Rivista Anarchica Online


incontri

Ricordi di un incontro mai avvenuto
di Sebastiano Cammelli e Antonio Senta

Noi, Errico Malatesta e gli indiani della Terra del Fuoco.

 

La Patagonia, quella vastissima area geografica che comprende il sud dell’Argentina e del Cile, dall’altezza della penisola di Valdés sino allo stretto di Magellano, è generalmente conosciuta per i vasti spazi che ne caratterizzano il territorio e l’asprezza delle condizioni climatiche. Ancora più a sud, attraversato il mare impetuoso dello stretto di Magellano, si entra nella Terra del Fuoco, segnata da vento e freddo, da giornate infinite d’estate e notti pressoché continue d’inverno.
La Patagonia e la Terra del Fuoco richiamano generalmente quel fascino tutto particolare della libertà: distese immense, silenzio completo; ma anche terre aride, clima proibitivo. E il fascino fa in fretta a trasformarsi in rischio e pericolo, tanto che l’uomo si sente presto piccolo e vulnerabile lì in mezzo. Certo, tutto questo va oggi di pari passo con un turismo di massa, per cui stare in alcuni luoghi lì in fondo al mondo non è troppo differente da visitare i musei vaticani o la torre di Pisa. Comunque questo non ci ha impedito di sognare questo viaggio per diversi anni e infine di acquistare l’agognato biglietto. Del resto non ci sfuggiva neppure che un trentenne Malatesta era andato anch’egli da quelle parti, circa centoventi anni fa; e si era inoltrato sino all’estremità meridionale della Patagonia, proprio fino allo stretto di Magellano. Insomma, da lì bisognava passare.
Malatesta si era fortunosamente rifugiato in Argentina nel 1884, per evitare una condanna dovuta alla sua indomita attività di rivoluzionario. Dopo un paio di anni spesi a Buenos Aires, con frequenti visite a Montevideo, decise di partire a caccia d’oro per il sud della Patagonia con alcuni compagni, tra i quali Cesare Agostinelli e Galileo Palla. Giunsero così a Capo Virgenes, all’estremità sud del territorio di Santa Cruz. Malatesta stesso ricorderà poi quelle lande come “desolate e glaciali”, le quali diedero effettivamente ben pochi frutti: una compagnia aurifera deteneva il controllo dei giacimenti, il freddo e la fame fecero il resto. “Dopo lunghi mesi di sofferenze”, ricorda ancora il nostro, riuscirono a trovare una nave che tornava verso nord e, sempre in maniera rocambolesca, fecero ritorno a Buenos Aires.
Ma, sapevamo anche che gli Europei, al loro arrivo, in tempi e luoghi diversi, si erano trovati a fare i conti con le popolazioni locali. Sapevamo anche qualcosa delle popolazioni originarie della Patagonia e non eravamo del tutto ignari delle lotte passate e presenti del popolo mapuche, nome che indica gruppi etnici anche molto diversi tra loro che abitano la Patagonia. Indigeni che ancora oggi rivendicano il diritto alla propria terra, usurpata dai latifondisti e dal capitale internazionale.

