Rivista Anarchica Online


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Alessandria/ Uomini neri

È ancora presto per fare bilanci. Però un anno e mezzo di giunta Fabbio ad Alessandria qualche segno inizia a lasciarlo. Io mi sono trovato, un po’ per caso, messa da parte una decina d’anni di militanza anarchica, in mezzo al Consiglio comunale più orientato a destra che la nostra città ricordi dal dopoguerra in avanti. Imbarcandomi in quest’avventura pensavo ingenuamente di poter fare qualcosa per i miei concittadini, operando per una volta dentro le istituzioni. Più partecipazione, più trasparenza, più ascolto. Invece mi sono reso conto alla svelta che si può fare davvero poco. Ci sono logiche e strutture cristallizzate. Una complessità burocratica che richiede tantissimo tempo solo per essere (pur vagamente) compresa. Pochi strumenti per ricercare e praticare soluzioni concrete ai molti problemi che la nostra comunità deve affrontare quotidianamente. Amministratori e consiglieri, stretti tra vincoli di bilancio, leggi e leggine europee, statali, regionali, etc e pressioni (più o meno discrete) dei cosiddetti poteri forti, hanno un campo d’azione sempre più limitato.
«E allora che cosa ci stai a fare lì dentro?» – mi chiedo spesso. Diciamo che, a poco a poco, ho iniziato a dare alla mia presenza in quell’Aula un significato diverso. Paradossalmente, più affine alla militanza libertaria cui accennavo in principio. Di fatto la mia vuole essere ormai un’opera di testimonianza. Nessuna particolare solennità al ruolo, non fraintendiamoci. Nessuna epica tragedia da vivere e raccontare ai posteri. Solo un ottimo punto di osservazione per cercare di capire meglio quel che sta succedendo e per far sentire di tanto in tanto una voce dissonante. Condividendo – laddove possibile – osservazioni, critiche, timori.
Dicevamo che la giunta può fare ben poco sulle questioni davvero decisive. Ma quel poco che sta facendo va, secondo me, nella direzione sbagliata. L’idea, ad esempio, di metter sul mercato le società partecipate del Comune (iniziando dalle farmacie, dalle mense scolastiche e perfino dalla casa di riposo). Siamo in difficoltà, e allora dismettiamo i “gioielli” di famiglia. Ma poi cosa ci resta? E quando saremo di nuovo in difficoltà, forse ancor più gravi, che cosa (s)venderemo? La qualità dell’aria che respiriamo peggiora, mentre sindaco e assessori minimizzano e considerano il traffico veicolare non un problema ma una risorsa, al punto da estendere la ztl in stradine secondarie e semi-deserte. C’è poi l’annosa questione dei rifiuti. La guerra al “porta a porta” produce soltanto la crisi della raccolta differenziata e l’aumento delle tariffe. Senza dimenticare l’emergenza abitativa. Molti sfratti, pochissime case e risorse sempre più scarse per le politiche sociali e l’aiuto alle persone in difficoltà. E ancora, poco verde pubblico, pochi spazi di aggregazione, nessuna proposta in tema di politiche giovanili, praticamente cancellate dall’agenda di questa amministrazione. Infine, la questione sicurezza. Solo promesse e cure “palliative”. Si annunciano cento telecamere in giro per la città. Ma chi starà poi dietro a questo “grande occhio”? Che cosa potrà fare concretamente, se non violare a piacimento la nostra privacy? Chi interverrà nelle situazioni di emergenza, visto che la Polizia municipale è sempre sotto organico, e una sola è la pattuglia impegnata nell’orario notturno? Altro che presìdi territoriali diffusi. Altro che politiche integrative e interventi di prevenzione. Altro che partecipazione dei cittadini.
