Rivista Anarchica Online


Medio Oriente

A ovest di Gaza
di Maria Matteo

Stare dalla parte degli ultimi, delle vittime delle guerre, non significa sposare le ragioni del contendente più debole, ma andare alla radice del male, che affondano nell’affermazione di un’identità che si pretende esclusiva.

 

I bambini uccisi infagottati nei loro sudari. Quelli feriti che piangono. Le macerie delle case distrutte dalle bombe. È “piombo fuso” l’operazione bellica israeliana contro Gaza, la roccaforte degli islamisti di Hamas. È guerra e, come tutte le guerre moderne, a morire, restare mutilati ed uccisi sono soprattutto i civili. È l’ennesima tragedia nel sud est del Mediterraneo: a Gaza, dopo mesi di assedio, le bombe dello stato israeliano martellano quasi incessantemente questa prigione a cielo aperto. Centinaia e centinaia di morti e migliaia di feriti sono il bilancio di un’operazione destinata a mietere molte altre vite.
Per me, da anarchica, è spontanea la solidarietà con le vittime, l’immediata condivisione del dolore di chi sta soffrendo l’ennesimo attacco, gente senza più futuro, se non la morte, l’esilio, l’asservimento.
L’enorme disparità delle forze in gioco rende doveroso impegnarsi a fianco della martoriata popolazione di Gaza. Un esercito potentissimo si contrappone a formazioni militari decisamente più deboli. Ma – e questa purtroppo non è un’evidenza condivisa da tutti quelli che si oppongono alla guerra a Gaza – le vittime, colpite a morte nelle loro case, sono tutte uguali: a Khan Younis come a Sderot. I razzi Kassam sono come stuzzicadenti contro sciabole ben affilate ma uccidono ugualmente.
Tra il Mediterraneo e il Giordano c’è chi soffre e muore, la follia del nazionalismo e della religione moltiplica le sue vittime mentre qui da noi c’è chi si schiera con questi o con quelli: i più sostengono il “diritto” all’autodifesa di uno dei due contendenti e chiamano “terrorista” e “genocida” l’altro.
Ma la guerra è terrorismo, come il terrorismo è guerra: non ci sono guerre pulite, giuste o sante. In guerra chi vince prende tutto e chi perde muore, fugge o si inginocchia. Dal punto di vista delle “intenzioni” non vi sono differenze tra eserciti in guerra, tra Stati in guerra.
Stare dalla parte degli ultimi, delle vittime delle guerre, non significa sposare le ragioni del contendente più debole, ma andare alla radice del male, che affondano nell’affermazione di un’identità che si pretende esclusiva. E tale è per chi ne è attraversato. Gli steccati si fanno sempre più alti e la negazione dell’altro ne è il corollario indispensabile. Chi si affanna a cercare “diritti” su quel fazzoletto di terra contesa, non fa che il gioco del nazionalismo di questi o di quelli, dimenticando i principi che su altri piani professa.
Provate a pensare in quanti testi, volantini, articoli si dichiara solennemente di sostenere la libera circolazione delle persone, l’illegittimità delle frontiere, della discriminazione, del razzismo spesso sancito dalle leggi di tanti Stati, non ultimo quello italiano. Appena si va fuori dai “nostri” confini tutto cambia: tutti sentono il bisogno di alzare una bandiera, sostenere le ragioni di uno Stato contro quelle di un altro.

Identità religiosa

Ormai da molti anni stiamo assistendo al tramonto del pacifismo internazionalista, che trova le sue radici nell’idea che la nazione, la religione, lo Stato siano steccati tra gli oppressi e gli sfruttati che, rompendo le proprie catene, aspirano ad un’umanità internazionale emancipata dalla furia del capitale, dello stato, della religione. La cosiddetta “sinistra” ha smarrito le proprie origini e le proprie ragioni e si aggrappa all’illusione che i nemici del Moloch statunitense siano tout court propri amici. Così si distribuiscono patenti da rivoluzionari ai caudilli dell’America latina e alla cosiddetta “resistenza” irachena, ad Hamas come già un tempo a Fatah.
Mentre scrivo – siamo all’11 gennaio – l’offensiva israeliana contro Gaza infuria e si moltiplicano le manifestazioni di protesta. Significativa un po’ovunque la partecipazione di migliaia di immigrati dal Maghreb aggregati dall’indignazione per i bombardamenti e unificati da un’identità religiosa ossessivamente ribadita negli slogan e negli interventi. Centri sociali e partiti della diaspora comunista reggono la coda alle migliaia di immigrati arabi che manifestano a sostegno di Hamas e della nascita di uno Stato palestinese, succubi volontari della fascinazione della massa.
Nei forum, nelle liste di discussione e tra tanti compagni faccia a faccia infuria il dibattito sulla religione e sul nazionalismo.
Mi è sembrato di tornare ai tempi della scuola, quando i genitori dovevano inventare qualche scusa per “giustificare” il figlio che bigiava le lezioni. “È la ‘loro’ cultura: bisogna rispettarla” oppure “non si può negare a chi non l’ha mai avuto il ‘diritto’ a volere uno Stato. Altrimenti non capirebbero”. Eleganti affermazioni a sostegno della tesi che i nostri compagni di strada nei cortei e nelle manifestazioni per Gaza vanno presi per quello che sono. Difficile dire quanti trattino questi “ingombranti” pacifisti come minorenni – stessa radice di minorati – e quanti invece facciano la scelta scientemente populista di assecondare le onde del mare quando la marea sale. I primi sono dei razzisti involontari; gli altri degli opportunisti senza troppi scrupoli.

