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                  Felix Leclerc il pioniere 
                 Un giorno, rientrando a casa, lo shock!  
Era un periodo turbolento, il Québec – il Canada francofono – si risvegliava come da un lungo sonno e voleva mostrare tutta la sua energia vitale e culturale al Canada anglofono, ai vicini egemoni e colonizzatori. Gli animi più sensibili, quelli che meno sopportavano i secoli d’umiliazione, si ribellarono, anche con violenza. Nell’ottobre del 1970 il rapimento e poi il ritrovamento del corpo senza vita del ministro del lavoro Pierre Laporte, furono accompagnati da repressioni indiscriminate.
                 
                  
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                    Felix Leclerc  | 
                   
                                 Un dolce e bucolico poeta con la chitarra, un filosofo contemplativo – che aveva passato buona parte della sua vita lontano, cantando in Francia e per l’Europa – proprio in quei giorni, quando rincasava da un concerto nella sua Isola d’Orléans, situata precisamente di fronte alla città di Québec, si vedeva malmenare e chiedere i documenti – rigorosamente in inglese – da militi bardati a guerra. 
  Una notte, seduto sui gradini di casa scrisse di getto:
                 Ho un figlio arrabbiato 
  Che non crede né a dio, né a diavolo, né a me. 
  Ho un figlio schiacciato 
  Sotto i tempi della finanza dove non può entrare 
  Sotto quelli della parola da dove non può uscire. 
  Ho un figlio depredato, come suo padre 
  Portatore d’acqua, taglialegna, affittuario e disoccupato 
  Nel suo stesso paese. 
  Non gli resta altro che la bella vista sul fiume 
  E una lingua materna non riconosciuta. 
  Ho un figlio in rivolta, un figlio umiliato 
  Un figlio che domani sarà un assassino. 
  Allora per il panico ho gridato “aiuto, soccorso, venite” 
  Il grosso vicino di fronte è accorso armato, stupido, straniero 
  Per abbattere mio figlio una volta per tutte 
  E spezzargli i reni, la testa, il becco, le ali... povera allodola! 
  Mio figlio è in prigione e io dentro di me 
  Nel profondo di me, per la prima volta 
  Malgrado tutto me stesso, sento crescere la furia. 
                Felix Leclerc è un pilastro della canzone, un pioniere, un iniziatore. Timido, malato di riservatezza e ostile a ogni esibizione (cantare in pubblico non mi piace), ha marcato con la sua presenza e la sua poesia due sponde dell’oceano. 
  La sua era una famiglia di seminatori di grano: un po’ contadini, un po’ allevatori, un po’ commercianti; il padre Léo era il tipo che aveva bisogno di cambiare spesso orizzonte, di nuovi paesaggi, di costruirsi con le proprie mani una casa dove prima non c’era nulla 
                Ho due montagne da attraversare 
  Due fiumi da bere, sei vecchi laghi da spostare 
  Tre nuove frane da ripulire, diciotto savane da dissodare 
  Una città da fare prima di sera. 
                Felix era nato nel 1914 col medesimo gusto dell’altrove nello sguardo, ma aveva mani vocate alla scrittura, occhi pronti a cogliere la più piccola delle sensazioni. Così, dopo l’infanzia felice e campagnola (Siamo tutti nati, fratelli e sorelle, in una lunga casa di legno a tre piani, una casa gobba e cotta come pane di grano, dentro caldo e pulito come mollica. (...) eravamo undici bambini a bordo), volse alla città la propria propensione letteraria. Pubblicò qualche libro, stroncato dagli accademici ma piuttosto ben recepito dal pubblico, e scrisse testi radiofonici, leggendoli talvolta con la sua voce profonda. Ogni tanto, in radio, per legare sketch a sketch, prese l’abitudine di servirsi delle canzoni che componeva per proprio sfogo. 
                  