Bene, proprio in tema di sicurezza le ultime inquietanti trovate di Fabbio e soci. Anzitutto, recependo con gaudio una normativa regionale (sic!), si è deciso di potenziare la dotazione del personale di Polizia municipale con strumenti di “auto-tutela”, tra i quali manette, spray irritante, sfollagente-mazzetta di segnalazione e il famigerato manganello tonfa, usato ad esempio dalle forze del (dis)ordine per l’orrenda mattanza al g8 genovese nel 2001. Ma era proprio necessario? Quanti casi di cronaca locale ricordate con protagonista un vigile vittima di aggressione? Io neanche uno. E comunque basta consultare i dati sugli infortuni negli ultimi quattro anni degli agenti di Polizia municipale in servizio. Sono cifre più che rassicuranti. E allora? Si tratta con tutta evidenza di un provvedimento inutile, che ha solo una valenza simbolica, e che comporta semmai qualche rischio nel fornire strumenti pericolosi a persone non adeguatamente preparate per usarli. Ma la seconda delibera della giunta è ancor più inquietante, proprio sul piano simbolico. Primi in Italia, abbiamo deciso di istituire un Corpo di ausiliari volontari della Polizia municipale per rafforzare il controllo del territorio. Nella migliore delle ipotesi si tratta di una disposizione inutile. Questi “volontari”, essendo tali, non hanno alcun obbligo e vincolo legato a orari e mansioni, e le loro attività, si esplicita con precisione, «rivestono carattere di complementarietà occasionale». Di fronte a un’emergenza, quindi, non si ha nessuna garanzia di una loro effettiva mobilitazione. Il provvedimento, però, può anche essere pericoloso. È vero che questi volontari agiranno sempre in affiancamento a professionisti. Ma se ipotizziamo una pattuglia a due con un agente e un “aiutante” impegnata in un’operazione delicata, è assai probabile che il primo, nell’intervenire, debba badare anche al proprio compagno, non pronto ad affrontare situazioni di rischio. C’è poi il sospetto di un vizio giuridico. Essere membri di questa milizia – oh scusate, di questa “associazione” –, costituisce titolo preferenziale nell’accesso ai concorsi per entrare nella Polizia municipale di Alessandria. Un volontariato ben ricompensato, non c’è che dire! E infine si deve leggere con attenzione la dotazione. Trascrivo fedelmente: «I Volontari della Polizia municipale saranno dotati di abbigliamento di colore nero. L’abbigliamento di base si compone di: berretto tipo bustina, maglia polo estiva o dolcevita di colore grigio, pantaloni di servizio, cintura pantaloni, giubba/camicia di colore grigio, giacca termica, giacca impermeabile, guanti, gilet di segnalazione, stivaletti».
Divise nere? Immaginate di passeggiare per la strada e di imbattervi in un gruppo di questi volontari nero vestiti. Sareste più tranquilli o più inquieti? Davvero sono il solo a cogliere sinistri richiami al nostro lontano passato? Non vorrei che fosse solo l’inizio, e che prima o poi la dotazione sia integrata con manganelli e olio di ricino.. Senza voler esagerare, mi sembra comunque alto il rischio di fomentare un’esaltazione collettiva (fintamente) securitaria e di legittimare comportamenti violenti, eccessivi, fuori controllo. Con possibili gravi conseguenze, come attesta l’incredibile episodio di Parma, dove qualche giorno fa il giovane Emmanuel, scambiato per un pusher, è stato pestato, insultato e rispedito a casa con la scritta “negro” su una lettera di accompagnamento. Ultimo capolavoro degli agenti di Polizia municipale della città emiliana, già più volte al centro di inquietanti episodi di cronaca. E intanto sembra non avere più argine la deriva razzista del nostro Paese. Pestaggi a immigrati, gialli, neri e blu. Nostalgie fascistoidi di ministri, sindaci e pure giocatori di calcio (non si sentiva proprio il bisogno dell’uscita di Christian Abbiati, portierino milanista camerata senza pudori). E poche sono le voci che si levano indignate. Rischiamo di lasciare perfino la difesa dell’antifascismo al presidente della Camera Fini. Bravi! Per la cronaca, su detti provvedimenti il Pd alessandrino si è astenuto. Non commento. Fin che posso, testimonio, sperando che la mia voce non rimanga isolata (e inascoltata), nelle aule del Palazzo. Chi tra voi ancora si indigna, si unisca e faccia sentire il suo sdegno.

