Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Volodia esiste

È un reticolato di storie d’amore quello che voglio raccontarvi per penetrare l’aura di leggenda che circonda vita e memoria del principe dei bardi russi, Vladimir Vysotskij.
Scontò sulla sua pelle un’ostilità cupa, uno strato di silenzio, terribile quanto quello che subì il suo maestro Bulat Okudžava. Rispetto a Bulat, però, Vladimir era caratterialmente molto meno corazzato per muoversi nel mare ghiacciato in cui la vita lo cacciò. Okudžava era ironico, sfuggente, la sua tensione lirica volava spanne sopra il fango. L’amarezza era parte della sua filosofia di vita, così gli fu più facile conviverci.
Vysotskij era un lottatore, un disperato, un attore che si appassionava a ogni personaggio, che si immedesimava in ogni dramma della vita, in fuga da sé stesso, dal proprio uomo nero. Della vita trangugiava i calici più amari, voleva restare in piedi a tutti i costi sulle macerie, in mezzo al disastro, affrontando la tempesta a capo scoperto. Era un piccolo principe, un bambino, un soldato della poesia.
Una sporca guerra mai dichiarata, ma che in Russia – fra suicidati, fucilati, morti in campo di concentramento, internati nelle cliniche psichiatriche, ha mietuto molte vittime – il potere combatte contro la poesia, contro la follia creativa. Volodja per temperamento più che per ideologia fu sempre in prima linea dalla parte dei poeti.
Era un uomo affamato di vita e votato alla sventura. Visse poco e male, fu alcolista e morfinomane, morì a quarantadue anni. “Canta ancora”, scrisse Okudžava in una dedica privata, scatenando quell’onda d’amore che l’ha reso conosciuto, se non noto, anche in Italia.

Sergio S. Sacchi, una delle anime più colte del club Tenco di Sanremo – cui Okudžava aveva partecipato nel 1985 – andò a salutarlo in una successiva apparizione di Bulat a Torino. In quell’occasione si fece autografare un libro uscito nel nostro paese nel ’72: Canzoni russe di protesta, una fondamentale antologia, organizzata e tradotta dal professor Pietro Zveteremich, coi testi dei 3 bardi Okudžava, Galic e Vysotskij.
Okudžava, molto sorpreso che un libro del genere esistesse (in Unione Sovietica sarebbe stato impensabile), mise da parte la sua proverbiale discrezione – “Si diventa molto discreti quando si hanno tutti i fucilati e deportati che ha avuto Bulat in famiglia!” ci siamo detti con Sergio – e vi scrisse sopra una commovente dedica, anche a nome dei due poeti morti. Mi racconta Sergio “Lui era l’unico rimasto vivo e parlava anche a nome degli altri due. La cosa mi ha violentemente toccato. Nascono sempre da momenti d’amore le cose. Quella sera sono partito e ho detto: “Cazzo, devo far conoscere questo Vysotskij”.
Partì dunque all’approfondimento di questo personaggio impossibile. Vera anima russa, il folle sacro che scompigliava l’idea di rigore immutabile e impenetrabile che questo immenso paese doveva, per decreto, dare di sé.

