Rivista Anarchica Online


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Esistiamo anche noi!

Siamo un gruppo di compagni comunisti e anarchici della sinistra libertaria e antagonista.
Siamo gay, lesbiche, bisessuali, trans.
Siamo d’accordo con coloro che lottano per un processo di liberazione globale a 360°: dalla precarietà, dallo sfruttamento; contro l’attacco ambientale, contro l’imperialismo, contro lo strapotere del vaticano e dei politici asserviti; per i diritti degli immigrati e delle donne.
Molto spesso, tuttavia, riscontriamo, ancora oggi, che nei documenti e nelle lotte della sinistra di classe non viene dato sufficientemente spazio alla rivendicazione dei nostri diritti.
La maggior parte di noi subisce una tartassante violenza psicologica in famiglia, episodi di bullismo a scuola, sorrisetti e battutine per strada (solo perché leggermente effeminati o per qualche manifestazione d’affetto in pubblico). Per non parlare delle vili aggressioni fasciste e/o di bastardi intrisi di “cultura” omofoba: ultimo anello di una campagna di menzogne prive di fondamento scientifico, diffuse dai vertici della gerarchia vaticana, da politici di centro-destra, con la compiacenza della sinistra.
Molti ragazzi, ritenuti malati dai genitori, vengono portati a forza dallo psicologo. Esistono psichiatri e psicologi cattolici che applicano le cosiddette “terapie riparative” e che, considerando l’omosessualità una malattia, pretendono di cambiare l’orientamento sessuale di una persona (vera e propria violenza!). Ricordiamo che questi sedicenti psicoterapeuti, che spesso sono legati ai settori più retrivi delle gerarchie ecclesiastiche, agiscono contro il codice deontologico.
Fin dai primi anni ’70 la voce “sindrome omosessuale” è stata cancellata dai manuali mondiali di classificazione delle malattie mentali e viene considerata come una forma della natura umana, a pari dell’eterosessualità.
La sofferenza nasce dalla non accettazione personale a causa di un’educazione familiare distorta e di una società “intrisa” in gran parte di pregiudizi. Tutto questo perché manca una vera educazione sessuale nelle scuole e perché i mass media divulgano, in gran parte, valanghe di bugie e calunnie. Inoltre ricordiamo che gli omofobi più incalliti sono proprio coloro che non accettano e hanno paura della propria parte omosessuale, che tutti abbiamo in maniera più o meno sviluppata.
Particolarmente toccante è la situazione dei transessuali, persone che fin dalla prima infanzia si ritrovano un Corpo maschile o femminile ed una Psiche del sesso opposto; per cui si sentono prigionieri/e dentro un involucro che sentono estraneo e persino ostile (alcuni si rappresentano come una “donna” o un uomo “incatenati”).
La sofferenza dei trans è doppia: 1) per il motivo sopra esposto; 2) perché ancora più degli omosessuali sono sempre riconoscibili e quindi scherniti con maggiore frequenza.
Spesso non vengono assunti nei posti di lavoro e sono rifiutati dai proprietari quando chiedono una casa in affitto. Per cui, per molti l’unica strada rimane “il marciapiede”.
Il processo di transizione M F e F M è un calvario, sia dal punto di vista fisico che psicologico, il quale richiede un grande coraggio e una forte determinazione.
Vanno rispettate e tutelate anche le persone che raggiungono un loro equilibrio mediante il travestitismo o una transizione incompleta.
I trans in Italia non hanno diritto a cambiare nome e generalità finché non hanno raggiunto l’operazione finale. Inoltre sul documento devono risultare riconoscibili mostrando foto inerenti al proprio sesso biologico.
Parecchi gay si limitano a frequentare pubs e discoteche a tematica omosessuale. Molti frequentano anche i principali centri LGBT, per conoscersi, accettarsi, fare amicizie. Tuttavia il rischio è la ghettizzazione.
Il problema è che la lotta della comunità LGBT è indirizzata esclusivamente al riconoscimento dei propri diritti.
Quest’anno c’è molta rabbia e delusione, soprattutto nei confronti di un centro-sinistra, compresa Rifondazione Comunista, che non ha mosso un dito per paura di perdere il voto di qualche bigotto. Tuttavia ancora rimane la tendenza a votare per questo o quel politico che cavalca la tigre delle nostre rivendicazioni esclusivamente per fare carriera e assicurarsi la poltrona, percependo stipendi che, noi miseri mortali, ci possiamo solo sognare.
Vi chiediamo, dal momento che ci siete stati vicini in varie occasioni, di appoggiarci con più forza, costanza e tenacia, nei prides, in tutte le manifestazioni per i diritti civili, nei sit-in, negli articoli di giornali, di riviste, nei volantini…
Molti di noi non si sentono più rappresentati da nessuno ed hanno deciso di non votare per protesta.
Solo alcuni di noi non votano, non solo perché i partiti non sostengono i nostri diritti, ma per principio, rifiutano la delega e credono nell’Autorganizzazione e nella Democrazia Diretta.
Pensiamo che l’aspirazione ad un mondo diverso si ottenga solo mediante un processo di liberazione globale: dal capitalismo, dalle politiche imperialiste, dalla devastazione ambientale (ecologia, animalismo…); con la lotta per i diritti civili di donne, omosessuali, bisex, trans, transgender, immigrati…
Nonostante queste classificazioni, siamo tutti “persone” che vanno rispettate e tutelate.
Per questo chiediamo a tutte le organizzazioni di base di appoggiare la nostra lotta affinché non venga “risucchiata” dai soliti partiti e partitini, che si interessano solo dei diritti civili, ma hanno sempre osteggiato quelli dei proletari.
Pensiamo sia il caso di invitare esplicitamente le persone a non votare, ma a praticare l’astensionismo attivo, ovunque sia possibile: nei posti di lavoro, nelle scuole, nei centri sociali.

