Finalmente 
                    una rivolta. Seria, forte, almeno in origine compatta. Di 
                    quelle che fanno paura e danno la sensazione immediata di 
                    poter far crollare i poteri che sembravano consolidati. In 
                    questo mondo ammuffito, sorretto da sistemi di potere economici 
                    e politici che si fondano sul privilegio dei potenti di turno, 
                    dove la corruzione dilaga confusa con la malavita organizzata, 
                    dove trovare di poter vendere la propria forza lavoro, cioè 
                    di essere sfruttati, ha sempre di più l’aspetto 
                    sinistro di trovarsi avvantaggiati, dove se non ci riesci 
                    ti trovi costretto all’indigenza fino alla morte per 
                    fame, la rivolta è un’aspirazione incontenibile 
                    che si fonde col sogno del riscatto. Perché siamo costretti 
                    progressivamente alla costanza di condizioni precarie ammantate 
                    dall’incubo di possibili catastrofi imminenti. La piacevolezza 
                    del vivere è diventata una chimera, mentre l’ordinarietà 
                    è sempre più segnata quotidianamente dalla fatica 
                    di stare al mondo. Ben vengano dunque le rivolte, nella speranza 
                    che, oltre a scatenare la sacrosanta rabbia, riescano ad innestare 
                    profondi processi di smantellamento di questo presente antiumano 
                    e di costruzione di alternative vere.
                    La sera di sabato 6 dicembre 2008 ad Atene scocca la scintilla. 
                    Il giovane di 15 anni Alexandros Grigoropoulos viene assassinato 
                    da un poliziotto con un colpo di pistola, colpevole di aver 
                    provocato assieme ad altri una pattuglia di polizia di passaggio 
                    davanti al bar dove il gruppo di giovani stava sostando. La 
                    versione ufficiale immediata tenta di sminuire il fatto sostenendo 
                    che il colpo è stato involontario, che il proiettile 
                    è rimbalzato a terra ed ha colpito il giovane accidentalmente. 
                    Come in ogni parte del mondo i poteri e gli stati si assomigliano 
                    tutti. Prima ti stroncano poi non se ne vogliono assumere 
                    la responsabilità. Ricorda pari pari il caso Giuliani, 
                    altro giovane morto a Genova nel luglio 2001 sempre in seguito 
                    ad un colpo di pistola, guarda caso anch’egli ufficialmente 
                    colpito da un proiettile deviato casualmente da un sasso.
                    Siccome invece numerose testimonianze di cittadini presenti 
                    smentiscono questa versione di stato, monta subito l’indignazione 
                    popolare che in un lampo si traduce in rivolta spontanea generalizzata. 
                    Quella stessa notte, poi nei giorni successivi, la ribellione 
                    subitanea a tratti diventa insurrezione. Nelle città 
                    principali come nei piccoli centri vengono assaliti e dati 
                    alle fiamme questure e commissariati, auto della polizia, 
                    banche e centri commerciali. L’8 dicembre e poi ancora 
                    il 9 la polizia riesce a respingere a fatica gli assalti al 
                    parlamento. Cortei imponenti hanno attraversato i centri di 
                    Atene e Salonicco e in più occasioni i manifestanti 
                    hanno attaccato la polizia che ha reagito caricando e sparando 
                    lacrimogeni. Tutte le università vengono occupate mentre 
                    il paese si stava preparando allo sciopero generale di mercoledì 
                    10 dicembre, indetto dai sindacati precedentemente ai fatti. 
                    Negli scontri numerosi i feriti e gli arrestati. Così 
                    per circa due settimane.
                  
                   
 
                    Impoverimento crescente
                  L’assassinio dello studente quindicenne ha fatto da 
                    detonatore facendo esplodere una situazione di degrado sociale 
                    avanzante da tempo in Grecia. Le riforme liberiste degli ultimi 
                    anni del governo di centrodestra Karamanlis, in particolare 
                    quelle delle pensioni e del mercato del lavoro, hanno determinato 
                    un impoverimento crescente e un aumento costante della precarietà. 
                    Le condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro sono andate 
                    progressivamente peggiorando e il numero d’incidenti 
                    frequentemente mortali si è moltiplicato. Ultima in 
                    ordine di tempo la crisi economica mondiale, con conseguenze 
                    ancora più devastanti per la fragile economia greca, 
                    ha innescato un rovinoso peggioramento delle condizioni di 
                    vita dei lavoratori con l’erosione sistematica di ogni 
                    garanzia e tutela. Se aggiungiamo i problemi ormai endemici 
                    in tutt’Europa, migrazione e impoverimento costante 
                    delle classi più deboli ed esposte, in poco tempo si 
                    è così definito un quadro fatto di un mix micidiale, 
                    in cui la repressione e la brutalità poliziesca si 
                    sono saldate alle tensioni e alle lotte sociali contrapponendosi. 
                    Miccia pronta ad essere accesa. E così è successo.
