I bambini 
                    uccisi infagottati nei loro sudari. Quelli feriti che piangono. 
                    Le macerie delle case distrutte dalle bombe. È “piombo 
                    fuso” l’operazione bellica israeliana contro Gaza, 
                    la roccaforte degli islamisti di Hamas. È guerra e, 
                    come tutte le guerre moderne, a morire, restare mutilati ed 
                    uccisi sono soprattutto i civili. È l’ennesima 
                    tragedia nel sud est del Mediterraneo: a Gaza, dopo mesi di 
                    assedio, le bombe dello stato israeliano martellano quasi 
                    incessantemente questa prigione a cielo aperto. Centinaia 
                    e centinaia di morti e migliaia di feriti sono il bilancio 
                    di un’operazione destinata a mietere molte altre vite.
                    Per me, da anarchica, è spontanea la solidarietà 
                    con le vittime, l’immediata condivisione del dolore 
                    di chi sta soffrendo l’ennesimo attacco, gente senza 
                    più futuro, se non la morte, l’esilio, l’asservimento.
                    L’enorme disparità delle forze in gioco rende 
                    doveroso impegnarsi a fianco della martoriata popolazione 
                    di Gaza. Un esercito potentissimo si contrappone a formazioni 
                    militari decisamente più deboli. Ma – e questa 
                    purtroppo non è un’evidenza condivisa da tutti 
                    quelli che si oppongono alla guerra a Gaza – le vittime, 
                    colpite a morte nelle loro case, sono tutte uguali: a Khan 
                    Younis come a Sderot. I razzi Kassam sono come stuzzicadenti 
                    contro sciabole ben affilate ma uccidono ugualmente.
                    Tra il Mediterraneo e il Giordano c’è chi soffre 
                    e muore, la follia del nazionalismo e della religione moltiplica 
                    le sue vittime mentre qui da noi c’è chi si schiera 
                    con questi o con quelli: i più sostengono il “diritto” 
                    all’autodifesa di uno dei due contendenti e chiamano 
                    “terrorista” e “genocida” l’altro. 
                    
                    Ma la guerra è terrorismo, come il terrorismo è 
                    guerra: non ci sono guerre pulite, giuste o sante. In guerra 
                    chi vince prende tutto e chi perde muore, fugge o si inginocchia. 
                    Dal punto di vista delle “intenzioni” non vi sono 
                    differenze tra eserciti in guerra, tra Stati in guerra.
                    Stare dalla parte degli ultimi, delle vittime delle guerre, 
                    non significa sposare le ragioni del contendente più 
                    debole, ma andare alla radice del male, che affondano nell’affermazione 
                    di un’identità che si pretende esclusiva. E tale 
                    è per chi ne è attraversato. Gli steccati si 
                    fanno sempre più alti e la negazione dell’altro 
                    ne è il corollario indispensabile. Chi si affanna a 
                    cercare “diritti” su quel fazzoletto di terra 
                    contesa, non fa che il gioco del nazionalismo di questi o 
                    di quelli, dimenticando i principi che su altri piani professa.
                    Provate a pensare in quanti testi, volantini, articoli si 
                    dichiara solennemente di sostenere la libera circolazione 
                    delle persone, l’illegittimità delle frontiere, 
                    della discriminazione, del razzismo spesso sancito dalle leggi 
                    di tanti Stati, non ultimo quello italiano. Appena si va fuori 
                    dai “nostri” confini tutto cambia: tutti sentono 
                    il bisogno di alzare una bandiera, sostenere le ragioni di 
                    uno Stato contro quelle di un altro.
                   
 
                    Identità religiosa
                  Ormai da molti anni stiamo assistendo al tramonto del pacifismo 
                    internazionalista, che trova le sue radici nell’idea 
                    che la nazione, la religione, lo Stato siano steccati tra 
                    gli oppressi e gli sfruttati che, rompendo le proprie catene, 
                    aspirano ad un’umanità internazionale emancipata 
                    dalla furia del capitale, dello stato, della religione. La 
                    cosiddetta “sinistra” ha smarrito le proprie origini 
                    e le proprie ragioni e si aggrappa all’illusione che 
                    i nemici del Moloch statunitense siano tout court propri amici. 
                    Così si distribuiscono patenti da rivoluzionari ai 
                    caudilli dell’America latina e alla cosiddetta “resistenza” 
                    irachena, ad Hamas come già un tempo a Fatah. 
                    Mentre scrivo – siamo all’11 gennaio – l’offensiva 
                    israeliana contro Gaza infuria e si moltiplicano le manifestazioni 
                    di protesta. Significativa un po’ovunque la partecipazione 
                    di migliaia di immigrati dal Maghreb aggregati dall’indignazione 
                    per i bombardamenti e unificati da un’identità 
                    religiosa ossessivamente ribadita negli slogan e negli interventi. 
                    Centri sociali e partiti della diaspora comunista reggono 
                    la coda alle migliaia di immigrati arabi che manifestano a 
                    sostegno di Hamas e della nascita di uno Stato palestinese, 
                    succubi volontari della fascinazione della massa.
                    Nei forum, nelle liste di discussione e tra tanti compagni 
                    faccia a faccia infuria il dibattito sulla religione e sul 
                    nazionalismo. 
                    Mi è sembrato di tornare ai tempi della scuola, quando 
                    i genitori dovevano inventare qualche scusa per “giustificare” 
                    il figlio che bigiava le lezioni. “È la ‘loro’ 
                    cultura: bisogna rispettarla” oppure “non si può 
                    negare a chi non l’ha mai avuto il ‘diritto’ 
                    a volere uno Stato. Altrimenti non capirebbero”. Eleganti 
                    affermazioni a sostegno della tesi che i nostri compagni di 
                    strada nei cortei e nelle manifestazioni per Gaza vanno presi 
                    per quello che sono. Difficile dire quanti trattino questi 
                    “ingombranti” pacifisti come minorenni – 
                    stessa radice di minorati – e quanti invece facciano 
                    la scelta scientemente populista di assecondare le onde del 
                    mare quando la marea sale. I primi sono dei razzisti involontari; 
                    gli altri degli opportunisti senza troppi scrupoli.
                   
