Rivista Anarchica Online


storia

“Siam del popolo gli Arditi”
di Andrea Staid

 

Furono uno dei fenomeni più interessanti (e di breve durata) del primo antifascismo. La storiografia non se n’è occupata molto. Un libro recentemente edito da La Fiaccola ne ripercorre la storia. E ne propone una rivalutazione.

Fondati a Roma gli ultimi giorni di giugno del 1921 da una scissione dell’Associazione nazionale Arditi d’Italia, per iniziativa dell’anarchico Argo Secondari (ex tenente dei reparti d’assalto nella prima guerra mondiale), gli Arditi del popolo si proposero di opporsi manu militari alla violenza delle squadre fasciste. Dopo mesi di spedizioni punitive, le masse popolari colpite dallo squadrismo accolsero la loro nascita con entusiasmo. Il moltiplicarsi dei crimini fascisti, portarono le classi proletarie a vedere concretizzarsi nella nuova organizzazione quella volontà di riscossa che trasse origine soprattutto negli strati meno politicizzati della classe lavoratrice dal puro e semplice istinto di sopravvivenza. La comparsa degli Arditi del popolo rappresentò indubbiamente, per il proletariato italiano, il fatto eclatante dell’estate 1921. Sia costituendosi ex novo che appoggiandosi alle sezioni della Lega proletaria (l’associazione reducistica legata al PSI e al PCd’I) o a formazioni paramilitari preesistenti (quali gli Arditi rossi di Trieste o i Figli di nessuno di Genova e Vercelli), si aprirono in tutta Italia sezioni di Arditi del popolo, pronte a fronteggiare militarmente lo squadrismo fascista. Il nuovo governo, presieduto da Ivano e Bonomi, guardò al fenomeno ardito popolare con estrema preoccupazione, poiché la comparsa delle formazioni armate antifasciste rischiava di affossare l’ipotesi della realizzazione di un trattato di tregua tra socialisti e fascisti, quello che fu, nemmeno un mese dopo, il “Patto di pacificazione”, fortemente desiderato dal presidente del Consiglio.
Il 6 luglio 1921, presso l’Orto botanico di Roma, ebbe luogo un’importante manifestazione antifascista alla quale presero parte migliaia di lavoratori e la cui eco arrivò fino a Mosca: la “Pravda” del 10 luglio ne fece infatti un dettagliato resoconto e lo stesso Lenin, favorevolmente colpito dall’iniziativa e in polemica con la direzione bordighiana del PCd’I, non ebbe dubbi a indicarla come esempio da seguire. Dopo questo imponente raduno, la struttura paramilitare antifascista divenne, nel volgere di pochi giorni, un’organizzazione diffusa capillarmente. Le linee di espansione dell’associazione seguirono, principalmente, le direttrici che dalla capitale conducono a Genova (Civitavecchia, Tarquinia, Orbetello, Piombino, Livorno, Pisa, Sarzana, La Spezia) e ad Ancona (Monterotondo, Orte, Terni, Spoleto, Foligno, Gualdo Tadino, Iesi). Ma anche in molti altri centri al di fuori di queste due vie di comunicazione gli Arditi del popolo riuscirono a costituirsi in gruppi numericamente consistenti. Rilevanti furono, a riguardo, quelli del Pavese, di Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Vercelli, Torino, Firenze, Catania e Taranto. Ma anche in alcuni centri minori gli Arditi del popolo riuscirono ad organizzarsi efficacemente. Prendendo in considerazione le sole sezioni la cui esistenza è certa, l’organizzazione antifascista risultava strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppavano quasi 20 mila aderenti. Insieme alle adesioni arrivarono anche i primi successi militari: le difese di Viterbo (che vide la cittadinanza stringersi attorno ai militanti antifascisti per respingere l’assalto degli squadristi perugini) e di Sarzana (nei cui scontri restarono uccisi una ventina di fascisti), organizzate dagli arditi del popolo dei due centri, disorientarono e incrinarono la compagine mussoliniana: le due anime del fascismo individuate da Gramsci, quella urbana – più politica e disponibile alla trattativa – e quella agraria – essenzialmente antipopolare e irriducibile a ogni compromesso – giunsero a un passo dalla scissione.
Ma, violentemente osteggiati dal governo Bonomi, gli Arditi del popolo non ricevettero, tranne qualche eccezione il sostegno dei gruppi dirigenti delle forze del movimento operaio e nel volgere di pochi mesi ridussero notevolmente il loro organico, sopravvivendo in condizioni di clandestinità solo in poche realtà tra le quali, Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno; città in cui riuscirono, con risultati differenti, a opporsi all’offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale “legalitario” dell’agosto 1922. Già nell’autunno precedente, comunque, l’azione congiunta di governo e Magistratura aveva dato i suoi frutti: le sezioni dell’associazione si erano ridotte a una cinquantina e gli iscritti a poco più di seimila.

