Rivista Anarchica Online


 

Quando i bambini
rompono

È appena uscito Divieto d’infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, un pamphlet di Chiara Gazzola (pagg. 80, euro 8,00). Ne abbiamo chiesto ai compagni/editori della BFS una presentazione.

Il comportamento dei bambini non sempre soddisfa le aspettative della comunità adulta. Dei disagi infantili si preoccupa sempre meno la pedagogia e sempre di più la psichiatria e la genetica. La diagnosi ADHD (sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività) rappresenta l’esempio più eclatante.
Le cure chimiche previste (come il Ritalin) interferiscono nella crescita a livello neurologico, la diagnosi considera il soggetto malato a causa di un comportamento “non idoneo” ad una società sempre più omologata e omologante. Se si ritiene che l’ambito sociale e relazionale, nel quale un bambino cresce, sia poco importante e si incasella come patologia ogni comportamento che non rispecchia i canoni di presuntuosi obiettivi formativi, la soluzione verrà demandata ad esperti che si avvalgono di cure farmacologiche invasive. Così si distrugge l’infanzia, la fantasia, la libera espressività; su tutto ciò cala un sipario di silenzio che va rialzato.
L’esistenza di bambine, e bambini, è sempre più strutturata in un’organizzazione spazio-temporale che lascia pochi ambiti aperti alla libera creatività ed è rigidamente scandita dall’orologio; le loro giornate sono spesso così preordinate da impegni e da un’incredibile dose di stimoli da renderle poi noiose quando non ricevono le suggestioni degli adulti. Tutto ciò può originare senso di inadeguatezza e di antagonismo, ad esempio quando non riescono a soddisfare le richieste di una scuola meritocratica, non possono acquistare il prodotto all’ultima moda, non sono in grado di primeggiare. Non è sempre facile possedere e dimostrare capacità di adattamento, il comportamento può manifestare elementi che contrastano le aspettative della collettività adulta (genitori, parenti, insegnanti, educatori)... e, proprio da adulti, dovremmo chiederci su quali criteri si formino queste aspettative. Su ciò che prevediamo debba essere il loro futuro? In base ad un’organizzazione sociale che li veda inseriti nella corsa all’efficienza a tutti i costi? Sulla pseudo-consapevolezza di sapere quale sia il loro bene?
Per anni si è affermata la necessità di attuare approcci educativi a misura di bambino e le differenti scuole di pensiero si sono confrontate sulla base di esperienze pedagogiche, cercando di comprenderne i bisogni.
Ogni relazione interpersonale rappresenta una storia unica e irripetibile; attraverso i tanti “perché” che rivolgono, e che presuppongono risposte anche sul piano razionale e verbale, i bambini richiedono la nostra attenzione: ci distolgono dalle nostre occupazioni perché siamo per loro un punto di riferimento essenziale. Non è facile essere presenti e allo stesso tempo non invadere la dimensione fantastica dell’infanzia; se il nostro intento è di aiutarli ad acquisire autonomia, dovremmo cercare un equilibrio fra l’autorevolezza e la capacità di lasciarli liberi di scegliere, fra la responsabilità e il rispetto.
Gli adulti sono sempre in grado di chiedersi e capire ciò che un bambino vuole comunicare, o l’obiettivo che ci si pone è di normalizzarlo, impedendogli così di esprimere la propria unicità?
L’attuale tendenza della pedagogia e della psicologia dell’età evolutiva è proprio quella di farsi coadiuvare dalla neuropsichiatria ogni qualvolta un “elemento di disturbo” contrasta con i programmi formativi; il “disagio” comportamentale invece di essere valutato come un campanello di allarme nella relazione adulto-bambino, viene incasellato come un difetto del bambino: l’educatore così – deresponsabilizzato e dispensato dal dover modificare il proprio approccio educativo – delegherà ad un esperto il problema (reale o apparente che sia), il quale lo affronterà dal punto di vista della salute mentale. La pedagogia di stampo più repressivo si rinnova nel tentativo di contenere chimicamente quelle condotte non riconducibili alla norma; così si elimina la soggettività, si disciplina quella potenziale libertà presente nell’infanzia che, attraverso desideri e aspirazioni, porterebbe ad una personale interpretazione dell’esistenza.
Nonostante le carenti dimostrazioni scientifiche, si dice che molti “disturbi” abbiano una radice genetica; vi è un costante aumento della prescrizione di psicofarmaci nell’età infantile e adolescenziale anche quando la tossicità e il danno neurologico supera la presunta efficacia, valutata spesso limitatamente al controllo della sintomatologia. Non è facile reperire dati certi (coperti anche da una sorta di privacy di tutela dei minori) che ci aiutino a capire questo mondo sommerso; agli addetti ai lavori interessa dire quel tanto che basta per far capire che ci dobbiamo fidare di loro, mentre il silenzio cala sulle singole e reali esperienze. Si sono verificati ad esempio casi di bambini intossicati da mercurio contenuto nei vaccini che hanno manifestato comportamenti molto simili a quelli che i medici associano alle diagnosi psichiatriche; dove la causa è stata ben recepita si è lavorato per disintossicare il bambino con un evidente miglioramento della sua qualità di vita, dove si è ricorso agli psicofarmaci il percorso si sta dimostrando a dir poco lesivo per il sistema neurovegetativo del soggetto e l’equilibrio dell’intero nucleo familiare.