 
                    In mezzo a noi
                  Intanto la tragedia va avanti e i semi dell’odio piantano 
                    radici sempre più profonde. Chi sa se e quando i nipoti 
                    dei contadini palestinesi in fuga dalle loro case nel ’48 
                    potranno guardare negli occhi i nipoti delle centinaia di 
                    migliaia di ebrei marocchini costretti sin dagli anni ’50 
                    ad abbandonare le loro case?
                    Gli anarchici sanno che la libertà e la solidarietà 
                    non si possono imporre e nessuno può liberare un altro, 
                    perché ciascuno libera se stesso, ma sanno anche che 
                    il gusto della libertà ha saputo imporsi molte volte 
                    sulle ombre della nazione, della patria, della religione. 
                    
                    Oggi la sfida del confronto con l’altro non è 
                    più solo questione di culture e paesi lontani: l’abbiamo 
                    in mezzo a noi e occorre saperla affrontare. Senza la sicumera 
                    di chi tutto sa e tutto ha già esperito rifuggendo 
                    tuttavia la supina accettazione di istanze autoritarie solo 
                    perché “esotiche”. L’esotismo è 
                    stato uno dei frutti avvelenati del colonialismo differenzialista, 
                    che non pretendeva di assimilare – rendere forzatamente 
                    simile a se – l’altro perché lo teneva 
                    a distanza, sull’ultimo scalino della scala di comando.
                   
 
                    Dalla parte delle vittime
                  L’emergenza umanitaria in una Gaza già stremata 
                    dall’embargo è una tragedia di fronte alla quale 
                    non si può restare indifferenti. Urge ovunque mettersi 
                    in mezzo per fermare la guerra, per denunciare i bombardamenti, 
                    per rendere la vita difficile a chi, in nome della nazione, 
                    della bandiera, della religione colpisce ed uccide. Oggi la 
                    maggior parte delle vittime sono da una parte e noi non possiamo 
                    che stare con loro. Senza se e senza ma, perché non 
                    abbiamo nazioni da fondare o da difendere, preti, rabbini 
                    e imam di fronte a cui chinare il capo, perché sappiamo 
                    che solo cancellando la follia della religione e della nazione 
                    si può immaginare un futuro per i figli della gente 
                    che vive tra il Mediterraneo e il Giordano. E per chiunque. 
                    Ovunque. 
                    I politici confezionano le ricette giuste per tutte le occasioni 
                    – quelli che vorrebbero due stati per due popoli come 
                    quelli che ne auspicano uno solo per entrambi – ma non 
                    ci sono ricette che tengano finché non si abbatte il 
                    muro dell’odio, del razzismo, dell’ingiustizia 
                    sociale.
                    Lo stesso muro sta lacerando la nostra società: chi 
                    viene qui per cercare un’opportunità di vita 
                    trova sfruttamento bestiale, leggi razziste, prigioni per 
                    senza carte. Vive ogni giorno sotto ricatto: il ricatto dell’espulsione 
                    per chi perde il lavoro, il ricatto della perdita del lavoro 
                    per chi alza la testa, il ricatto della denuncia per chi lavora 
                    in nero. I soprusi dei padroni e dei poliziotti sono il pane 
                    quotidiano per gli immigrati nel nostro paese, il pane amaro 
                    che devono ingoiare gli ultimi, in ogni dove.
                    A me, come a tanti compagni, è capitato di incontrare 
                    tanti di loro sulle strade dove ci si oppone concretamente 
                    al razzismo. Qui a Torino contro i CPT, le ronde dei leghisti 
                    e degli alpini, i pestaggi di fascisti e polizia, le retate 
                    dei clandestini, nella lotta per la casa e per il mercato 
                    autogestito. Lì tanti percorsi hanno cominciato ad 
                    intrecciarsi e forse poco a poco si potrà aprire uno 
                    spiraglio per un’interlocuzione su altre, più 
                    difficili, questioni. 
                    Parimenti in Israele gli “Anarchici contro il muro” 
                    hanno intrapreso un percorso di solidarietà e condivisione 
                    delle lotte contro il muro dell’Apartheid in Cisgiordania, 
                    che li ha portati fianco a fianco dei contadini dei villaggi 
                    che si battono per l’acqua, gli ulivi e gli agrumeti, 
                    per il futuro dei loro figli, per non essere costretti all’esilio. 
                    
                    In due anni hanno diviso il pane e le pallottole di gomma 
                    sparate dall’esercito israeliano, sono stati feriti 
                    ed arrestati più volte. Hanno rallentato ma non abbattuto 
                    il muro razzista ma hanno tirato giù un ben altro muro, 
                    una ben altra frontiera, quella della diffidenza e dell’odio. 
                    Quanto gli integralisti di Hamas hanno incitato la popolazione 
                    del villaggio di Bil’in a colpirli e cacciarli perché 
                    ebrei, la gente di Bil’in, che aveva imparato a conoscerli 
                    e a capire le loro ragioni, si è opposta con fierezza.