                La svolta si deve al più leggendario impresario francese, Jacques Canetti – l’ebreo bulgaro, fratello di Elias, che ha scoperto e prodotto Brel, Gainsbourg, Brassens, Vian, Higelin, Guy Béart, Nougaro, Jeanne Moreau, Serge Reggiani... – di passaggio per il Québec, nel luglio del 1950, voleva portarsi dietro un artista che rappresentasse bene quel paese. Una concitata notte, Felix – che tutto voleva fare, meno il cantante – fu intercettato, dopo lunghe ricerche, dai suoi amici della radio e fu praticamente costretto a cantare le proprie canzoni davanti a Canetti, cosa che fece di malagrazia. Colpo di fulmine, contratto firmato immediatamente: tre mesi e mezzo dopo sbarcava a Parigi per una lunga tournée teatrale e per incidere il primo disco, subito insignito del massimo riconoscimento, il Grand prix de l’Académie Charles Cros. 
  Secondo colpo di fulmine: il pubblico francese s’innamorò di lui. All’inizio colpì il suo aspetto esotico, ma poi, e molto più a fondo, colpì la poesia profonda, i richiami blues, tzigani, folk della sua musica, la totale atipicità dei suoi brani. Fulminanti illuminazioni, aforismi ironici, profonde riflessioni, capacità di raccontare in pochi versi favole sulla follia con accenti di verità 
                In una palude di rami torti c’era un vecchio castello dalle tende pesanti 
  Nel castello c’era Bozo, figlio di marinaio, signore del palazzo tremante. 
  Dall’oblò del suo castello Bozo vedeva entrare i suoi invitati incipriati: 
  Le vecchie rosse con le carrozze e la fata Morgana, c’erano tutti, meno lei! 
  Questa è proprio una brutta storia 
  Perché Bozo, lo scemo del villaggio, è innamorato 
  La sua amata non è venuta... ben inteso, perché non esiste 
  Né il castello con le tende pesanti, né i musicisti vestiti a festa 
  C’è solo Bozo, vestito di pelle, figlio di marinaio 
  Che va per la palude su una vecchia barca. 
  Se passate da quel paese la notte, c’è un fanale come segnale di ballo 
  Danzate, cantate, agitate le braccia per consolare 
  Il povero Bozo che piange dalla barca. 
                E poi rimase il rigore. Nel periodo delle pesanti orchestrazioni e dell’avanspettacolo, Leclerc appariva in scena, primo fra tutti i francofoni, accompagnato solo dalla propria chitarra. 
  Era sbarcato in Francia tutto un nuovo genere di canzoni: se Charles Trenet aveva già introdotto una scrittura raffinata e letteraria, portando nei ritmi swing del Music-hall la sua poetica surreale, con Leclerc si materializzava il primo uomo che canta, un poeta del quotidiano che si regge in scena con la pura forza delle parole diventate musica, come cantasse a sé stesso, come si rivolgesse a ciascuno e non “al pubblico”. Fu una rivoluzione: i piccoli cabaret che non avrebbero mai potuto permettersi grandi masse o mezzi sonori e potenti riflettori, aprirono le loro porte a questi nuovi menestrelli che sorsero dal profondo della storia della poesia con una nuova forma di poesia. 
  Arrivò presto Brassens e poi Guy Beart, Annie Sylvestre, Pierre Perret... ma il primo fu Felix Leclerc. 
  Qualche anno di sudore sparso di teatro in teatro, poi, al suo sguardo bisognoso di spazio, le nostre affollate città vennero a noia, così la sua carriera si alternò, per oltre trent’anni, fra lunghe pause, rintanato a scrivere libri e pièces teatrali, e tanti concerti in Francia e Québec, ogni volta presentando, affianco ai suoi classici Le petit bonheur o Moi mes souliers, nuove creazioni: 
                Si cresce come alberi, ci si indurisce come marmo 
  Poi ci si sporca un po’, poi si passa nel fuoco. 
  Ci si avvicina come alghe, si affonda poco a poco 
  E al di sopra dell’onda sempre il silenzio blu.(...) 
                Siamo come le alghe alla deriva nella notte 
  Sul dorso dell’onda senza scopo, senza fine, senza rumore. 
                Una coscienza, come la sua, sveglia, all’erta, qualche turbolenza emotiva, la fine di un matrimonio e un nuovo amore, l’incontro con la generazione del maggio ’68, senza distogliere Felix dal suo approccio filosofico, lo posero di fronte al mondo degli uomini che gli parve non meno interessante della natura e della solitudine che aveva cantato fino ad allora. Nacque in lui una nuova consapevolezza e nacquero nuove canzoni 
                Cinquant’anni di spinte, di stop, di marce ancora 
  A mietere per gli altri senza aver diritto al grano 