Vladimir Vysotskij

Cassette vendute sottobanco

Volodja, figlio di un militare di carriera e di un’interprete di tedesco, era nato in uno dei periodi più tremendi della storia sovietica, il 1938, l’epoca di quelle feroci epurazioni, fucilazioni e internamenti che distruggeranno per sempre la famiglia e la felicità di Okudžava.
Fu bambino durante la guerra e adolescente nel clima falso e miserabilmente trionfalistico di dopo, quando veniva portato a passeggio da un padre col petto coperto di medaglie. La Russia si promuoveva allora a superpotenza, al prezzo della fame e dello sfruttamento del suo popolo. Volodja era già un alcolizzato di tredici anni. A quindici conosceva il gergo della malavita e i codici dei bassifondi moscoviti. A venti se ne andava da casa cercando di dare un grande futuro alla sua vocazione teatrale.
E teatrante fu, fra i più grandi della sua epoca, nel teatro Taganka di Jurij Ljubimov, un teatro paragonabile per importanza innovativa al Piccolo di Milano negli anni di Strehler. Di quel teatro Vysotskij fu il primo attore fino alla morte, interpretando tanti ruoli fondamentali, nel Pugaciov di Esenin, nel Galileo di Brecht, nel Giardino dei ciliegi di Checov, e infine nel celebratissimo Amleto, i cui panni Volodja portò in tournée per l’Europa intera.
La sua faccia divenne popolare in Russia per una serie di mediocri film che lo confinavano nel solo ruolo del cattivo, ma la sua voce popolare lo era già da un pezzo. Dischi in patria gliene hanno fatti fare ben pochi, comunque in numero del tutto inadeguato alla sua fama, un buon numero delle sue migliori canzoni le ha incise per il mercato estero, in Francia o in Canada.
Ma sono state le cassette registrate in incontri privati o nei pubblici concerti, vendute sottobanco e riprodotte – di copia clandestina in copia clandestina – a raggiungere ogni sperduto angolo del suo immenso paese e ad essere portate persino dai cosmonauti in orbita. Volodja è stato senza dubbio il cantautore più popolare del mondo slavo, la sua opera ha scatenato deliri identificativi degni di un’icona del ’900. Passeggiando per le vie d’ogni contrada dell’immenso paese, udiva con grande soddisfazione la sua voce uscire da ogni finestra dischiusa. Tutto inorgoglito tornava a scrivere nel suo appartamento di tre stanze. Alla sua morte gli operai di Sverdlovsk decisero di versare una giornata del loro salario per il fondo del Museo Vysotskij.

I versi di Volodja, come quelle di Brel, si nutrono di interpretazione, ne sono agitati e resi incandescenti. Questo cantante/attore può risultare un po’ arcano e grezzo al gusto intellettualino occidentale, sconvolgere per la plebea varietà del suo entusiasmo.
Gli eroi della canzone poetica sono in genere i marginali, i bambini, i matti, i poeti e gli artisti trasformati dall’ennesima guerra in soldati, insomma i fiori del male che popolano le canzoni di Brassens, come quelle di de André o di Okudžava. La curiosità del popolano Vysotskij è attratta invece da ogni modo estremo di vivere: numerosissime le sue canzoni sugli sportivi corridori, saltatori, lanciatori di pesi, pugili, alpinisti. Le canzoni su queste figure sono permeate da un eroismo, da una tensione che è pura energia esistenziale, i personaggi che le popolano non sono proiezioni dell’autore, ma è l’autore che sembra farsi rabdomante della loro esperienza. Volodja ha l’entusiasmo selvaggio dell’immedesimazione fino allo spasimo, se si arriva a trarre una morale dai suoi racconti è una morale a posteriori, abbastanza inessenziale. Ciò che conta è il piacere del racconto.

Sei, sette litri di vodka. Al giorno

Persino le canzoni del suo ciclo della guerra non si possono definire canzoni antimilitariste, ma proprio canzoni della guerra. Il punto di vista dello stesso Bulat Okudžava su questo tema appare più soffuso, fiabesco – cosa paradossale visto che Bulat in guerra c’è stato, mentre Volodja, nato nel ’38, no – ma Bulat scrive della propria guerra, la vede attraverso i suoi occhi di poeta, la racconta con la sua voce, che non è quella di nessun altro – a scanso di equivoci diciamo anche che attinge a vette di poesia più alte – mentre Vysotskij si mette nella pelle e nei panni di coloro che parlano per voce sua, molti e diversi. Alla fine è ben percepibile la condanna della tragedia bellica, come l’amore per la vita, proprio attraverso il racconto corale di questo catalogo degli umani che sono le sue circa mille canzoni. L’ironia vi è presente, certo, ma anche l’esaltazione e l’eroismo.
La sua poetica tutta è come dominata da uno strano esistenzialismo forsennato, da un presagio cupo e vitalissimo al contempo.
Vysotskij non è un selvaggio: le sue forme sono curate e le reminiscenze letterarie accertabili – cita Esenin e Majakovskij e venera Puskin – ma tutto il suo atteggiamento interpretativo è punk-rock e forse è per questo che ha esercitato un vero richiamo delle folle, anche se i mezzi che gli sono stati concessi hanno reso impossibile una vera comunione.