                    Data la crisi economica montante che in tutto il mondo si 
                    è abbattuta sul genere umano c’è da supporre 
                    che non sarà né la prima né l’ultima 
                    sollevazione. Quando infatti le condizioni di vita generalizzate 
                    vengono messe seriamente in discussione e peggiorano vistosamente, 
                    come sta succedendo in ogni parte del globo, sono ampiamente 
                    prevedibili reazioni popolari dettate dalla disperazione e 
                    dalla rabbia per come i sistemi di potere sottomettono e annichiliscono 
                    i popoli. Ed è proprio qui il punto su cui mi sembra 
                    indispensabile azzardare una riflessione in grado di comprendere 
                    cosa può succedere e come agire, se si riesce ad agire.
                    La riflessione fondamentale su cui m’interessa soffermarmi 
                    è generale. Per usare un linguaggio che richiama ai 
                    tempi del sessantotto, direi che è di carattere strategico. 
                    Investe cioè l’intera visione dell’intervento 
                    possibile cercando d’identificarne il senso e le prospettive, 
                    sia realistiche sia ideali. È riassumibile nella considerazione 
                    secondo cui qualsiasi ribellione, per quanto vasta e profonda 
                    possa essere, se si limita ad esprimere solo e soltanto il 
                    momento della rivolta, non può che esaurirsi in se 
                    stessa. Una volta conclusa, entrano in campo coloro che hanno 
                    le idee chiare e le forze per intervenire e approfittarne, 
                    i quali si assumeranno il compito e l’onere o di restaurare 
                    o di ricostruire a seconda dei loro interessi, lasciando a 
                    se stesso il popolo insorto che si è appena sfogato.
                    Dal punto di vista dei processi di emancipazione, che è 
                    quello che m’interessa e ci dovrebbe interessare più 
                    d’ogni altro, per quanto sacrosanta, giusta e condivisibile, 
                    qualsiasi rivolta o insurrezione non può e non deve 
                    limitarsi ad insorgere e a scontrarsi con tutte le sue forze 
                    contro le nefandezze del potere. Se lo fa, come è sempre 
                    successo, tutto tende a ricomporsi e riprodursi, magari con 
                    un aspetto falsamente nuovo, lasciando però intatte 
                    le cause e le ragioni che avevano portato all’esasperazione 
                    dando spinta al bisogno di ribellarsi con estrema concretezza.
                    Partiamo da una constatazione da cui non si può prescindere. 
                    Le rivolte che lasciano il segno prendono sempre fuoco perché 
                    scocca una scintilla occasionale e non prevista. Nel caso 
                    attuale della Grecia l’assassinio del quindicenne Alexandros 
                    Grigoropoulos. Siccome il terreno sociale, per tutta una serie 
                    di condizioni precedentemente determinatesi, è predisposto, 
                    il fuoco in breve si estende e avvampa. Non ci si può 
                    fare niente, succede e basta. Se non fosse stato per quella 
                    scintilla effettivamente scoccata, sarebbe stato quasi sicuramente 
                    per un’altra. Questo è l’aspetto spontaneo 
                    delle condizioni e delle forme che caratterizzano ogni ribellione 
                    che dilaga.
                    Ma subito dopo entrano in campo e partecipano attivamente 
                    tutti coloro che sentono il bisogno di opporsi: strutture, 
                    partiti, organismi di aggregazione di vario tipo, individui 
                    che non ne possono più. Una pluralità di popolo 
                    che si trova nell’immediato affratellata dalla volontà 
                    comune di attaccare e annientare il nemico del momento, il 
                    potere di turno. Contemporaneamente in breve, almeno così 
                    ci suggerisce l’esperienza, prendono piede ruoli direttivi, 
                    o sorgenti in modo spontaneo nell’ambito dell’azione 
                    che incalza o da parte di dirigenti già effettivi di 
                    partiti e formazioni preesistenti. Questi ruoli dirigenti 
                    non ci mettono poi molto, oltre a dare direttive d’azione 
                    indispensabili, a mettere una cappa politica e di marcia al 
                    movimento imbrigliandone la spontaneità di origine. 
                    Ciò potrebbe essere evitato soltanto se dietro ci fosse, 
                    preesistente, un lavoro efficace di acquisizione culturale 
                    e di organizzazione propenso a consolidare esperienze consapevoli 
                    di autogestione.
                  
                   
 
                    Una prospettiva lungimirante
                  La recrudescenza dello scontro è sterile. Il portare 
                    ad oltranza la lotta militare, perché di questo si 
                    tratta, quale obiettivo principale e di fondo, non ha prospettive. 