Onde impressionanti

Non sapevamo nulla invece delle popolazioni che abitavano la Terra del Fuoco e probabilmente neppure Malatesta ne sapeva nulla. Avrebbe dovuto infatti attraversare le acque burrascose dello stretto e scendere giù in direzione di Ushuaia. Se lo avesse fatto avrebbe forse scoperto una qualche affinità tra le pratiche sociali di questi popoli e le idee che per altri quaranta anni egli avrebbe propagandato senza sosta. Ma questo lo abbiamo capito solo dopo, quando superate quelle onde impressionanti su un solido traghetto, siamo riusciti a carpire qualche informazione sugli indiani fuegini (della Terra del fuoco).
Secondo lo studioso Arnaldo Canalini (The Fuegian Indians. Their life, habits and history. Editorial Dunken, 2007), le popolazioni indigene che storicamente popolavano la Terra del Fuoco si possono dividere in quattro gruppi con sostanziali differenze fisiche e alimentari, ma con caratteristiche sociali simili: gli Yaghan abitavano nel canale di Beagle, dove oggi sorge Ushuaia e nell’arcipelago di isole più meridionali; gli Alacaloof invece occupavano le isole che oggi fanno parte della Terra del Fuoco cilena. Queste due popolazioni – che all’arrivo degli europei ammontavano a qualche migliaio di persone – traevano la maggior parte del nutrimento dalla pesca.
Vi erano poi gli Haush, che occupavano la parte più orientale della Terra del Fuoco argentina ed erano meno di un migliaio; più numerosi (circa tremila) erano invece gli Ona che abitavano la maggior parte dell’isola della Terra del Fuoco. Ona e Haush erano popolazioni di cacciatori; mentre gli Yaghan e gli Alacaluf erano di bassa statura, dall’aspetto goffo e dalle gambe corte e poco sviluppate a causa della posizione che tenevano nelle canoe durante la pesca, gli Ona sono ricordati come popolazioni alte dal fisico forte e vigoroso. Tutte queste popolazioni erano nomadi e ogni spostamento era strettamente legato alla necessità di procurarsi cibo. Il primo nucleo di queste popolazioni era la famiglia composta dall’uomo, al cui interno i ruoli erano rigidi: l’uomo si occupava della caccia e di fabbricare armi, le donne di guidare la canoa, raccogliere molluschi, ciò che le foreste offrivano e dell’educazione dei figli, i figli dovevano seguire la madre e al massimo occuparsi di tenere costantemente acceso il fuoco; la poligamia era tollerata anche se non era comune. Le famiglie erano poi unite in clan o piuttosto famiglie allargate, da venti o più persone legate spesso da parentele più o meno lontane; i clan si muovevano in zone delimitate da confini naturali dentro cui potevano pescare e/o cacciare.
Entrare in zone al di fuori della propria veniva recepito come un invasione e normali erano gli scontri violenti tra clan. Eccezioni erano permesse, per esempio quando veniva cacciata una balena: allora si accendevano fuochi e i segnali di fumo facevano accorrere molte canoe e tutti godevano egualmente della grande abbondanza di cibo. Nessuna di queste popolazioni aveva il concetto di nazione né di proprietà; i nomadi non trasportavano nulla che non fosse strettamente necessario: arpioni e oggetti per pescare, arco e frecce e pellicce con cui coprirsi e con cui costruire rifugi temporanei.
All’interno dei clan non esistevano capi, né autorità, gli anziani godevano di rispetto maggiore così come chiunque avesse particolari capacità (essere un bravo costruttore di frecce) o meriti (essere un ottimo cacciatore). Esistevano stregoni o sciamani, persone che rivestivano un particolare ruolo e che venivano chiamati in caso di malattie, disgrazie o per le proprie capacità divinatorie. Non esisteva tuttavia il clero e qualunque cosa fosse legata all’attività di culto. Queste popolazioni credevano agli spiriti malvagi dei boschi e in alcune credenze che avevano come sfondo gli eventi naturali (il sorgere del sole e l’alternarsi del giorno e della notte, il sud da dove viene il freddo e la neve...), ma nulla di simile alla religione come la intendiamo noi: non avevano riti, luoghi di culto, né tanto meno il concetto di peccato e pudore. L’evento più importante per i giovani era il rituale legato al passaggio dalla pubertà all’essere adulto: secondo la tradizione le cerimonie si svolgevano in luoghi scelti attorno ad un fuoco. Per l’occasione venivano prodotti cappelli a forma di cono e alcuni si coloravano il corpo con composti ottenuti da terra e grasso. In genere questi popoli producevano oggetti solo perché fossero utilizzati per il sostentamento, non conoscevano la scrittura né espressioni artistiche di nessun genere (musica, teatro, scultura, pittura...). Tuttavia T. Bridges, un missionario anglicano arrivato in Terra del Fuoco nel 1854, scrisse un dizionario della lingua Yaghan dal quale si evince l’inaspettata ricchezza e complessità del linguaggio indigeno.