A pugno chiuso!!!
Compagni/e Gay, Lesbiche, Bisex, Trans, Transgender
liberta.di.amare@gmail.com

 

A proposito della rivoluzione

Amici di «A»,
La lettura dell’articolo Pensare la rivoluzione, apparso nel numero di marzo della rivista a firma Maria Matteo, ha suscitato in me alcune riflessioni che intendo sottoporvi.
L’Autrice lamenta, a mio parere assai giustamente, quanto la lotta contro l’offensiva dei potentati economici e dei loro mandatari politici (e il contestuale e sapientemente orchestrato ripullulare della tabe razzista, con annesse velleità coloniali), riesca spesso in qualcosa di più apparente che improntato alla concretezza, tanto da lasciare il senso che ogni iniziativa finisca per contenersi alla «dimensione testimoniale», alla denuncia, a un «parlarsi addosso» tra happy few e finanche a un bambinesco compiacimento della coreografia, le rare volte in cui la protesta giunga ad attingere proporzioni «di massa», come accadde giustappunto all’inaugurazione della sciagurata impresa irachena.
È proprio così; ma quali soluzioni proporre? Maria Matteo vagheggia «luoghi dove si passi dalla resistenza al progetto, dove la negazione dell’oggi si coniughi alla costruzione del domani», e individua nella val di Susa del movimento No-Tav l’esempio paradigmatico di una sia pur embrionale realizzazione dei suoi auspici. Con la rivolta del 2005, infatti, si sarebbe prodotta quella «rottura dell’ordine simbolico» in grado di «mettere a nudo i meccanismi del potere, ma anche la sua vulnerabilità e il suo non poter prescindere dal consenso se non sprofondando la società nel terrore»; le barricate, le assemblee, la resistenza alle violenze poliziesche divennero allora il tramite per l’acquisizione «dell’inebriante consapevolezza di voler prendere in mano il proprio destino senza tutele e senza rappresentanze»; e ciò conseguentemente a un lungo processo di persuasione e maturazione collettiva il quale, tuttavia, senza la scintilla della rivolta stessa non avrebbe forse mai avuto luogo, destinato a «imbrigliarsi nelle maglie della compatibilità istituzionale». Last but not least, la vittoria conseguita (il tempo dirà fino a che punto… vittoriosa) non può che essere il corroborante ideale, per dei supposti «rivoluzionari che pensano che l’etica dei vinti e dei martiri sia la più efficace e coinvolgente».
Che vivano dunque la Rivoluzione e la Rivolta, la Piccola e la Grande Narrazione; dieci, cento, mille val di Susa!... E però come biasimare chi, con dubitativi scuotimenti di capo, ricordi sin troppo bene quanto la storia del Movimento rivoluzionario sia purtroppo stata un susseguirsi di vampate d’entusiasmo puntualmente rivelatesi malriposte? Si pensi soltanto, per citare la più macroscopica, ai moti del caroviveri e all’occupazione delle fabbriche del 1920: mobilitazioni enormi giudicate da Destra e da Sinistra, quando ancora in atto, preludio di un imminente crollo del sistema