In mezzo a noi

Intanto la tragedia va avanti e i semi dell’odio piantano radici sempre più profonde. Chi sa se e quando i nipoti dei contadini palestinesi in fuga dalle loro case nel ’48 potranno guardare negli occhi i nipoti delle centinaia di migliaia di ebrei marocchini costretti sin dagli anni ’50 ad abbandonare le loro case?
Gli anarchici sanno che la libertà e la solidarietà non si possono imporre e nessuno può liberare un altro, perché ciascuno libera se stesso, ma sanno anche che il gusto della libertà ha saputo imporsi molte volte sulle ombre della nazione, della patria, della religione.
Oggi la sfida del confronto con l’altro non è più solo questione di culture e paesi lontani: l’abbiamo in mezzo a noi e occorre saperla affrontare. Senza la sicumera di chi tutto sa e tutto ha già esperito rifuggendo tuttavia la supina accettazione di istanze autoritarie solo perché “esotiche”. L’esotismo è stato uno dei frutti avvelenati del colonialismo differenzialista, che non pretendeva di assimilare – rendere forzatamente simile a se – l’altro perché lo teneva a distanza, sull’ultimo scalino della scala di comando.

Dalla parte delle vittime

L’emergenza umanitaria in una Gaza già stremata dall’embargo è una tragedia di fronte alla quale non si può restare indifferenti. Urge ovunque mettersi in mezzo per fermare la guerra, per denunciare i bombardamenti, per rendere la vita difficile a chi, in nome della nazione, della bandiera, della religione colpisce ed uccide. Oggi la maggior parte delle vittime sono da una parte e noi non possiamo che stare con loro. Senza se e senza ma, perché non abbiamo nazioni da fondare o da difendere, preti, rabbini e imam di fronte a cui chinare il capo, perché sappiamo che solo cancellando la follia della religione e della nazione si può immaginare un futuro per i figli della gente che vive tra il Mediterraneo e il Giordano. E per chiunque. Ovunque.
I politici confezionano le ricette giuste per tutte le occasioni – quelli che vorrebbero due stati per due popoli come quelli che ne auspicano uno solo per entrambi – ma non ci sono ricette che tengano finché non si abbatte il muro dell’odio, del razzismo, dell’ingiustizia sociale.
Lo stesso muro sta lacerando la nostra società: chi viene qui per cercare un’opportunità di vita trova sfruttamento bestiale, leggi razziste, prigioni per senza carte. Vive ogni giorno sotto ricatto: il ricatto dell’espulsione per chi perde il lavoro, il ricatto della perdita del lavoro per chi alza la testa, il ricatto della denuncia per chi lavora in nero. I soprusi dei padroni e dei poliziotti sono il pane quotidiano per gli immigrati nel nostro paese, il pane amaro che devono ingoiare gli ultimi, in ogni dove.
A me, come a tanti compagni, è capitato di incontrare tanti di loro sulle strade dove ci si oppone concretamente al razzismo. Qui a Torino contro i CPT, le ronde dei leghisti e degli alpini, i pestaggi di fascisti e polizia, le retate dei clandestini, nella lotta per la casa e per il mercato autogestito. Lì tanti percorsi hanno cominciato ad intrecciarsi e forse poco a poco si potrà aprire uno spiraglio per un’interlocuzione su altre, più difficili, questioni.
Parimenti in Israele gli “Anarchici contro il muro” hanno intrapreso un percorso di solidarietà e condivisione delle lotte contro il muro dell’Apartheid in Cisgiordania, che li ha portati fianco a fianco dei contadini dei villaggi che si battono per l’acqua, gli ulivi e gli agrumeti, per il futuro dei loro figli, per non essere costretti all’esilio.
In due anni hanno diviso il pane e le pallottole di gomma sparate dall’esercito israeliano, sono stati feriti ed arrestati più volte. Hanno rallentato ma non abbattuto il muro razzista ma hanno tirato giù un ben altro muro, una ben altra frontiera, quella della diffidenza e dell’odio. Quanto gli integralisti di Hamas hanno incitato la popolazione del villaggio di Bil’in a colpirli e cacciarli perché ebrei, la gente di Bil’in, che aveva imparato a conoscerli e a capire le loro ragioni, si è opposta con fierezza.

Maria Matteo