  Difendere il paese che ruba ciò che è tuo 
  costruire case e poi dormire fuori. 
  Suonare le campane per festeggiare sconosciuti 
  Intrecciargli corone e non esser riconosciuti 
  Tracciare ferrovie, senza mai prendere il treno. (...) 
                Ho arricchito gente che ne ha profittato 
  E cosa mi resta dopo tante battaglie? 
  Resti tu bambino mio, mio respiro, mia estate 
  Che proteggo nascosto in fondo al ventre. 
  E se prenderanno anche te saranno loro a cadere: 
  niente più canti, niente più ponti... tornerai ferito, ma ripartiremo 
  per la centesima volta a fare nuove canzoni. 
                Cresciuto com’era in un ambiente molto cattolico, profondamente credente e osservante, fu costretto a riconoscere, fra la gente che sfrutta e disprezza il prossimo, anche coloro che della religione facevano mestiere 
                C’è una razza di gente che vive tagliata fuori dal mondo e non lo vede mai 
  Che disprezza il mondo da dietro le finestre scolpite dei palazzi 
  Niente donne lì, né bambini, né nonni, né problemi di coppia 
  Vive di spirito... e chi è che la nutre? La povera gente, amore mio. 
                C’è una razza di gente, quella delle strade del mondo e che non ne esce 
  Che deve correre per il pane, per coprirsi, per penare, per il treno quotidiano 
  Schiacciata dagli ingranaggi, dalle ruote, dal lavoro, dal baccano della città 
  La notte disgustata di ascoltare, di parlare non riposa che da morta 
                C’è una razza di gente che vive alle spalle del mondo, lo segue come un cane 
  Lo deruba quando dorme, gli rigira le tasche e l’oro lo porta lontano 
  Una razza di sciacalli, invisibile e dannosa, al mattino sparisce 
  Non ha nome né rango, il suo indirizzo è il vento, cattiva, distante, assente. 
                La peggio razza di gente, l’ultima razza al mondo è quella che guida il mondo 
  A gran colpi di firme, a gran colpi di cannone, di giuramenti e di leggi 
  Il paradiso, amore, è possibile qui, in ogni paese 
  Ma l’ha distrutto proprio in nome dell’ordine... e ho detto abbastanza. 
                In questa condizione aperta e critica si trovò Leclerc, ormai sessantenne, quando il suo paese, il suo Québec, cominciò a trovare la forza e le parole per pronunciare ad alta voce le proprie verità. Queste parole il Québec le trovò spesso nelle canzoni, anche perché a dieci anni dall’esordio di Felix – che col suo successo aveva stimolato molti giovani artisti canadesi a seguire le sue orme – s’era sviluppato un movimento (detto dei Bozo, in omaggio alla sua canzone che abbiamo citato più sopra) di cantanti autori di altissimo livello: Vigneault, Ferland, Léveillé, Pauline Julienne, ecc... a loro si volgevano le orecchie affamate di parole di un popolo affamato di libertà, a loro si volgevano gli occhi del potere centrale, che arrivò a censurare una canzone di Vigneault Le gens de mon pais. 
  Caposcuola suo malgrado, Felix colse questo momento per tornare a stabilirsi definitivamente nel suo paese, per riportare a casa le sue vecchie poesie e il suo nuovo impegno con lo stile raffinato, profondo e inquieto che gli era proprio. 
                                La chiamano la rivoluzione tranquilla quel movimento che si coagulò nei primi anni ’70 in Québec e che ebbe una grandiosa celebrazione nel concerto che unì, il 13 agosto del ’74, i tre cantanti più rappresentativi delle tre rispettive generazioni – Leclerc, Vigneault e Charlebois – per un concerto davanti a decine di migliaia di spettatori, nelle Pianure d’Abramo, il luogo fortemente simbolico in cui i francesi erano stati massacrati dagli inglesi nel 1759. Registrato su disco, questo concerto, oltre all’altissimà qualità artistica, ha il valore aggiunto di testimoniare l’impegno di una canzone che si è fatta portatrice delle istanze di riscatto e di rivendicazione di un popolo. 
                Leclerc, negli ultimi anni della sua attività pubblica, volle accompagnare con le sue canzoni quella rivoluzione tranquilla che lo aveva completamente conquistato alla sua causa, finché, fiaccato dall’asma e stufo di dover violentare la sua natura riservata per questo mestiere esibizionista, si chiuse nella casa che si era costruita con le proprie mani sull’Isola d’Orléans per dieci anni. La morte lo colse nel sonno l’8 agosto del 1988. 
                  