borghese. Eppure in capo a un paio d’anni Mussolini sale al governo, e le masse rintanatesi sul più bello appaiono improvvisamente ai commentatori impreparate, prive di mentalità rivoluzionaria, atavicamente gregarie, mai disposte ad uscire dall’ambito del rivendicazionismo economico spicciolo. Ora, per quanto buffo si sia rivelato al cospetto dei fatti il revirement di analisti titolatissimi (leggere le testimonianze dell’epoca per credere), è chiaro che il sangue versato in guerra, il malcontento generale, la fame ecc. autorizzavano aspettative elevate. Ma, dico, la val di Susa? Ma la Vicenza della Dal Molin? Certo, sentirsi lesi nel diritto alla salute, alla quiete, alla tenuta del valore delle proprietà immobiliari o fondiarie ha imbizzito i miti valligiani - ed è già molto, non accettare di farsi trattare come pupazzi dai grandi maneggioni e padroni del vapore. Col risultato, però, che alla cassa del «consenso» lucrerà elettoralmente in loco e per breve stagione qualche cartello partitico (magari la cosiddetta Sinistra Arcobaleno) e così tutto sarà presto bell’e che finito.
Insomma, poiché l’esperienza storica ci insegna che la natura non opera balzi (e purtroppo neanche la cultura), in quelle alpestri contrade la «scossa» della rivolta avrà tutt’al più contribuito a scalfire il quadro etico-politico di pochi individui già predisposti all’emarginazione; il grosso resta e rimarrà un impasto imbelle di abiti mentali servopadroneschi e qualunquistici, e negarlo significa indulgere a certo malinteso ottimismo antropologico che vizia dalle origini il pensiero libertario: il medesimo ottimismo che porta tuttoggi, su scala ridotta, a confidare appunto in un «evento» suscitatore di illuminazioni collettive, riproponendo in tal modo aspettative messianiche sul modello di quelle che gli Anarchici - come opportunamente rammenta la Matteo nell’explicit del suo articolo - vollero e seppero svincolare dai destini di un ipotetico soggetto storico, fosse esso il Proletariato o che altro.
Senza circonlocuzioni e ambagi, mi sento dunque d’affermare che alla Rivoluzione meno si pensa e meglio è; e che ai miti insurrezionali, piuttosto che dotarli di una coloritura irrazionalistica e capricciosa, sarebbe meglio riservare un posticino nella soffitta della Storia, onorando tuttavia l’eroismo di chi in altri tempi v’immolò la propria esistenza.
Meglio non pensarci, alla Rivoluzione; nemmeno ridotta a semiaccessoria condizione scatenante. E già che ci siamo, meglio accogliere con risolini di dileggio i troppi «rivoluzionari» pantofolai i quali, affardellati in assetto di guerra, infestano Internet di analisi prolisse tese a dimostrare come l’ineluttabile crisi del sistema apporterà ben presto un cataclisma favorevole all’azione risolutiva (e siamo ancora e sempre all’attesa del BIG ONE - che poi s’è sempre rivelato prodromico all’avvento di Grandi Guerre, del Partito-Demiurgo e del Redentore-Capo).