Vysotskij si brucia in pochi anni. Non è un normale alcolizzato che beve regolarmente, a intervalli sempre più brevi lui si getta come un bolide nell’autostrada dell’autodistruzione, quando lo assale una crisi, e comincia a ubriacarsi, scompare alla vista del mondo, si perde in luoghi sordidi, e sono sei, sette litri di vodka al giorno, per due o tre giorni di oblio, di vomito, di sangue, di morte.
La moglie Marina Vlady – famosa attrice francese di origine russa che lui ha prima sognato dagli schermi, poi è riuscito a conquistare e sposare – tenta di tutto per strapparlo alla sua disperata furia autodistruttiva e forse riesce a guadagnargli qualche anno mettendo a repentaglio la propria stessa salute.
Ma nulla si può contro una tale ansia divorante, nutrita dalla condizione di poeta fantasma in cui il governo lo costringe. I visti, le suppliche, i viaggi negati e qualche volta concessi, cento volte gli allungano la vita e mille gliela accorciano. La fine giunge il 25 agosto del 1980, durante le olimpiadi di Mosca. Ufficialmente una crisi cardiaca, ma qualcuno ogni tanto sussurra anche di un ipotetico assassinio del KGB, preoccupato che Vysotskij – che sempre più spesso trascorreva periodi in Francia – potesse trasformarsi nel più scomodo dissidente possibile. Assurdo, Vysotskij adorava la sua terra e a suo modo – nonostante tutto – ne era un patriota inscalfibile.
Certo è che la notizia della sua morte viene goffamente occultata, ma il corteo funebre che lo segue diventa la manifestazione spontanea più gigantesca di tutta la storia sovietica.

Vladimir Vysotskij

Al Club Tenco

Tutto questo scopre Sergio Sacchi una dozzina d’anni dopo. L’amore riporta in vita il poeta. Sergio riesce a convincere i soci del Premio Tenco a dedicare l’intera manifestazione a Vysotskij, questi prima nicchiano, poi si entusiasmano. L’amore ha un potere immenso, frenetico, contagioso, quell’anno non si parlerà d’altro. Senza alcun accordo esce in quei giorni anche un millelire di Stampa Alternativa dedicato a Volodja. Gli artisti italiani, di solito così individualisticamente poco inclini ai mischiamenti, vengono convinti dalla passione di Sacchi e compagnia a incidere un disco con versioni italiane delle canzoni di Volodja: Guccini, Flaco Biondini, Capossela, Branduardi, Vecchjoni, Finardi, Ligabue, Giorgio Conte, Paolo Rossi, Milva, Mingardi, Cristiano de André sono gli interpreti del Volo di Volodja, che resta un’operazione esemplare e unica nel suo genere.
Con lo stesso titolo, viene pubblicata anche una biografia/antologia, accompagnata da un CD che compila il meglio dalle registrazioni francesi dell’autore. La serata della rassegna, quasi interamente all’insegna di Vladimir, viene trasmessa in diretta dalla RAI. La presenza di Marina Vlady garantisce un marchio di commozione e onestà. A distanza di tre lustri il Club Tenco dedicherà di nuovo, nel 2008, una manifestazione a Volodja, con nuove interpretazioni, convegni e incontri.
Il cerchio continua a riaprirsi e chiudersi.

“Non mi lasciano esistere”

Ancora vent’anni prima di Sergio Sacchi, fingendo indifferenza e col terrore nel cuore, un grande slavofilo – a suo rischio e pericolo – aveva esportato i nastrini segreti e diffusissimi delle canzoni di Okudžava, Vysotskij, Galic per pubblicarle in un libro che verrà edito da Feltrinelli. Si chiamava Pietro Zveteremich – ne abbiamo accennato più su – e non era nuovo a operazioni di questo genere: era stato lui che era riuscito a convincere Pasternak a fargli “trafugare” il suo capolavoro proibito, Il dottor Zivago. “Arrivederci al giorno della mia fucilazione” lo aveva salutato il futuro premio Nobel, consegnandogli il manoscritto.
Il coraggio, la foga di vivere sono passioni forti e generano amore, e l’amore può tutto. Era di quello stesso Zveteremich il libro – Canzoni russe di protesta – che passò dalle mani di Sergio Sacchi a quelle di Bulat Okudžava. Il resto ve l’ho raccontato.
“Non mi lasciano esistere” ripeteva affranto Volodja, riferendosi alla burocrazia che impediva i suoi recital ponendolo d’ufficio “in malattia”, che negava la pubblicazione al suo più insignificante verso su carta, che dimenticava di distribuire i suoi dischi per decenni interi.
Chi è che oggi non esiste?

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it