                  Alessio Lega 
                alessio.lega@fastwebnet.it 
                
                  
                    Il pupazzo e la bambina 
                      Il pupazzo ha guardato la neve a lungo 
  poi ha guardato il cielo a lungo 
  poi è rimasto piantato lì, contento 
  la sognatrice è andata via piangendo 
  ha passato la manica sulle ciglia pesanti 
  e ha dormito cent’anni. 
                      Quand’è ritornata 
  ha visto il cappello sotto il sole nudo 
  il suo pupazzo di neve s’era sciolto. 
  Un’ altra illusione perduta, 
  una ragione di pianto 
                      rieccola sola nella strada. 
                     1965  | 
                   
                                 
                
                  
                    Altrove 
                      Distruggo tutto ciò che ho 
  più ricevo e meno do 
  ricco come la foresta d’ autunno 
  non aiuto nessuno. 
  La felicità mi intristisce e mi annoia 
  non sono fatto per questo paese 
  coi lupi mi sento al riparo... 
  Chiarezza che sfuggi e tu che danzi 
  l’amore non è sotto le tue lenzuola bianche 
  in fondo al cielo dove senza fatica 
  il vento... 
  Mattino che gioca sull’oceano 
  serata di gala piena di bimbi... 
  Altrove, caro amore, mi stanno aspettando 
  bisogna che anche tu ci sia 
  se no non uscirò da qui 
  cento volte meglio morire fra le tue braccia 
  che vivere laggiù senza di te. 
  Te l’ho detto a gennaio... 
  Te lo dirò ad agosto... 
                     1964  | 
                   
                 
                
                  
                    La piccola felicità 
                      Era una piccola felicità 
  che avevo raccolto 
  annegava di pianti 
  sul bordo di un fossato 
  quando mi ha visto passare 
  si è messa a gridare 
  Signore prendimi con te 
  portami a casa tua! 
                      I miei fratelli mi hanno dimenticata sono caduta sono malata 
  se non mi raccogli morirò, che passeggiata! 
  Mi farò piccola, tenera e sottomessa, te lo giuro! 
  Signore, ti prego, liberami dalla tortura! 
                      Presi la piccola felicità 
  l’avvolsi fra i miei stracci 
  le dissi “non morirai 
  vieni pure a star da me” 
  Allora la piccola felicità 
  iniziò la guarigione 
  sul bordo del mio cuore 
  giaceva una canzone. 
                      I miei giorni, le mie notti, le mie pene, i miei lutti, il mio male, tutto scordato 
  la mia vita di “buono a nulla”, mi disgustava solo al ricordo. 
  Quando fuori pioveva o i miei amici mi facevano pena 
  prendevo la mia piccola felicità e le dicevo “tu sei la mia regina” 
                      La mia felicità fiorì 
  mise le sue gemme 
  era il paradiso 
  brillava sulla mia fronte. 
  Poi un bel mattino 
  che fischiavo quest’arietta 
  la mia felicità è partita 
  senza manco darmi la mano. 
                      Ebbi un bel supplicarla, carezzarla, farle scenate 
  mostrarle il grande vuoto che mi lasciava nel cuore 
  se ne andò comunque, la testa alta, senza gioia, senz’odio 
  come se non potesse più vedere il sole a casa mia. 
                      Ho pensato di morire 
  di tristezza e di noia 
  avevo finito di ridere,  
  era sempre notte. 
  Mi restava l’oblio 
  mi restava il disprezzo 
  in fin dei conti, mi son detto, 
  mi resta la vita. 
                      Ripresi il mio bastone, i miei lutti, le mie pene, i miei stracci 
  e adesso batto i tacchi nel paese dei disgraziati 
  ma quando vedo una fontana o una ragazza 
  faccio il giro largo, oppure chiudo gli occhi... 
                                        1948  | 
                   