Ridimensionati a termini trascurabili il valore palingenetico e l’effetto dinamizzante di ogni possibile futuro sommovimento, resta nondimeno valida la domanda se si dia «un luogo ove si passi dalla resistenza al progetto»; ma per affrontare la pars construens devo intraprendere, con venia del Lettore, un’apparente digressione di carattere personale.
Ebbene, io tra qualche anno (se queste righe non si riveleranno autojettatorie) erediterò un gruzzoletto di alcune centinaia di migliaia di euro. E sarei deciso a investirlo associandomi con altri, disponenti di capitale o anche solo di un buon orientamento morale e buona volontà, per dar vita a un’azienda cooperativa. E non intendo la solita comune di fricchettoni scoppiati: dico un esercizio, un’azienda che produca o smerci efficientemente non ho idea cosa, gestita e posseduta dai lavoratori stessi, e che nel tempo sappia espandersi abbastanza da poter accogliere altri lavoratori ansiosi di liberarsi del giogo insopportabile del padrone e dalla tentazione di farsi padrone a proprio turno.
Già a questo punto alcuni diranno: «Tutto qui? Eeh, ma ’sta roba sarà mica l’Anarchia…».
Invece per me si tratta proprio dell’hic Rhodus dell’intera faccenda: questo e non altro mi pare il passaggio al concreto e all’azione. Finora sono stato anarchico e comunista ottativamente, ma prima di crepare, che diamine!, voglio provare ad esserlo nei fatti. Datemi una «realtà» infima in cui rischiare del mio, in cui occorra (in allegria, possibilmente) quotidiana abnegazione, e voglio vedere se non mi guadagno i galloni! E come me tanti altri vorrebbero mettersi in gioco, e anzi attendono l’occasione di dimostrare a sé stessi e al prossimo (giacché alte sono le probabilità di fallire) di non essere soltanto dei folli impratici e parolai.
D’altronde, lo si voglia o no, il contesto «macrosociale» non permette l’applicazione di quei principî libertari cui tributiamo una formale fedeltà; di conseguenza il fine del cambiamento, ossia di una «rottura dell’ordine nel quale siamo immersi», non può attingersi che all’interno di un microordine alternativo, per via di un lavoro certosino su sé stessi e nel confronto quotidiano con i sodali. La condivisione di un progetto etico-economico è insomma l’«evento» di cui abbiamo bisogno, perché soltanto fronteggiando i conflitti intestini e i problemi organizzativi, discutendo e stabilendo obiettivi, spendendosi di volta in volta nella ricerca della soluzione meno dubbia si può costruire il luogo dell’esercizio di un’analisi critica sottoposta alla verifica pratica (il che tra l’altro mi pare immunizzare dal rischio di scriteriato spontaneismo e/o avventurismo cui va purtroppo spesso soggetto chi è malcontento dell’esistente).
Tutto ciò, aggiungo, non sarebbe rinchiudersi nel proprio privato o volersi porre come avanguardia - tanto più che si opererebbe pur sempre sul mercato - ma, ripeto, agire: innanzitutto per creare semplicemente (programma minimo) cellule produttive intese a generare felicità fra i loro membri; e in secondo luogo (programma massimo), per farle proliferare, associare tra loro e crescere fino a comporre una catena diffusa di relazioni sociali ed economiche, un principio di Antistato nello Stato (e possibilmente transnazionale,ove bastassero forze, volontà e fortuna). Tenendo d’occhio le stelle fisse dell’egualitarismo e di una produzione responsabile e sostenibile, oso inoltre credere che non mancherebbe l’opportunità di garantirsi le simpatie di clienti-sostenitori appartenenti al bacino, frammentato ma tutt’altro che esiguo, della Sinistra gravitante intorno a centri sociali, librerie, riviste, radio libere, gruppi d’acquisto ecc. Le riviste, e soprattutto i siti, dovrebbero poi svolgere un ruolo di cassa di risonanza e centrale di scambio d’esperienze e diffusione del «know-how» (mi si perdoni il barbaro vocabolo). Già oggi, sia detto per inciso, si trovano qua e là saltuari ragguagli circa tentativi in atto di autogestione e commercio «etico» (in Francia, Spagna, scandinavia, Israele vi sono anzi realtà consolidate, e pure di singolari casi argentini s’è avuta in questi anni notizia): ma il fatto che i resoconti non risultino mai troppo informati, né mai si trovino supplementi d’approfon­dimento che seguano nel tempo il corso di una singola vicenda, la dice lunga sul disinteresse che circonda la materia; e chi, non privo di nozioni giuridiche o di gestione aziendale o semplicemente curioso, volesse saperne di più, rimane deluso - e del resto bisogna pur dedicare il dovuto spazio a progetti strategici, piattaforme e risoluzioni epocali, geremiadi nombrillistiche, vaticinî farlocchi, invettive, vaniloqui pseudoletterari ecc….