Se le forze politiche popolari...

Il motivo di questa brusca battuta d’arresto non va però ricercato solamente nell’atteggiamento delle autorità. I provvedimenti bonomiani contro i corpi paramilitari (che danneggiarono le sole formazioni di difesa proletaria) (1), le disposizioni prefettizie, gli arresti, le denunce e lo stesso atteggiamento della Magistratura (ispirato alla politica “dei due pesi e delle due misure”), non sarebbero stati possibili o comunque pienamente efficaci se le forze politiche popolari avessero sostenuto, o quantomeno non osteggiato, la prima organizzazione antifascista. Ma esse, per ragioni differenti, abbandonarono al proprio destino la neonata struttura paramilitare a tutela della classe lavoratrice.
Tolta la piccola Frazione terzinternazionalista, Il PSI, il principale partito proletario, oltre a fare propria la formula della resistenza passiva, si illuse di poter siglare un accordo di pace duraturo con il movimento mussoliniano (il cosiddetto “patto di pacificazione”),e con la quinta clausola di questo patto, dichiarava, la propria estraneità all’organizzazione e all’opera degli Arditi del popolo:

Ogni azione, atteggiamento o comportamento in violazione a tale impegno e accordo è fin da ora sconfessato e deplorato dalle rispettive rappresentanze. Il partito socialista dichiara di essere estraneo all’organizzazione e all’opera degli arditi del popolo, del resto risulta già dallo stesso convegno di quest’ultimi, che si proclamavano fuori da tutti i partiti.
Colto alla sprovvista dalla loro comparsa, ma propenso ad opporre forza alla forza, anche il Partito comunista decise di non appoggiare gli Arditi del popolo poiché, a detta del Comitato esecutivo, costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria), dunque, insufficientemente rivoluzionario. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all’interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo – definiti infondatamente “avventurieri” e “nittiani” – dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari.
Il 14 luglio del 1921, un comunicato dell’esecutivo del partito avvertiva i militanti, in sostanza, di non lasciarsi trasportare dalla foga della lotta antifascista, partecipando a iniziative esterne al partito comunista italiano; piuttosto li invitava a pazientare in attesa che venissero emanate disposizioni ufficiali circa l’inquadramento in gruppi comunisti:
Poiché intanto – recita il comunicato – sorgono in diversi centri italiani iniziative di tal genere (di organizzazione e preparazione rivoluzionaria) da parte di elementi non dipendenti dal Partito Comunista, e delle quali il Partito Comunista non è ufficialmente partecipe né responsabile, si avvertono tutti i compagni di restare in attesa di tali disposizioni, prima di creare fatti compiuti locali che ostino con le generali direttive adottate dal Partito.
Nello stesso comunicato si sottolineava inoltre che:
L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito. La preparazione e l’azione militare esigono una disciplina almeno pari a quella politica del Partito Comunista. Non si può obbedire a due distinte discipline.

Il sette agosto un ulteriore comunicato dell’Esecutivo nazionale troncava ogni residuo dubbio circa i rapporti con l’Arditismo popolare, invitando i comunisti che ancora si trovavano nelle fila degli Arditi del Popolo ad uscirne immediatamente, per inquadrarsi solo nelle squadre comuniste. Il comunicato, reso necessario dalla disattenzione delle precedenti disposizioni, iniziava con un fermo richiamo alla disciplina di partito, rivolto a tutti i militanti che avevano partecipato, o addirittura organizzato, formazioni estranee al partito con esplicito richiamo agli Arditi del Popolo.