                 
                
                  
                    Preghiera bohemienne 
                      A tutti questi bohemiens, queste bohemiennes della mia via 
  che non sono musicisti, né viaggiatori, né clowns, 
  né ballerini, né cantanti, né niente 
  che si recano ogni giorno, puliti, tranquilli 
  nei loro cappottini 
  sotto i loro cappelli 
  a guadagnarsi il pane quotidiano dell‘impiegato. 
                      Che sorridono al vicino  
  senza averne voglia 
  che han preso l’abitudine di sperare 
  senza mai vedere oro nell’alba o nelle tasche 
  questi bravi bohemiens senza roulottes né cani, 
  silenziosi funzionari dagli occhi stanchi. 
                      Porgo i miei omaggi commossi, 
  speranze di città sconosciute, 
  l’ingresso ai paradisi perduti 
  da continenti mai visti, 
  perché son loro che sono i più eroici 
  e a cui la morte porta via tutto. 
                      Davanti a questi bohemiens, queste bohemiennes della mia via 
  che non partono più che di notte, 
  sul veliero blu della loro giovinezza in fuga, 
  gloriosi dimenticati, 
  talenti abbandonati 
  come valige cadute lungo l’autostrada 
                      che si alzano al mattino  
  crudelmente felici di dover attraversare  
  giornate soleggiate, usurate, 
  in cui non arriverà altro che altri imbarazzi 
  altre perdite 
  lungo ogni stagione. 
                      Ho il cappello basso in mano 
  davanti ai miei fratelli bohemiens. 
                     1955  | 
                   
                 
                
                  
                    Nonno Pan-Pan 
  (dedicata a de Gaulle) 
                      A mezzanotte nel bosco 
  quattro fra fratellini e sorelline 
  muoiono di paura  
  in una capanna di legno. 
  Nonno ma è il vento 
  che fa gemere la porta? 
  No, non è lui, aspetta 
è il lupo, bambini. 
  A me il fucile, ora esco 
  pan-pan, l’ho ucciso 
  dormite pure ora 
  io blocco il chiavistello. 
                      Mezz’ora dopo  
  il maggiore sussurra: 
  nonno è la grandine 
  che cade sulle tegole? 
  No, è un rumore di catene 
  dev’essere un fantasma 
  vado l’ammazzo e torno. 
  Sì era proprio un fantasma 
  con la sua anima in pena 
  che voleva preghiere 
  ho ucciso quello scemo 
  vedrete che non tornerà. 
                      Cos’è questo baluginio? 
  Si direbbe un fanale 
  dietro il canale 
  nonno, è normale? 
  Non è ancora giorno 
  fermi bimbi miei 
  ritorno fuori 
  col mio grande pan-pan. 
  Era un fuoco fatuo 
  mi arrivava al polpaccio. 
  Dormite l’ho ricacciato 
  sul fondo della notte. 
                      Nonno c’è un grillo 
  vicino alla brocca del vino. 
  Niente paura ragazzo mio 
  pan-pan era un folletto. 
  Con le cartucce, il fucile 
  gli stivali accanto al letto 
  dormite tranquilli 
  ci sono io che veglio. 
  Il nonno più potente 
  del grande Manitù 
  a gran colpi di pan-pan 
  aggiusta tutto-tutto. 
                      Quando fu morto e sepolto 
  andammo a guardar fuori 
  non c’erano spiriti 
  né magia, né banditi. 
  C’era il vento, la grandine 
  le gocce di rugiada 
  e il fragile insetto 
  che s’illumina la notte. 
  Così insieme alla pan-pan-paura 
è morta la stregoneria 
  e lo sterile terrore 
  che ci teneva nascosta la vita. 
                     1969  | 
                   