Giorgio Barberis
(Alessandria)

Vogliono cancellare la geografia

Noi insegnanti di geografia l’avevamo pensato subito non appena erano circolate le dichiarazioni del ministro Gelmini sull’intenzione di ridurre le ore di lezione negli istituti tecnici e nei professionali: toglieranno geografia. E infatti la bozza che ha cominciato a circolare tra gli addetti ai lavori elimina la geografia dagli istituti tecnici; così sarà anche nei professionali.
Del resto è logico. Chi prende tali decisioni (ministri, parlamentari, ispettori, esperti) ha fatto le scuole superiori al liceo classico o scientifico, dove la geografia si fa solo per un anno, ai loro tempi quasi solo elencativa-enciclopedica, insegnata dal docente di lettere. Oggi ci sono il navigatore satellitare e la televisione, a che servono atlante e studio comparato dei gruppi umani?!
Ai tecnici e ai professionali oggi c’è invece il docente specializzato, nel triennio e per più anni. La riduzione delle ore lascia intravedere (nel migliore dei casi) che la geografia sarà insegnata dal docente di lettere, tendenzialmente nel biennio, come materia residuale dopo italiano e storia, non amata o del tutto negletta perché sconosciuta.
I docenti di geografia possono essere bravi o poco capaci, ma il programma è l’unico nell’intera scuola italiana che obblighi a parlare delle dinamiche contemporanee: economiche, storico-sociali, politiche. Inoltre i docenti di geografia, almeno quelli che la insegnano non per ripiego, sono gli unici che non hanno bisogno di corsi di aggiornamento per sapere di lingue, economie, culture, ambienti, climi, problemi, storia, relativi alle diverse aree e ai diversi gruppi umani nel mondo.
L’imperativo è tagliare! Ma ….. non sarà anche che parlare criticamente dell’oggi, degli “altri”, dei problemi ambientali, delle differenze economiche e culturali sia cosa che disturba il manovratore?

Fabrizio Eva (Milano)
docente di geografia negli istituti superiori


A Firenze ricordando il Verdecchia

Care/i compagne/i,
abbiamo organizzato lo scorso 24 ottobre, presso il Circolo Anarchico Fiorentino, via dei Conciatori 2 rosso, una serata in onore del compagno Gianpaolo Verdecchia, scomparso un anno fa. Gianpaolo aveva dato al circolo un’impronta di libertarismo vero, senza retorica e senza inutili revanchismi. Un’esperienza intensa, che permane, anche con la mediazione di Birgitta Schneider/Verdecchia, la vedova di Gianpaolo, compagna adorabile, ma anche, come Gianpaolo, impegnata professionalmente (quale odontotecnica-“assistente alla poltrona”) ad alleviare e ridurre al minimo paure, timori, piccoli dolori delle/dei pazienti. Anche lei, come Gianpaolo, una specie di “Robin Hood” (di Marion, nella fattispecie) dei dentisti...
Il resto della serata ha visto una performance del narrattore ravennate Andrea Treré, tutto giocato sull’ironia e la comicità estremamente intelligenti, dove anche il nome, ma soprattutto il cognome, diventa occasione per un “gioco al massacro” molto divertente, che coinvolge un circolo monarchico torinese, le “scappatelle” del principe Vittorio Emanuele, coinvolto in questioni di “vallette”e non solo, come si sa, circa un anno fa. Poi ancora, soprattutto l’esibizione teatrale (con un background musicale molto efficace) dell’attrice Natascia Macchniz, con letture da “Iceberg” di Eugen Galasso, racconti pubblicati da Latmag nel 2007. Natascia attrice giovane ma colma di esperienze teatrali (anche con il “Living Theatre”, César Brie, ile Metodo di Lee e Susan Strasberg), ha interpretato i testi con grande intelligenza, con semplicità e con digressioni “altre” quando il tema lo richiedeva. Si può veramente dire che l’attrice abbia valorizzato anche i testi meno efficaci, riuscendo, come aveva ventilato l’autore dei testi in una breve premessa, a fare come Edith Piaf che riusciva, sul piano canoro, ad interpretare persino l’elenco del telefono...

Natascia Macchniz

Notevole interesse ha suscitato, nel corso della serata, la prossima uscita di “Si può fare”, un film di Giuseppe Manfredonia interpretato dalla Macchniz. Il film, presentato al Terzo Festival del Cinema di Roma, è nelle sale dall’inizio di novembre; tratta la problematica del recupero di chi ha avuto problemi, spesso detti ingiustamente “psichici” (Giuseppe Bucalo, ma anche, pur con variazioni sul tema e sfaccettature diverse, l’antipsichiatra Antonucci, per es., sostiene che la malattia psichica non esiste affatto). In un momento di “restaurazione psichiatrica” (ri/propo­sizione massiccia di elettroshock e psicofarmaci pesanti anche in misura molto consistente, con i loro fautori, Cassano e in parte anche Jervis massicciamente presenti nei media) un film di questo tipo appare particolarmente importante ed interessante.
Non a caso ne prevediamo la proiezione anche da noi, presso il circolo, presso il CPA e comunque in altre realtà associative libertarie fiorentine. La serata è stata divertente, allietata da canti e scherzi, ma anche da una cena con finale di torta patafisica per festeggiare i 3 anni di vita del circolo.