Parma, agosto 1922 – La barricata degli Arditi del Popolo di
Borgo Rodolfo Tanzi (foto Archivio dell’Istituto storico della
Resistenza e dell’Età contemporanea di Parma
)

I fatti di Sarzana

Moltissimi comunisti (tra cui anche qualche dirigente e, all’inizio, lo stesso Gramsci) non accettarono simili disposizioni e restarono all’interno degli Arditi del popolo o proseguirono nell’azione di collaborazione e/o appoggio.
Il 19 luglio dalle colonne dell’“Ordine Nuovo”, in un articolo non firmato ma attribuibile a Gramsci, commentava così la formazione degli arditi del popolo:

È un sintomo della nuova situazione che si viene creando. Anche gli strati più politicamente arretrati del popolo italiano, anche molti di quegli ex combattenti ai quali durante la guerra si erano fatte tante promesse e che si erano lasciati illudere ed avevano abboccato all’amo della fraseologia patriottarda, si rivoltano contro la violenza reazionaria. Ecco perché sono sorti gli arditi del popolo, ecco perché dal formarsi di questo nuovo organismo si può dedurre che il popolo italiano si sforza di compiere il primo atto di fede nelle proprie forze dopo lo scoramento e lo sbandamento, di dare la prima prova di vitalità e di energia che preannuncia lo scatto contro la stretta soffocante della reazione.
Gramsci, dopo aver proposto una sorte di milizia popolare per ogni quartiere, aggiunge che gli Arditi del popolo:
Potrebbero efficacemente coadiuvare le squadre operaie scaglionandosi in punti prestabiliti in ogni rione per intervenire, in caso di necessità.
Commentando i fatti di Sarzana afferma senza indugi che:
ci sono intere popolazioni che insorgono, senza distinzioni di partiti politici popolari; il prete fa suonare la campana a storno, mentre la donna prepara l’olio bollente e gli uomini si armano di tutto ciò che possa colpire, formano squadre di difesa…
Nel luglio del 1921, con l’eccezione del Lazio, del Veneto e della Federazione giovanile, per quanto riguardava i repubblicani, e del Parmense e di Bari, per sindacalisti rivoluzionari e legionari fiumani, le forze politiche della “sinistra interventista” si orientarono quasi subito anch’esse verso soluzioni di autodifesa che escludevano la confluenza o la collaborazione con gli Arditi del popolo. Anche queste formazioni preferirono organizzare l’autodifesa a livello partitico, teorizzando, nella maggioranza dei casi, la perfetta equidistanza tra “antinazionali” (anarchici, socialisti e comunisti) e “reazionari” (fascisti, nazionalisti e liberal-conservatori).
L’unica componente proletaria che sostenne apertamente l’arditismo popolare fu quella libertaria. Si trattava di un’area composita e numericamente consistente, al cui interno vi erano anime tra loro assai diverse. In ogni caso, sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana furono, per tutto il biennio 1921-22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. A differenza delle varie organizzazioni della sinistra, gli anarchici, sia come movimento che come singoli individui sostennero ed affiancarono l’azione degli Arditi del popolo, o quantomeno, non mostrarono alcuna intenzione di ostacolarla.
Il contributo libertario alla lotta armata antifascista incontrò però ostacoli, innanzitutto nella frammentarietà, nella non-omogeneità del movimento anarchico e anarcosindacalista. Inoltre, il mantenimento di una propria specificità rivoluzionaria tenne lontani dall’immedesimazione con gli Arditi del popolo, movimento, quest’ultimo, al di là delle eventuali intenzioni rivoluzionarie dei singoli componenti, mirante esclusivamente ad arginare le violenze fasciste per ristabilire l’ordine democratico, senza contare poi, la diffidenza propria degli anarchici verso organizzazioni di stampo militare, come, appunto, quella dell’arditismo popolare.
A metà agosto del 1921, il consiglio generale dell’Unione Anarchica Italiana riunitasi a Roma, non mancò di criticare le forme militaresche ed accentratrici degli Arditi del popolo e di esprimere timori per le possibili influenze politiche su di essi, ma
in sostanza […] tutti concordano nel considerare simpaticamente questo movimento che non può essere anarchico ma neanche avversario degli anarchici finché non vi siano ragioni plausibili.
All’unanimità venne approvata la seguente dichiarazione:
il consiglio generale dell’ UAI (adunato in Roma il 14-15 Agosto) senza entrare in merito all’organizzazione interna degli Arditi del popolo, che è indipendente ed autonoma di fronte a tutti i partiti, e quindi anche di fronte all’ UAI;
esprime la sua simpatia e riconoscenza per l’opera di difesa da essi compiuta a vantaggio delle libertà proletarie e popolari; ed augura loro di restare immuni da ogni infiltrazioni di borghesi e di politicanti, sempre vigili in difesa della libertà e della giustizia.
Questa attenzione rivolta al nuovo movimento, fu determinata anche dal fatto che esso appare la messa in pratica sul terreno militare della tattica del fronte unico, da tempo sostenuta dagli anarchici organizzati nell’UAI.
Per fronte unico gli anarchici intendevano un legame prettamente rivoluzionario, che sarebbe dovuto partire dal basso, a livello locale, fra individui anche appartenenti a partiti politici diversi, ma con un obiettivo minimo comune: dar vita ad un esercito proletario capace di
vincere le resistenze armate statali per poter organizzare la vita su basi che non siano quelle attuali.