                 
                
                  
                    La drave 
                      (La drave è una parola intraducibile del gergo boscaiolo canadese: rappresenta l’atto del far scorrere le centinaia di tronchi tagliati e sfrondati sul fiume per trasportarli fino al luogo di raccolta. Spesso, durante tale trasporto, i tronchi s’incagliano in qualche ansa più stretta ed allora è necessario smuoverli con la dinamite; l’uso dell’esplosivo e l’altissima instabilità del tappeto di tronchi rende la drave un vero e proprio cimitero di boscaioli) 
                      Incomincia in fondo al lago bruciato 
  intorno all’otto o dieci maggio. 
                      La morte dalle lunghe maniche 
  vestita di schiume bianche 
  sradica i tronchi  
  per far crollare Silvio, 
  gli lancia contro perle 
  pezzi d’arcobaleno 
  per abbagliargli gli occhi  
  per spezzarlo in due. 
                      Silvio danza e sgambetta 
  come di domenica, le sere di fortuna 
  vortici che urlano, pavimenti che rullano 
  profumi che inebriano, e resta in piedi! 
                      Thavette, Silvio Morin 
  Ephèe, i due Mainguy 
  Swemy, Quevillon il grosso 
  Vincent, papà Cousineau 
  Morel e Ladouceur 
  e anche Albert Lebreun 
  Dupras e poi Larocque 
  Lefebvre e Charbonneau 
  tutti con Ed Mc Millan 
  MacPherson e Seguin 
  Madouin, Aurele Brière 
  Tourmalin e Miclaisse 
  tre pulci e poi Morel 
  e poi Camille Rivard 
  Elibien e il Cook 
  che qui non si vede. 
                      Scavano un buco 
  nel punto giusto 
  mettono l’esplosivo 
  sotto il ghiaccio 
  gambe in spalla  
  che si sbaracca! 
  Facce contratte 
“si salvi chi può!” 
                      Non bisogna esser là quando riparte 
  vi uccide, vi butta giù, vi morde 
  vi attraversa di parte in parte 
  si diverte a spezzare il più forte per primo. 
  Le bestie di legno 
  non si muovono 
  anche il vento 
  resta rannicchiato, 
  la stessa montagna  
  alta nell’ azzurro 
  si mette una nuvola 
  sulla faccia. 
                      Perché non bisogna esser là quando parte 
  vi uccide, vi butta giù, vi morde 
  vi attraversa di parte in parte 
  si diverte a spezzare il più forte, per primo. 
                      E tutto è calmo fino a domani mattina... 
                      Nella testa c’ha i tronchi che turbinano 
  che darebbe per un accordo di chitarra. 
                      Melancon è annegato qui 
  e questo non deve più accadere; 
  in piedi, sul fiume 
  ottanta uomini a guidare. 
                      Per arrivare al mulino 
  al mulino di Buckingham 
  c’è da sbloccare il carico 
  che si blocca un po’ più in là 
  colpi d’ ascia, calci addosso 
  dinamite e catene spezzate 
  sulla fronte acqua ghiacciata 
  nessuna notizia della fidanzata. 
                      Le ore son lunghe  
  l’acqua è profonda 
  in un altro mondo 
  le donne bionde... 
                      Fra gli uncini e le rapide bisogna affrettarsi 
  se si vuole arrivare in tempo 
  in tempo per la primavera. 
  Sarà pieno di musica 
  di vicini, di pane fresco 
  e la birra ed il mattino 
  a riposare nel giardino. 
                      Tronchi per la carta 
  tronchi per il cartone 
  tronchi per scaldarsi 
  tronchi per la casa 
  niente tronchi, niente scrittori 
  niente libri, quindi 
  forse si starebbe bene uguale 
  ma può darsi anche di no! 
                      Nella testa niente più tronchi che turbinano 
  ma la moglie al paese che sferruzza... 
                      Silvio danza e poi sgambetta 
  come di domenica, le sere di fortuna 
  vortici che urlano, pavimenti che rullano 
  profumi che inebriano, resta in piedi!  | 
                   