Patrizia “Pralina” Diamante
per il Circolo Anarchico Fiorentino

per informazioni sulle attività del circolo http://viadeconciatori2rosso.jimdo.com/

 

Un po’ più di poesia

Cari compagni,
ho letto “A” per un anno, e rinnovo volentieri il mio abbonamento: nove numeri attenti, passionali, libertari.
Mi permetto però di fare un piccolo appunto. A mio modo di vedere dovrebbe essere migliorata la sezione artistica in generale e quella letteraria in particolare. L’Arte, sebbene non ricada nel territorio strettamente sociale e anarchico, è di per sé la forma più alta di libertà: l’estetica porta alla sensibilità, questa forma il gusto, e il gusto porta dritto verso l’etica. anche se risicata, una sezione letteraria dovrebbe trovare alloggio nella rivista.
Bene, anzi benissimo tutto ciò che concerne la musica e Alessio Lega; ma per il resto qualche lacuna c’è ed è evidente.
La sezione poetica, che solo raramente viene proposta, è mediocre, con versi ostentatamente sociali, di qualità scarsa per gli amanti del genere. Di libri se ne parla solo se a sfondo anarchico. Di satira (quella di gran livello, alla luttazzi per intenderci) non c’è traccia.
Speranzoso di contribuire all’evoluzione del movimento, vi abbraccio.

Gianluca Pitari
(Cropani Marina – Cz)

 

Parlare di carcere nel Belpaese

In Italia parlare di carcere e di sistema penitenziario significa scomodare uno dei principali mostri sacri della società contemporanea, riconoscendo appunto, come mostri sacri, quelle istituzioni pubbliche che grazie alla loro funzione sono considerate dai più inevitabili, scontate e di conseguenza accettate passivamente.
Il carcere è dunque un solido pilastro sul quale si può contare e si conta in ogni evenienza, un meccanismo consolidato che garantisce la possibilità di rimozione di quei gruppi o strati sociali che di volta in volta non sono graditi alla maggioranza dei cittadini e alla loro legge emanata in nome del popolo sovrano.
Cosa sia in realtà il carcere questo resta però ignoto alla maggioranza del popolo, il quale, senza oltrepassare con lo sguardo le sue spesse mura, lo rimuove come un mal pensiero, come lo stesso carcere rimuove dal corpo sociale le giudicate mal persone.
Addentrandosi nella descrizione della popolazione carceraria e prescindendo dai delitti di sangue, delitti contro la sacralità della persona, si riscontra oggi in Italia, una carcerazione di quelli che sono i fenomeni che la società non riesce ad analizzare e comprendere, un mettere temporaneamente da parte chi per vari motivi non si integra al sistema, ne diviene spauracchio e motivo di tensione. E il ciclo dei capri espiatori è sempre in movimento. Dal vecchio terrone al clandestino extracomunitario dei giorni nostri.