                    Dico queste cose perché ho avuto la netta impressione 
                    che nella rivolta di Grecia i compagni rifacentisi all’anarchismo, 
                    da quello che sembra particolarmente numerosi e incisivi, 
                    abbiano proprio fatto una tale scelta strategica. Trainati 
                    in particolare dai kukulofori, presentati dalla stampa 
                    italiana come una specie di black-blok greci, degli 
                    specialisti in loco della guerriglia urbana, hanno cioè 
                    scientemente portato avanti quello che, a mio avviso, è 
                    un malinteso insurrezionalismo, trascinati dall’illusione, 
                    sempre smentita dalla storia, che basti abbattere il potere 
                    che sta dominando, ammesso che ci si riesca veramente, per 
                    innestare, sua sponte e quasi per un magico atto taumaturgico, 
                    un processo conducente di per sé all’anarchia 
                    che sta a cuore.
                    Ovviamente, date le pochissime informazioni che mi sono giunte, 
                    potrei benissimo sbagliarmi. E, credetemi, vorrei davvero 
                    sbagliarmi. Nel qual caso chiederei tranquillamente scusa 
                    alle compagne e ai compagni greci che con tanto ardore lottano 
                    e, ahimé!, pagano di persona. 
                    Dati i tempi, non solo in Grecia ma in tutto il mondo, la 
                    mia preoccupazione è davvero più che plausibile. 
                    Purtroppo temo fortemente di aver intuito giusto, al di là 
                    della più completa solidarietà che senza remore 
                    va espressa e data a tutti coloro che in qualsiasi modo lottano 
                    e si spendono per la libertà, per sottolineare che 
                    comunque sto e stiamo dalla loro parte. Ritengo però 
                    che riflettere su ciò che avviene e sulle scelte che 
                    si fanno sia un contributo importante, nella consapevolezza 
                    piena che nessuno è esente da errori e che un’onesta 
                    critica di sé e l’autocorrezione sono sempre 
                    strumenti indispensabili per capire come procedere e come 
                    migliorare la qualità dell’azione.
                    Indipendentemente perciò da come lì si sono 
                    realmente svolte le cose, che non sappiamo con certezza, sono 
                    comunque convinto che sia fondamentale riflettere adeguatamente 
                    sul da farsi, dal momento che, come anche più sopra 
                    ho già sottolineato, non è affatto da escludersi 
                    che si possano ripetere rivolte decisive in altre parti, data 
                    la crisi montante che sta impoverendo le popolazioni e sottraendo 
                    posti e possibilità di lavoro in tutto il mondo.
                    Credo che bisognerebbe attrezzarsi di una prospettiva lungimirante, 
                    tendente a mettere in campo modi e azioni atti a realizzare 
                    pratiche di libertà e di autogestione, miranti ad estendersi 
                    il più possibile all’intero corpo sociale. C’è 
                    bisogno dell’ipotesi di un progetto a lungo raggio, 
                    senz’altro complessivo, ma possibilmente pensato anche 
                    nella gradualità delle sue diverse fasi, da tradurre 
                    nella realtà, in modo che lo scontro col potere non 
                    si limiti e non si risolva in uno scontro impari con le forze 
                    di polizia o le forze armate, ma che si pensi e pretenda di 
                    essere capace di sperimentare costruzioni alternative, in 
                    grado di cominciare a mettere in pratica il nuovo tipo di 
                    società per cui lottiamo.
                    Bisogna cominciare a capire e pensare che lo scontro con la 
                    polizia e le forze dell’ordine, che l’esperienza 
                    ci insegna è quasi impossibile da evitare, dal momento 
                    che i poteri costituiti quando si trovano messi alle strette 
                    reagiscono con un volume di fuoco difficilmente contenibile, 
                    è un momento di risposta all’azione repressiva. 
                    Ma soprattutto che è un fatto squisitamente militare, 
                    che va perciò affrontato con senso e logiche conseguenti, 
                    senza commettere l’errore di caricarlo di una valenza 
                    politica che in realtà non ha, di considerarlo cioè 
                    come l’elemento fondamentale che dà avvio alla 
                    qualità politica delle scelte. Il che non vuol dire 
                    che bisogna trasformare la rivolta spontanea in forme militariste, 
                    ma che per difendersi e non essere sopraffatti bisogna saper 
                    agire con logica militare, mentre bisogna saper agire libertariamente 
                    per costruire l’alternativa. Se si entra invece nella 
                    logica di vincere soprattutto militarmente, al di là 
                    che lo si voglia o no, si entra nella logica di prendere il 
                    potere e sottomettere i vinti, perché poi, com’è 
                    sempre successo, non se ne riesce a fare a meno. Addio allora 
                    ogni prospettiva di libertà e di liberazione.
                    È fondamentale diventare coscienti che se non riusciremo 
                    ad ipotizzare una progettualità adeguata, al di là 
                    delle illusioni e delle nostre volontà, lasceremo ad 
                    altri, a forze autoritarie con pochissimi scrupoli, lo spazio 
                    progettuale per ridefinire l’arena politica. È 
                    uno scenario già ampiamente visto lungo il corso del 
                    divenire storico e non mi sembra che abbia prodotto granché. 
                    Nei fatti ha generato solo sfacelo e disastri non riparabili.