Parma, agosto 1922 – Una barricata degli Arditi del Popolo di
Borgo Maradolo (foto Archivio dell’Istituto storico
della Resistenza e dell’Età contemporanea di Parma
)

Il sostegno degli anarchici

Gli Anarchici decisero di appoggiare gli Arditi del popolo sia a livello teorico sia prendendovi parte attiva, pur mantenendo la propria specificità. Non si riscontrarono pretese di monopolizzare tale movimento, come invece, in alcuni casi, erano emerse tra i comunisti. Al contrario, fu la reciproca autonomia, pur nella lotta contingente comune, a rimanere un punto fermo.
Decisioni che un anno prima erano state prese al congresso di Bologna, nel luglio 1920, che affidavano ai suoi militanti all’interno degli organismi unitari delle precise indicazioni:

i gruppi anarchici, che sono rivoluzionari, devono fiancheggiare, facilitare, sussidiare con i propri mezzi l’opera degli specialisti gruppi d’azione; svolgere una propaganda che crei intorno a questi l’atmosfera più favorevole possibile; criticarne qualche errore eventuale in modo di non screditarne o ostacolarne l’attività in generale, svolgere la propria attività di partito, di critica e di polemica, in modo da evitare risentimenti, collere fra le varie fazioni operaie, ma orientarle tutte contro la borghesia e lo stato;essere a disposizione dei gruppi d’azione per aiutarli ogni volta che ve ne fosse necessità. A lotta iniziata, i gruppi anarchici parteciperanno all’azione perché questa azione si svolga quanto più rivoluzionariamente e liberamente è possibile, in modo di espropriare al più presto i capitalisti ed esautorare ogni governo; vecchio o nuovo che sia.
Secondo gli anarchici le condizioni materiali e morali dell’esistente vanno rovesciate tramite l’azione rivoluzionaria delle minoranze coscienti; compito degli anarchici è prendere parte a questa azione e in un secondo momento, cercare di impedire che si ricostituiscano forme di autorità e nuovi governi, per lasciare corso alla libera evoluzione della società, senza imposizioni di volontà particolari. Malatesta scrive:
Se è ammesso il principio che l’anarchia non si fa per forza, senza la volontà cosciente delle masse, la rivoluzione non può essere fatta per attuare direttamente ed immediatamente l’anarchia, ma piuttosto per creare le condizioni che rendano possibile una rapida evoluzione verso l’anarchia.
Dato che la rivoluzione non può essere immediatamente anarchica, perché le grandi masse non sono state ancora conquistate a questi ideali, il compito degli anarchici sarà dunque:
cercare quello che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà presente.
Con gli arditi del popolo gli anarchici avrebbero potuto iniziare il cammino che, partendo dalla sconfitta del fascismo, sarebbe poi potuto andare oltre, intraprendendo la strada della rivoluzione sociale.
Il partito comunista al contrario, sicuro dei suoi scopi e sostenuto da una fiduciosa visione dell’evolversi della storia, non concepì la rivoluzione se non come comunista e come instaurazione della dittatura del proletariato. Boicottò quindi l’azione degli arditi del popolo, deciso a non scendere a compromessi con le forze non perfettamente allineate al suo pensiero e alle sue direttive.
Per gli anarchici battersi contro il fascismo comporta inevitabilmente la lotta contro il primo responsabile delle sue violenze: il sistema politico ed economico capitalista.
Dopo l’allineamento di Gramsci e de “L’Ordine nuovo” alle direttive del partito, il quotidiano anarchico “Umanità Nova” rimane l’unica voce proletaria a perorare la causa degli Arditi del popolo, seguendo passo passo le vicende del nuovo movimento, pubblicando i loro manifesti ed appelli, dalla loro nascita fino alla morte dell’organizzazione antifascista nel 1922.