Ogni cultura definisce la propria norma comportamentale, il “giusto” modo di fare nei luoghi appropriati; la diversità di pensiero e di condotta può scatenare una non accettazione da parte della comunità: paradossalmente è la maggioranza conformista a sentirsi minacciata da chi non si integra perché si trova ad affrontare una situazione che non capisce e non vuole accettare. La norma comportamentale è un concetto culturale e non ha niente a che fare con il funzionamento del cervello, nonostante ciò vi è un pregiudizio fortemente radicato nella nostra cultura che definisce “sano” il cervello di un individuo che rispetta le leggi e le convenzioni sociali.
La persona che esprime un pensiero non condiviso viene spesso esclusa e giudicata malata perché in quell’idea viene percepito qualcosa di sbagliato: molti artisti, letterati, musicisti, dissidenti politici hanno conosciuto la detenzione manicomiale. La psichiatria sancisce la normalità e stabilisce, attraverso la definizione di patologie, le anormalità. Se fosse veramente una specializzazione della medicina, le patologie sarebbero comprovate da esami clinici; al contrario gli psichiatri stilano le loro diagnosi attraverso un giudizio soggettivo dei “sintomi” comportamentali.
Le patologie psichiatriche cambiano a seconda dei contesti storici e culturali: fino a non molti anni fa l’omosessualità era considerata una malattia, la tendenza attuale è quella di far rientrare nelle patologie psichiche l’inclinazione al gioco d’azzardo, l’infedeltà coniugale, la poligamia e quei comportamenti infantili o adolescenziali che disturbano il quieto vivere degli adulti.

La posizione dominante della farmacologia all’interno della pratica clinica negli ambiti di salute mentale, unitamente a rigide procedure diagnostiche, sostituisce spesso approcci più completi che mirerebbero a cercare, nella complessità delle situazioni, una soluzione attraverso una collaborazione con tutta la rete relazionale del soggetto.
Quando una procedura diagnostica (spesso costituita dalla compilazione di test e griglie) viene approvata, il suo utilizzo all’interno delle strutture, pubbliche e private, diventa essenziale affinché vengano stanziati i finanziamenti o i rimborsi da parte delle compagnie assicurative. Anche quando viene dichiarato che ci si attiene ad un approccio bio-psico-sociale, con la motivazione del contenimento dei costi e dell’ottimizzazione delle risorse, si introducono dei livelli di produttività che riducono i tempi di durata delle visite agli utenti; possono bastare 15 minuti e, in modo approssimativo e semplicistico, una persona diventa un paziente dei servizi psichiatrici, magari con una diagnosi di schizofrenia a cui viene aggiunta prima l’amministrazione di sostegno e poi l’interdizione.
La psichiatria si avvale di metodi che difficilmente migliorano le condizioni di vita di una persona, e nella facoltà di stilare diagnosi va individuata l’essenza del suo potere di controllo sociale. Alcuni decenni fa cominciò ad occuparsi di adolescenti e con la neuropsichiatria anticipa il suo intervento sull’infanzia.
Le cause dei malesseri psicofisici possono essere varie, non vanno negate bensì affrontate; la paura, la vergogna, i tabù culturali conducono all’isolamento e all’incapacità di condivisione interrelazionale e, a questo punto del percorso, la qualità dell’aiuto diventa fondamentale. Con questo opuscolo proviamo a fare un po’ di chiarezza, a capire che cosa stia succedendo e quali potrebbero essere le conseguenze sulle future generazioni.