Il carcere dunque è un’istituzione connaturata alla nostra vita quotidiana, è all’interno delle nostre città ed allo stesso tempo scisso da esse, mondo a parte, non luogo nel bel mezzo della brulicante vita quotidiana, la vita dell’alzarsi, del lavorare, del campare come meglio se ne ha la possibilità.
A ben vedere, esaminati gli studi condotti sul settore, il carcere non ha senso in questa società se non come luogo di rimozione dei problemi, delle contraddizioni che mettono in mora l’attuale sistema di vivere: chi non riesce a sostenere i ritmi lavorativi, o non riesce ad accaparrarsi il giusto gruzzolo per la fine del mese, o integra i miseri stipendi del dopo euro con attività compensative illegali, non ha diritto di turbare col proprio esempio chi vive per lavorare e soprattutto chi lavora per vivere. Niente deve distogliere l’attenzione dal lineare flusso della produzione e del consumo. Il consumatore infastidito è un cattivo consumatore.
Diffidare allora da chi trova nel carcere una soluzione razionale, sono difficilmente difendibili tali posizioni riconosciute ormai come ideologie scientifiche, il carcere non è giustificabile dal punto di vista della deterrenza perché in fondo chi non ha di che mangiare rischierà sempre (ed ha sempre rischiato) una punizione all’indigenza e nemmeno dal punto di vista della rieducazione, almeno due generazioni di scienziati sociali hanno infatti dimostrato con i numeri e con i fatti che non è possibile rieducare un individuo inserito all’interno di un’istituzione totale, un meccanismo perverso che fa dell’uomo un’ombra di se stesso, non futuro responsabile cittadino, ma bestia frustrata e umiliata in una cattività protrattasi al di fuori delle regole del popolo sovrano. E questo vuol dire essere detenuti oggi nel nostro paese: sovraffollamento, strutture fatiscenti ed anguste, carenza di personale, mancato rispetto della normativa di settore che vedrebbe nella pena un fine rieducativo, con più di 55 mila detenuti ( dati aggiornati al 30/6/2008) e circa 700 educatori su tutto il territorio italiano.
Se poi vi parlano di risocializzazione il sospiro trattiene in bocca il boccone amaro, siamo realistici, la nostra società in decadenza non è in grado di offrire posti di lavoro alle nuove generazioni di laureati sfornati ogni anno dal sistema accademico, figuriamoci come potrà inserire un ex detenuto, un ex carcerato in un mondo che diffida di lui, il marchio della galera resta poi indelebile sulla pelle e sino ad oggi non c’è legge che preveda sgravi fiscali che permetta ad un lavoratore con alle spalle un’esperienza di reimmettersi a pieno titolo nel tessuto produttivo. Spesso la traiettoria del lavoro post-carcere è un vicolo cieco, cooperative per lavori degradanti che non sfruttano le potenzialità ed i talenti personali dei lavoratori, stipendi che arrivano ai 400 euro, ghetti per lavoratori sottopagati cittadini di serie B in tutto e per tutto. Esuberi carne da cannone per chi ha il pelo sullo stomaco.
Dunque alla galera vera e propria quella fatta di sbarre e chiavistelli si affianca un altro tipo di galera, più infima, perché invisibile, più temibile perché non la si conosce, il percorso di reinserimento dell’ex detenuto/a è una corsa ad ostacoli che diviene drammatica perché espiata la propria pena non si ha alcun futuro almeno che non si disponga, e sono pochi, di una rete solidale di amicizia ed affetto che possa permettere di incanalare gli sforzi verso una direzione plausibile.

Parlare di carcere nel Belpaese significa allora parlare di sicurezza con cognizione di causa, fuori dalla logica dell’emergenza perenne e strumentale, parlare di carcere valutando i risultati delle politiche penitenziarie nel lungo termine, riflettere considerando punto per punto quali sono gli effetti che una detenzione espiata al di fuori della legge comporta sul futuro prossimo di un detenuto alla prima carcerazione, interrogarsi sulle conseguenze del disporre di poco e demotivato personale nella gestione di un ambito così cruciale della società.
Il carcere è il residuo di un mondo passato, grottesco nel suo essere sempre uguale a se stesso privo della possibilità di riformarsi nelle sue strutture, meccanismi e procedure, nella pratica sempre ancorato all’idea della punizione fine a se stessa, dell’annientamento fisico, psicologico e della deprivazione sensoriale ed emotiva. Quando la punizione, nonostante la velina democratica che declina e giustifica il proliferare delle galere, smetterà di essere puro strumento di vendetta del corpo sociale, per divenire strumento di auto riscatto, strumento attivo di cambiamento e potrà configurarsi non come un tempo vuoto, di distruzione in quattro angoli malsani a marcire, ma come un tempo pieno, di messa al lavoro, di produzione restituiva, che nello sbaglio scorge le motivazioni delle errore commesso e lo inquadra nella giusta cornice di riferimento, allora quando non ci saranno più detenuti, ma persone che con il lavoro socialmente utile riattiveranno il proprio diritto ad usufruire dei diritti di cittadinanza, allora la nostra società avrà fatto un passo, un piccolo passo nella strada in salita che conduce ad una società più giusta ed umana.
Concludo con una parentesi storica, oramai sono passati 70 anni, ma nel 1937 mentre la Spagna franchista assediava la Spagna repubblicana un atipico ministro della Giustizia, l’anarchico Garcia Oliver diceva: “La Giustizia dev’essere ardente, la giustizia deve essere viva, la giustizia non può restare confinata nei ristretti limiti di una professione. Non che noi disprezziamo gli avvocati. Ma il fatto si è che avevamo troppi avvocati.
Quando i rapporti fra gli uomini saranno quelli che dovrebbero essere, non ci sarà più bisogno di rubare e di uccidere.
Per la prima volta riconosciamo, qui in Spagna, che il delinquente comune non è un nemico della società, ma ne è piuttosto una vittima.
Chi può affermare che non andrà a rubare se vi verrà spinto dalla necessità di sfamare sé e i propri figli?
Non si pensi che io faccia qui l’apologia del furto; ma l’uomo, in fondo, non procede da Dio, ma dalla situazione, dalla bestia.
La giustizia, io credo fermamente, è una cosa così sottile che per interpretarla occorre soltanto un cuore.