Andrea Staid

Note

  1. Con il “Decreto legge per il disarmo dei cittadini”, tra le altre cose (revisione delle licenze di porto d’armi, sospensione di ogni beneficio previsto per i reati legati agli episodi di violenza politica, ecc.), si proibiscono esplicitamente le “passeggiate in forma militare con armi” e il porto, fuori della propria abitazione, di mazze ferrate, bastoni forniti di puntali acuminati, sfollagente di qualsiasi forma e dimensione (cfr. la circolare del 3 ottobre1921 ai prefetti del regno, in Archivio Centrale di Stato, Bonomi, 1921-22b.1, fasc. 4). Come ha osservato De Felice “I risultati politici di questi provvedimenti furono però assai scarsi. Il problema del fascismo non era più un problema di polizia”. (R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 204).

I numeri dell’organizzazione
12 sezioni laziali (con più di 3.300 associati) primeggiavano con quelle della Toscana (18, con oltre 3.000 iscritti). In Umbria gli Arditi del popolo erano quasi 2.000, suddivisi in 16 sezioni. Nelle Marche erano quasi un migliaio, in 12 strutture organizzate. In Italia settentrionale, la diffusione del movimento era significativa in Lombardia (17 sezioni che inquadrano più di 2.100 Arditi del popolo), nelle Tre Venezie (15 nuclei per circa 2.200 militanti) e, in misura minore, in Emilia Romagna (18 sezioni e 1.400 associati), Liguria (4 battaglioni e circa 1.100 Arditi del popolo) e Piemonte (8 e circa 1.300). Nel Meridione le sezioni erano 7 sia in Sicilia che in Campania, 6 in Puglia, 2 in Sardegna e solo una in Abruzzo e in Calabria, mentre gli iscritti erano circa 600 in Sicilia, poco più di 500 in Campania e nelle Puglie, quasi 200 in Abruzzo e poco meno in Calabria, 150 in Sardegna.
I simboli degli Arditi del Popolo
Al pari della struttura tecnico-militare, anche i simboli della prima organizzazione antifascista derivavano dall’arditismo di guerra: un teschio cinto da una corona d’alloro e con un pugnale tra i denti con sotto scritto in caratteri maiuscoli; “A noi!” era il simbolo dell’associazione.
Il timbro del direttorio era costituito invece dal pugnale degli arditi, circondato da un ramoscello di alloro e uno di quercia incrociati. Effigi allora in gran voga e non certo patrimonio esclusivo dei Fasci di combattimento o delle forze politiche di destra. In qualche caso, come a Civitavecchia, il gagliardetto degli Arditi del popolo (una scure che spezza il fascio littorio) esprimeva invece più chiaramente la ragion d’essere dell’organizzazione.
Anche se non si può parlare di una vera e propria divisa, gli Arditi del popolo, come del resto la quasi totalità dei giovani militanti dei partiti politici dell’epoca, ne avevano genericamente una: indossavano un maglione nero, pantaloni grigio-verdi e, a volte, portavano una coccarda rossa al petto. Molti Arditi del popolo infine, durante scontri e combattimenti, si proteggevano il capo con gli elmetti Adrian.
Gli inni dell’organizzazione ricalcavano anch’essi, per musica e testi, i motivi dell’arditismo di guerra. Dell’inno “ufficiale”, cantato sull’aria di quello degli arditi “Fiamme nere”, è conservata copia nelle carte di polizia.
“Siam del popolo – le invitte schiere/ c’hanno sul bavero le fiamme nere/ Ci muove un impeto – che è sacro e forte/ Morte alla morte – Morte al dolor”,
recita il ritornello; mentre l’ultima strofa dichiara programmaticamente:
“Difendiamo l’operaio/ dagli oltraggi e le disfatte/ che l’Ardito, oggi, combatte/ per l’altrui felicità!”
Nel settembre 1921 l’organo dell’associazione, “L’Ardito del popolo”, pubblicò invece un’altra versione dell’inno più esplicitamente antifascista. Sull’aria di “Giovinezza”, i primi versi della canzone recitano così:
“Rintuzziamo la violenza/ del fascismo mercenario./ Tutti in armi! sul calvario/ dell’umana redenzion./ Questa eterna giovinezza/ si rinnova nella fede/ per un popolo che chiede/ uguaglianza e libertà.”