BFS

 


Mi rivolto
dunque siamo

È da poco uscito nelle librerie Mi rivolto dunque siamo, scritti politici di Albert Camus a cura di Vittorio Giacopini (Elèuthera, Milano 2008, pagg. 120, euro 12,00). Ne pubblichiamo qui l’introduzione dello stesso Giacopini.

L’unica cosa che si può fare è creare piccole minoranze di rompicoglioni con un progetto in testa.
Goffredo Fofi

Negli anni Sessanta, gli studenti della New Left americana che ancora non sapevano che il vulcano stava per scoppiare (ma sarebbe stata un’eruzione abortita o sabotata) tenevano sul comodino due libri di preghiera un po’ speciali: On Revolution di Hannah Arendt – questa pensosa ode alle origini tradite di una democrazia in caduta libera – e L’uomo in rivolta di Albert Camus. Per la prima volta, l’arci-avversario di Jean-Paul Sartre, lo scrittore perplesso, ipnotizzato dall’assurdo ma allergico a qualsiasi ideologia, veniva letto come un «cattivo» maestro o un vate, un ideologo. Non era un’operazione riduttiva. Nei suoi ultimi anni – intrappolato nelle cerimonie di una società letteraria a cui non apparteneva veramente – Camus forse si era smarrito, ma la sua indole autentica restava un’altra. In tutta la sua opera c’è un appello costante alla rivolta e al rifiuto del mondo così come il mondo viene e il mondo va, e quegli studenti questo l’avevano capito molto bene. Poi il tempo passa e cambiano le prospettive, gli orizzonti.
Non dobbiamo negare l’evidenza. Oggi Camus è diventato un santino rassicurante (il profeta dell’onestà intellettuale, l’apostolo di un’improbabile e falsa atarassia), e la sua immagine va rimessa in discussione, ribaltata. Rileggere questi suoi scritti politici – schiettamente libertari, mai noiosi e scontati, mai codini – può essere francamente sorprendente. Nei suoi momenti migliori, più convinti, Camus è sempre l’autore (scandaloso) de Lo straniero e de L’uomo in rivolta. Le sue pagine più belle sono esortazioni sovversive, inviti – carichi di urgenza ma senza false garanzie, senza ricette – a una ribellione necessaria. «L’uomo che si rivolta» è «un uomo che dice no», ma mentre scaglia il suo rifiuto intransigente in faccia al mondo è anche capace di tracciare una «frontiera» e dire «sì». Le cose cambiano, d’accordo, ma il paradosso teorico da cui Camus faceva scaturire l’intero progetto teorico de L’homme révolté adesso è più vero che mai, e più preciso.
Camus, allora, se la prendeva con «l’assurdo» e a volte sembrava combattere contro i mulini a vento o contro un’ombra. L’assurdo, quest’idea elusiva a metà strada tra Heidegger, l’esistenzialismo da bar e la teologia, poteva essere tutto e niente, e a tratti era soltanto chiacchiera, esorcismo. La storia, il corso del mondo, la società – ai suoi tempi – più che assurdi erano sin troppo spietatamente malati di logica, bloccati in un assetto rigido imposto dal demone della politica, sterilizzati da un lucido delirio di dominio, potere, sopraffazione, ideologia. Non c’era niente di assurdo in quello schema e nella cupa stagione del totalitarismo; assurda – irriverentemente assurda e disperata – semmai era proprio l’ostinata ricerca di gente come Camus, Orwell, Macdonald, Chiaromonte di un impossibile «terzo campo» capace di far saltare la situazione data e riaprire i giochi.
Oggi l’assurdo è diventato vita quotidiana e la sfida di Camus ritorna in primo piano con un’impellenza diversa e sconcertante. Le formule del passato si trasfigurano in fotografie inquietanti del presente. Un mondo e una società senza opzioni di riserva, alternative; un solo universo-spettacolo risolto in gesti, abitudini, stili di vita e consumo perfettamente uniformi, omologati; un’idea di successo che fa schifo e un contesto sociale che non ha rimedi, scappatoie: cosa c’è di più assurdo, e scoraggiante, di un orizzonte (politico, sociale, culturale) così omogeneizzato, così blandamente insulso e repressivo? Pensiero unico, globalizzazione, trionfo del capitalismo (per mancanza di nemici seri, di avversari), esaurimento della Storia nel pigro magma della Comunicazione o di una Società-Spettacolo totale: cambiano le etichette – e gli esorcismi – ma non cambia, davvero, la sostanza.