Fabrizio Dentini
(Genova)

Dissociamoci dalle Forze Armate!

Oggi più che mai l’antimilitarismo, che ha sempre caratterizzato le idee e l’azione degli anarchici in tutto il mondo, è diventato irrinunciabile.
Il 4 novembre lo stato italiano celebra quella “vittoria” della prima guerra mondiale che, in realtà, fu un gigantesco massacro di giovani, soprattutto di contadini e lavoratori salariati: i morti di tutti i paesi coinvolti furono quasi 10 milioni. Soltanto in Italia si ebbero più di 680.000 morti e più di 1 milione di feriti e mutilati.
Dietro questa maschera autocelebrativa fatta di retorica nazionalista ed esaltazione della forza militare si nascondono le verità di sempre: gli eserciti combattono le guerre e le guerre producono morte, miseria, distruzione.
Oggi, l’impiego delle forze armate da parte del governo italiano ha assunto forme e raggiunto livelli insostenibili: i soldati vengono utilizzati anche per la gestione dell’ordine pubblico, la militarizzazione del territorio è capillare e l’Italia assomiglia sempre di più a una caserma a cielo aperto.
Il mondo globalizzato è costantemente dilaniato da guerre sostenute da eserciti le cui imprese vengono contrabbandate quali missioni di pace e la cui funzione è normalmente spacciata quale legittima esportazione della democrazia: una colossale menzogna che viene smascherata ogni giorno, dovunque e comunque, dalla realtà dei fatti.
La crisi economica dilaga, le spese sociali vengono tagliate drasticamente e i soldi pubblici – anziché essere utilizzati per migliorare il benessere della collettività – vengono impiegati per fabbricare armi, costruire basi militari e ingrassare i profitti dei profittatori di sempre, mentre gli interessi economici e politici che stanno dietro alle guerre si giocano sulla vita di milioni di persone.
Essere antimilitaristi oggi significa rifiutare le gabbie culturali e politiche nelle quali il potere vuole intrappolare gli esseri umani.
Significa, necessariamente, preferire la libertà, la solidarietà e la giustizia sociale alla sopraffazione, all’esclusione e all’ingiustizia.
Gli omuncoli che siedono sulle poltrone dei palazzi del potere hanno bisogno, come sempre, di carne fresca da mandare al macello, e più che mai di cervelli intorpiditi.
Rifiutiamoci di partecipare al loro gioco al massacro!
Dissociamoci dalle forze armate e dalla normale, connaturata violenza dello Stato!

Contro gli eserciti, gli stati, le guerre!

Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana (FAI)

cdc@federazioneanarchica.org
www.federazioneanarchica.org

 

 

 

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Gesino Torres (Santo Spirito – Ba) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) nel 23° della scomparsa di Alfonso Failla (26.01.1986), 500,00; Francesca Talini (Livorno) 20,00; Marcella De Negri (Milano) 20,00; Roberto Colombo (Boffalora Ticino – Mi) 6,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; Ivano Sallusti (Roma) 5,00; Tony Gei (Piovene Rocchette – Vi); Guido Salvini (Milano) 50,00; Maria Lanza (Milano) 17,00; Andrea Maffei (Merano – Bz) 105,00; Luca Denti (Oslo – Norvegia) 10,00; Giuliano (Monteprandone – Ap) “una penna nera”, 20,00; Battista Saiu (Biella) 20,00; Michele Ritucci (San Giovanni in Persiceto – Bo) 20,00; Davide Nasato (Bellinzona – Svizzera) 50,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Tommaso Bressan (Forlì) 20,00. Totale euro 943,00.

Abbonamenti sostenitori.
(quando non altrimenti specificato, trattasi di 100,00 euro). Valerio Lisi (Taranto); Cariddi Di Domenico (Livorno) in ricordo di Giovanna Berneri, Carlo Doglio e Cesare Zaccaria; Luca Giudici (Novara); Francesco Di Nardo (Roma) 150,00; Loredana Zorzan (Porto Garibaldi – Fe); Danilo Ciorra (Roma); Giordana Garavini (Castel Bolognese – Ra) ricordando il padre Nello. Totale euro 750,00.