi storici, sicché in questo pluralismo di narrazioni, l’essere umano si trova solo e con una sua vicenda difficile da isolare e tramandare.
Di più: per rendersi soggetto di storia l’uomo deve contestualizzarsi, deve cioè percepire appieno le caratteristiche specifiche del suo habitat in tutte le sue dimensioni culturali, politiche e sociali.
In questo quadro, il suo rapporto con il potere, non generico, non ideologico, ma prossimo, riconoscibile, che incide direttamente sul vissuto individuale e della collettività, diventa un rapporto diretto e imprescindibile.
Così Foucault abbandona l’indagine sui grandi temi della storiografia tradizionale e scruta le dinamiche attraverso le quali il potere afferma il proprio dominio: i sistemi giudiziari, i luoghi di detenzione, i manicomi. Scende per strada, insomma, e si fa carico delle sofferenze dei suoi simili: va nella Madrid franchista nel settembre del 1975 per denunciare i crimini dei tribunali speciali; si reca in Germania per sostenere l’azione dei legali del Gruppo Baader Meinhoff, disvela le trappole nascoste nelle politiche statali per la sicurezza, miranti, con la insistita diffusione del senso della precarietà e del terrore, a limitare ulteriormente le già ridotte libertà civili.
È la strategia dell’accerchiamento in virtù della quale si induce il cittadino ad accettare ogni violazione dei diritti acquisiti.
Nella prefazione al libro Salvo Vaccaro approfondisce i temi della problematica foucaultiana e ne evidenzia l’attualità, individuando i vizi e gli squilibri di un mondo occidentale in crisi ma in via di una rinascita che ricalchi senza grandi differenze il già vissuto.
Chiarisco subito che con queste note non ho voluto recensire i due libri che vi ho proposto: non ne avrei le qualità: non sono infatti né un letterato, né uno storico né tanto meno un filosofo. Il fatto è che anch’io voglio uscire dalla Storia. Il pensiero che la mia biografia, per modesta che sia, finisca nello stesso contenitore nel quale gracidano i melmosi ranocchi protagonisti della mia dolente contemporaneità, mi fa andare fuori di testa. Io non so se il senso della bellezza, il valore del pensiero meditato, indispensabile preludio all’azione, la simpatia umana, bordone costante del nostro essere al mondo o la semplice disponibilità alla solidarietà abbiano dato al Camus morente la consolazione di aver trovato il sentiero percorribile per uscire dalla pania di una narrazione di eventi/capitolo che cadenza il divenire del potere ed emargina i vissuti della moltitudine dei senza nome. Non so neanche se una nuova lettura della vicenda umana, che ancori l’uomo al concreto tessuto del suo habitat, che lo inveri da categoria dello spirito in cui lo ha relegato la filosofia idealistica a protagonista consapevole del suo destino terreno (operazione che, a mio parere, è alla base del pensiero di Michel Foucault) non so – dicevo – se neppure questa ipotesi di lavoro ci porterà a liberarci dalle molte costruzioni gerarchiche e liberticide che mortificano le nostre esistenze.
So soltanto che continuerò a ribellarmi in ogni istante della mia esistenza contro chi vorrebbe assimilare il mio al destino delle formiche perennemente affaccendate nell’attesa fatalistica dell’ineludibile formichiere.

Antonio Cardella