                 
                
                  
                    Litanie del piccolo uomo 
                      E sulla cassettiera 
  accanto ai tuoi collant 
  la mia paga, il tabacco 
                      e sotto l’ attizzatoio 
  un fascio di ciocchi 
  per illuminare la sera 
                      e dopo tanti anni 
  il tuo cuore che non dice niente 
  il mio che parla troppo 
                      l’ascia da affilare 
  la casa da trovare 
  quattro mani che hanno lavorato bene 
                      sullo schermo del cinema 
  il viso che ti piace 
  il mio, così brutto 
                      l’affitto che aumenta 
  ti amo più della vita 
  le bestemmie dette oggi 
                      ho male alla tua schiena 
  tu hai male ai miei occhi 
è vero? è falso? ... tutt’e due! 
                      E questo mazzolino 
  così fresco fra le tue dita 
  domani sarà concime, e questo è vero 
                      e siamo soli al mondo 
  ognuno nel suo corpo 
  insieme, ognuno sulla sua riva 
                      appuntamento fra mill’ anni 
  più lontano che in Canada 
  più lontano che questo paese 
                     1958  | 
                   
                                 
                
                  
                    I cattivi consigli 
                      Fuggi dal nido 
  se ci stai bene 
  trovati il mare 
  se sei gabbiano 
  difendi i tuoi diritti, soprattutto il diritto all’errore 
  sii pure l’acqua che porta il vascello alla deriva. 
                      Diventare grandi 
è cadere dal nido 
  separarsi 
è restare uniti: 
  i separati sanno vivere insieme 
  costruirsi il nido, per sapersene andare. 
                      Quando si è vecchi 
  si dice: avrei dovuto 
  se avessi saputo 
  dicono i questuanti. 
  La proprietà ti spacca la schiena 
  non aver niente, non è così facile. 
                      La conoscenza 
  la trovi lontano dai libri 
  il riposo stanca 
  e la fatica riposa 
  e quando canti, canta per te innanzi tutto 
  che l’ignoranza ha il disprezzo facile. 
                      Il verbo amare  
  pesa tonnellate 
  non amare 
  pesa ancor di più. 
  Ai rumori umani accorrono i figli del buio 
  i figli della luce si saziano di silenzio. 
                      Prendi sempre nota dei cattivi consigli 
  il tuo alleato si chiamerà vecchiaia 
  ama pure la traditrice che si chiama giovinezza 
  e vivrai cent’anni. 
                                          1969  | 
                   
                 
                
                  
                    Inviterei l’ infanzia 
                      Inviterei l’infanzia ad attardarsi il tempo che serve 
  per conservarsi in tasca immagini per le sere d’inverno 
  per le lunghe lunghe ore dell’adulto 
  che non finiscono mai di crescere sulla noia. 
  Due ottoni nella valigia, 
  un’armonia di flauto 
  una scatola di legumi, vino, 
  il sorriso di qualcuno scomparso, 
  una mappa che porti all’isola perduta 
  un anello d’oro, una maschera buffa. 
                      Quando l’amore non c’ è e i tuoi fratelli sono morti 
  quando c’è solo il vuoto e la notte continua 
  i sogni sono necessari  
                      e i nuovi bambini poseranno 
  nella mano dell‘uomo solo 
  le loro, aperte 
  calde e nude. 
                    1966  | 
                   
                                    |