 

Dibattito storiografico

Nel secondo dopoguerra, l’antifascismo sconfitto degli Arditi del popolo è stato relegato ai margini della storiografia. Tra le ragioni di questa parziale rimozione, vi possono essere quella delle origini e della natura della prima associazione antifascista (permeata da miti arditistico-dannunziani, successivamente fatti propri dal fascismo, e, al contempo, attestata su posizioni genericamente rivoluzionarie) e quella della difficile autocritica degli attori di allora (dalle istituzioni alle forze politiche e sociali) le quali non compresero appieno la portata del fenomeno fascista e che, tranne qualche eccezione, ostacolarono la diffusione dell’antifascismo del 1921-22.
Tra i pochi storici specialisti del movimento operaio, del combattentismo o del fascismo, che si sono occupati del fenomeno ardito popolare si sono fatte strada diverse linee interpretative all’interno delle quali sono presenti varianti sostanziali.

La prima interpretazione (Paolo Spriano, nel testo Storia del partitio comunista edito nel 1967, Ferdinando Cordova, nel testo Arditi e legionari dannunziani edito nel 1969 e infine Marco Rossi con il testo Arditi non gendarmi edito nel 1997) sostiene che il movimento sia sorto in stretto legame con l’arditismo di trincea e lo spirito dannunziano (valutati come fenomeni, se non rivoluzionari, quantomeno non reazionari.) Gli Arditi del popolo sarebbero dunque una espressione di quel sovversivismo irregolare, di stampo piccolo borghese, che nel corso del biennio rosso seguì una traiettoria inversa da quella fascista.
Spriano considera gli Arditi del popolo una meteora nel cielo incandescente della guerra civile, sottolinea l’infuocato clima italiano al termine della prima guerra mondiale ed il carattere di fugace apparizione, ma anche di concreta visibilità del movimento. Lo storico afferma che forse gli Arditi del popolo rappresentarono la grande occasione mancata dell’antifascismo militante prima della marcia su Roma. Infine, evidenzia l’aspetto spontaneo del movimento e il fatto che nel giro di pochi giorni esso mutò natura, fino ad offuscare le origini combattentistiche.
Rossi afferma che gli arditi del popolo nacquero in continuità con l’esperienza dell’arditismo di guerra, anche se quasi subito riuscirono ad assumere un carattere popolare e spontaneo. Lo storico espone una valutazione critica della storiografia, distingue e pone sotto accusa due grandi famiglie storiografiche, una legata alla destra, l’altra alla sinistra. Per la prima, infatti,