Da troppi anni l’intera esperienza politica e sociale dell’Occidente presuppone la rinuncia a qualsiasi immagine di trasformazione complessiva e un’adesione – a volte tacita, più spesso molto convinta, molto complice – agli schemi del presente e alle sue leggi. Se ci sono stati segnali in controtendenza, sassolini nell’ingranaggio, voci fuori dal coro (o un po’ stonate), è stato quasi soltanto per gioco o per errore. Alla politica non è il caso di chiedere niente, o quasi niente, e l’avventura del movimento no-global è una storia di ieri che sembra già un’incerta leggenda, mitologia. Guardiamo il mondo e niente sembra scalfire l’inevitabile noia di una resa: siamo un po’ tutti assuefatti, complici, imbolsiti; siamo un po’ tutti sotto anestesia. Dire «no», quindi, imparare a disobbedire, guardare le cose sotto una luce diversa e andare via. In un contesto tanto avvilente e avvilito, così smorto, la lezione sobria e piuttosto elementare di Camus si rivela clamorosamente sovversiva.
Da qualche parte si dovrà pur cominciare, in fin dei conti, e per farsi «stranieri» al presente e sabotarlo intanto bisogna riuscire a dire di no, tirarsi fuori. «La coscienza nasce dalla rivolta», afferma Camus, e prima ancora che all’azione ci invita semplicemente a risvegliarci. Ma da quell’atto di pura negazione, da quel fastidio, possono nascere anche storie diverse, alternative. L’uomo in rivolta nega e mentre nega afferma qualcosa, scende al fondo di se stesso, riesce a trovarsi e a inventarsi daccapo, si rinnova («esiste in ogni rivolta un’adesione intera e istantanea dell’uomo a una certa parte di sé»). In termini molto semplici ed essenziali,
Camus dice una cosa tremenda e impegnativa: la rivolta non è un’opzione o una scelta come tante ma un dovere assoluto, imperativo. Chi non sa dire di no – alla società che lo circonda, a uno schema sociale anchilosato, alle sirene ambigue del successo o anche a forme di protesta invecchiate, di maniera – non è degno di stare al mondo; non esiste.
È un impulso libertario che non si arena nell’improbabile santificazione di un comodo individualismo narcisista. Chi contrappone al Camus della ribellione lo scrittore «solidale» de La peste non ha capito gran che del suo lavoro. Dall’insofferenza metafisica che diventa rivolta, fuga, negazione, non scaturisce solo un altro tipo di uomo ma un nuovo modo di agire e di incontrarsi. Scrittore politico anche quando contesta la politica, Camus ragiona sempre in termini di trasformazione cosciente e radicale del presente. Orfano senza rimpianti dell’ideologia, la sua scelta di campo è molto netta: «Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta».
Anche questo messaggio nella bottiglia è arrivato in porto, in qualche modo. Senza i conforti di nessuna teologia-politica, senza dottrine, regole, ricette, dobbiamo ripensare la politica apartire dal suo scacco irrimediabile. Non ci sono soluzioni valide per tutti e non ci si salva da soli o tutti insieme. Davanti al quadro oppressivo del presente, l’unica speranza è costruire comunità parziali, minoranze capaci di separarsi con audacia dall’andazzo dominante per costruire spazi forse solo temporaneamente liberati, isole di resistenza, piccole controsocietà fraterne e ribelli.
Nel gesto della rivolta c’è anche quest’apertura imprevista agli altri e una scommessa. «Mi rivolto, dunque siamo» azzarda Camus e spariglia di nuovo le carte, alzando il tiro. È una presa di posizione capitale: «In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del ‘cogito’ nell’ordine del pensiero, è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo».

Vittorio Giacopini