Qualora insomma la gran parte della nostra attività si concentrasse nella sullodata direzione, e se mai pian pianino si riuscisse a mettere insieme alcunché di solido, dignitoso e «ben oliato», chissà che persino tra le masse cretinizzate da scuola e media non possano emergere vieppiù frequentemente individui persuasi dagli esiti, disposti ad apportare il loro contributo.
Tali speranzose ipotesi e soluzioni, che certo non pretendono a vette di novità od originalità teoretica, non mi paiono confliggere con l’atteggiamento sanamente pessimistico indicato sopra, se è vero che rassegnarsi all’inevitabile è sempre la conseguenza di un dogma, giacché l’intelletto esige di conoscere soltanto il risultato sperimentale. Dunque si sperimenti: se vogliamo, facciamo (cose realisticamente possibili e pratiche), se no ci fottiamo.
Quanto poi al rischio del settarismo virtuistico, al punto in cui siamo, lo si affronti comunque, purché si eviti quello dell’inconcludenza; ed è per ciò che un Movimento Anarchico presente e dinamico mi sembra oggi più che mai indispensabile alla preparazione intellettuale-spirituale e al conforto di chi cerca una via regia al mutamento della società (e su questo sottoscrivo integralmente quanto sostenuto dalla Matteo in garbata polemica con Francesco Codello sul numero 311 di «A»). Né – ed è l’ultima precisazione – con quanto detto voglio sminuire il valore della lotta «sul campo» e della testimonianza, utili non foss’altro che a tener sulle spine i padroni e a renderli avvertiti che non proprio ogni cosa è loro accordata e vilmente rimessa sul proverbiale vassoio d’argento.
Così termino e vi saluto con stima.

Angelo Bray
(Milano)

 

 

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Piero Bertero (Cavallermaggiore – Cn) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Giuseppe Lusciano, 500,00; Davide Ponti (Milano) 10,00; Rosanna Ambrogetti e Franco Melandri (Forlì) 25,00; Giuliano Galassi (Monteprandone) 4,00; Antonio Abbotto (Sassari) 10,00; Santi Rosa (Novara) 10,00; raccolti alla presentazione del Dvd sullo sterminio nazista degli Zingari a Castelnuovo neì Monti (Re) il 25 febbraio scorso, 200,00; Enore Raffuzzi Fiorentini (Imola) 150,00; Circolo ARCI “Settima Generazione” (Tremezzo – Co), grazie a Paolo Finzi per la serata Rom di sabato 23 febbraio alla Biblioteca di Lenno (Co), 50,00; Francesco Zappia (Gioiosa Marea – Me) 70,00; Giulio Canziani (Castano Primo – Mi) 20,00. Totale euro 1.117,00.

Abbonamenti sostenitori.
(quando non altrimenti specificato, trattasi di 100,00 euro). Fabio Palombo (Chieti); Gianluigi Botteghi (Rimini); Lucia Sacco (Milano); Enore Raffuzzi Fiorentini (Imola – Bo). Totale euro 300,00.