Lo stesso Malatesta...

La espada, la cruz y el hambre
ibam diezmando la familla salvaje

(Pablo Neruda)

Fu proprio il contatto con gli europei a mutare il corso della storia degli indiani fuegini e in una direzione ben tragica. I primi contatti tra gli Indiani e gli Europei avvennero già alla fine del 1500, ma soltanto nella prima metà del 1800 si fecero significativi con le spedizioni di Fitz Roy (1830) e Darwin (1832). La prima missione religiosa (anglicana) fu fondata nel 1854 nel territorio degli Indiani Yaghan. La maggior parte degli Indiani continuava a vivere come aveva sempre fatto, tra le innumerevoli insenature e isole o all’interno dell’Isola della Terra del Fuoco.
I rapporti tra indigeni e bianchi variava da un atteggiamento pacifico ma diffidente, a uno apertamente ostile a seconda delle circostanze. In realtà anche tra le singole popolazioni indigene non correva buon sangue e scontri tra gli Ona e gli indiani del sud (Haush, Yaghan) erano piuttosto frequenti. Dal 1881, data che segna la spartizione della Terra del Fuoco tra Cile e Argentina, la colonizzazione e la fondazione di insediamenti permanenti si fece assai più pesante.
Abbiamo visto come lo stesso Malatesta, pochi anni dopo giungerà al limitare della Terra del fuoco, prendendo parte anch’egli alla nuova ondata migratoria verso il Sud. La causa del calo e della successiva scomparsa degli Indiani è insita proprio nella crescente presenza degli bianchi nella Terra del Fuoco: il cambio delle abitudini da un tipo di vita nomade a sedentario provocò un cambiamento di alimentazione spesso negativo; inoltre i bianchi portarono malattie sconosciute agli indigeni: epidemie di tifo e tubercolosi furono devastanti come lo furono secoli prima per le popolazioni del Messico e del Perù. Ancora, l’arrivo dei bianchi, dei greggi di pecore e delle prime estancie privavano gli indiani del terreno dove pascolava il guanaco, animale che era per loro la principale fonte di sostentamento: alla diminuzione del guanaco corrispondeva l’incremento del numero di pecore.

La solita contraddittorietà

Gli indigeni non avevano il concetto proprietà, né sul terreno né sugli animali: l’espropriazione delle loro terre per farne pascoli per pecore li spinse naturalmente nell’illegalità, concetto pure questo ignoto; ad essi mancava anche il concetto di autorità e quindi di obbedienza e rispetto di regole che per loro non avevano alcun fondamento.
I bianchi lasciavano spesso sul terreno decine di indigeni morti: proprio in questo contesto nacque la “leggenda” della ricompensa di un penny per un paio di orecchie indigene. Quando non li ammazzavano, i bianchi, soprattutto nella parte cilena, deportavano gli indigeni verso Dawson Island nella Terra del Fuoco occidentale. Eccidi, epidemie, deportazioni, mancanza di cibo portarono alla progressiva estinzione degli indigeni. Per i pochi rimasti furono istituite delle riserve, proprio come negli Stati Uniti, dove la popolazione continuò a decrescere costantemente; gli ultimi indigeni sopravvissuti furono gli Alacaloof: ne furono contati una quarantina nel 1946 in una riserva a Bahìa Edén in Clarence Island.
Chiuso il libro e rifatte le valige, nel tornare verso nord ci siamo finalmente visti nelle nostre vesti reali: turisti europei, che, volenti o nolenti, erano discendenti dei bianchi colonizzatori e dei loro crimini. E però ci siamo anche sorpresi a pensare che nell’umanità nuova così fortemente voluta da Malatesta ci sarebbe stato spazio anche per gli indiani fuegini. Poi il vento ha spazzato via ogni pensiero ed è rimasta la solita contraddittorietà del nostro vivere quotidiano.

Sebastiano Cammelli e Antonio Senta