Rimane inammissibile che degli ex combattenti, per di più volontari dei reparti d’assalto, non solo si sottrassero alla strumentalizzazione mussoliniana dal loro disagio di reduci, ma vi si opposero anche con le armi, contendendo al fascismo, assieme alle bandiere nere, l’eredità “spirituale” dell’arditismo di guerra;
per la seconda:
gli Arditi del popolo restano un fenomeno non compreso e guardato con sospetto sia per il loro passato militarista, sia per il carattere “esrtemista” che assume la loro azione.
Lo studio dei documenti, conferma lo stretto legame dell’arditismo popolare col combattentismo. Non solo l’organizzazione, non sorse e non si sviluppò spontaneamente, ma i suoi principali dirigenti furono effettivamente ex combattenti (per lo più ufficiali di complemento), molti dei quali inquadrati proprio nei reparti d’assalto.
Se è vero che la crescita degli Arditi del popolo avvenne, come afferma Rochat:
rompendo i ponti con l’arditismo, mito e movimento di troppo angusto respiro,
è altresì vero che i legami con la matrice combattentistica andavano oltre il semplice mito.Tali legami, lungi dall’essere recisi, sono testimoniati, oltre che dalla fraseologia tipicamente “ardita”dei documenti interni e pubblici, dalla struttura prettamente militarista dell’associazione antifascista e dagli innumerevoli episodi resistenza organizzati con criteri che implicavano una certa conoscenza delle tecniche di combattimento e una forma di organizzazione militare, sino ad allora estranea al movimento operaio italiano.
Occorre soffermarsi sulla tesi sostenuta da Del Carria, che negli anni ha ottenuto una notevole importanza in ambito storiografico, la quale parte dal presupposto che negli anni in cui si crearono le prime formazioni Ardito Popolari il movimento operaio e contadino era ormai definitivamente sconfitto in Italia.

L’autore sottolinea che:
Scrivere la storia degli Arditi del Popolo vuol dire scrivere la storia dell’antifascismo militante fuori degli schemi della democrazia parlamentare borghese.
Ripensare agli “Arditi del Popolo” significa svalutare la politica del Partito Comunista d’Italia che viene presentata come unica antitesi al fascismo. Tutti i partiti della sinistra ufficiale non vollero avvallare in nessun modo tale movimento, anzi affermarono sempre e in ogni occasione di voler dividere ogni loro responsabilità da quanto veniva compiuto dagli Arditi antifascisti.
Eros Francescangeli scrive che l’aver subordinato il politico al militare è forse il principale errore dell’organizzazione ardito-popolare. Tuttavia nell’Italia del 1921-22, ben pochi tra i “teorici” del movimento operaio hanno saputo valutare il fenomeno fascista per quello che era:
Agli arditi del popolo e ai loro organizzatori va comunque il merito di aver combattuto fin dall’inizio e per primi quella peste bruna che nel giro di pochissimo tempo avrebbe contagiato l’Europa e il mondo, lasciando dietro di sé una lunga scia di morte e terrore.
Ci sono alcune interpretazioni che tentano un recupero in chiave democratica dell’arditismo popolare, facendolo apparire come una resistenza ante litteram, si veda per esempio la ricerca di Ivan Fuschini che presenta gli Arditi del popolo come non legati ad una sola classe.
Non concorda con questa versione Francescangeli che afferma:
A differenza della lotta di liberazione dal nazifascismo, l’opposizione allo squadrismo intentata dagli arditi del popolo venti anni prima non è inscrivibile nel contesto della contrapposizione tra democrazia e totalitarismo, ma si colloca interamente nello scontro sociale , prima che politico fra partiti, leghe, associazioni del movimento operaio da una parte e classe dominante dall’altra.
La lotta degli Arditi del popolo nel 1921-22 è stata quindi la battaglia di una classe sociale attaccata nelle sue conquiste economiche e politiche da una compagine che vedeva le forze borghesi raccolte in un fronte unico che andava dai social-riformisti di Bonomi ai nazionalisti. La resistenza è stata invece altro pur con contenuti molto differenti a seconda dell’appartenenza politica, combatteva (in un contesto più ampio di scontro tra potenze) per la liberazione del territorio nazionale e per l’instaurazione di un ordinamento democratico, in una prospettiva indubbiamente interclassista.

A. S.


Leggere gli arditi

Ecco quattro libri sugli Arditi del Popolo:

Luigi Balsamini, Gli arditi del popolo. Dalla guerra alla difesa del popolo contro le violenze fasciste, Galzerano editore, Casalvelino Scalo 2002.
Eros Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1922), Odradek, Roma 2000.
Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! Dall’arditismo di guerra agli arditi del popolo 1917-1922, BFS edizioni, Pisa 1997.
Andrea Staid, Gli Arditi del Popolo. La prima lotta armata contro il fascismo, edizioni La Fiaccola, Ragusa 2007.


Pagina tratta dal volume: “il canto Anarchico in Italia nell’ottocento e nel novecento”,
di Santo Catanuto e Franco Schirone, edizioni Zero in Condotta, Milano 2001.