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Sotto il tallone del Generalissimo

Con la presa del potere, nella primavera del 1939, da parte del generale Franco e delle forze nazionalfasciste, la tragica epopea della guerra civile spagnola avrebbe dovuto avere termine, secondo logica, in breve tempo. Ma purtroppo non fu così, e infatti la vittoria della reazione fu seguita immediatamente dalla feroce e sanguinaria repressione che avrebbe visto in pochi anni decine se non centinaia di migliaia di esecuzioni sommarie del nemico. Di questo argomento si è sempre parlato vergognosamente troppo poco, perché una Spagna baluardo anticomunista negli anni della guerra fredda era troppo preziosa per permettere una eccessiva curiosità sulle efferatezze commesse da Franco e dai suoi carnefici.
Alla morte del Generalissimo, per sopramercato, la burocrazia complice del regime si affannò a fare scomparire dagli archivi di polizia e dei tribunali i documenti che registravano la macabra contabilità delle uccisioni di massa, per cui solo la coraggiosa ricerca storica di un pugno di studiosi ci consente, oggi, di sapere qualcosa di più e di più preciso. Massimiliano Ilari, nel suo studio preciso e molto documentato (La giustizia di Franco. La repressione franchista ed il movimento libertario spagnolo 1939-1951, Chieti, Centro Studi Libertari, 2005) presenta le cifre più credibili dell’immane massacro perpetrato dal regime a Spagna “pacificata”, cifre che variano dai quarantamila giustiziati secondo le fonti governative, ai quasi duecentomila secondo gli storici più accreditati. Per rendersi conto dell’entità del massacro, basti pensare che, anche se ci si attenesse alla cifra più bassa, si sarebbe pur sempre trattato di dieci – dodici fucilazioni al giorno (tutti i giorni e festività comprese) per sei anni consecutivi. Da ciò si capisce come il cattolicissimo Francisco Franco venisse benevolmente chiamato carnicero (macellaio) o buitre carnivoro (avvoltoio carnivoro).
Come prevedibile, questo feroce desiderio di vendetta e rivalsa che animò i nazionalisti dopo la fine della guerra, anziché pacificare il paese, contribuì a fare sì che la resistenza armata e clandestina del coraggioso proletariato spagnolo continuasse a lungo e trovasse l’ epilogo soltanto nei primi anni Sessanta, allorché la repressione indiscriminata, il rafforzamento del sistema e l’esaurimento di nuove leve evidenziarono la momentanea impossibilità di scalzare il regime. Il fatto poi che le grandi democrazie occidentali cessassero il loro blando boicottaggio e mettessero fine all’isolamento internazionale di Franco, contribuì a fare quasi cessare la lotta antifranchista, fatti salvi i generosi ma sporadici colpi di coda della resistenza. Naturalmente il movimento anarchico, lungi dal considerarsi sconfitto e sempre determinato a fare sentire la propria voce là dove aveva interpretato efficacemente le aspirazioni popolari alla libertà e alla emancipazione dallo sfruttamento, sarà uno dei principali protagonisti della lotta, offrendo ancora una volta la vita e l’energia di tanti dei suoi militanti.

Con naturalezza e credibilità
Di questa semisconosciuta resistenza, degli epici e tragici avvenimenti che segnarono a lungo la vita di intere comunità delle zone pirenaiche ai confini con la Francia, scrive lo scrittore catalano Jaume Cabré, che in un denso e poderoso romanzo (Jaume Cabré, Le voci del fiume, Roma, laNuovafrontiera, 2007) racconta una vicenda che è sì invenzione letteraria ma anche un efficace e convincente quadro, quanto mai attinente alla realtà di quegli anni, delle contraddizioni e della complessità di quanto accadde in Spagna nei primi anni della dittatura. Quando, cioè, il regime, lungi dal potersi sentire forte e tranquillo, doveva affrontare quotidianamente gli attacchi dei suoi più irriducibili avversari. La particolarità del libro, oltre alle notevoli invenzioni stilistiche che ne rendono quanto mai affascinante la lettura, sta anche nella capacità dell’autore di fare interagire, con naturalezza e credibilità, gli aspetti politici della vicenda con quelli umani e sentimentali, nel mostrare come la resistenza o la repressione fossero frutto e conseguenza non solo delle ideologie, ma anche dei vissuti collettivi e individuali.
Siamo ai giorni nostri. Nel corso della demolizione di una vecchia scuola nel paesino pirenaico di Torena, la maestra Tina Bros scopre in una cavità i diari del maestro Oriol Fontelles, nei quali costui racconta alla figlia, che non ha mai visto e che mai conoscerà, la propria imprevedibile verità. Fontelles infatti è ritenuto un eroe della Falange, martire cristiano della ferocia anarchica, trucidato mentre tentava di impedire, nel 1943, la profanazione del tabernacolo nella chiesa del paese. Custode della sua “santa” memoria, e decisa a vederlo “beato”, è Elisenda Vilabrù, potente, gelida e spietata padrona del paese, ma a suo tempo anche tenerissima amante del maestro; una vera autorità, capitalista ricchissima e beneficiaria dell’Opus Dei, legata alle più alte gerarchie fasciste ed ecclesiastiche. Talmente determinata in questa causa di beatificazione del maestro da perorarla direttamente, forte dei suoi soldi, in un incontro alla pari con Wojtila. La grande tragedia della sua vita (tutta la storia, nei suoi rapporti famigliari, ancestrali e sociali ha il ritmo di una grande e ininterrotta tragedia) fu la morte del fratello e del padre, ferocemente giustiziati, all’indomani del 19 luglio 1936, dagli anarchici del paese, decisi a impedire sul nascere l’organizzazione della resistenza fascista nella Catalogna libertaria. Spinta alla vendetta, Elisenda, appoggiandosi ai falangisti del paese, creature tanto mansuete nelle sue mani quanto efferate nelle azioni, farà sì che per lunghi anni un’aura di morte e di cupo dolore aleggi su quel paese dal quale, nonostante le immense ricchezze e disponibilità, non vorrà né potrà mai allontanarsi.
Ma Tina scopre la verità: Fontelles faceva il doppio gioco e, mentre pareva il fedele amico del feroce gerarca Valentì Targa, al punto da esserne creduto complice nella esecuzione del figlio quattordicenne dell’anarchico Ventura, al tempo stesso aiutava il Maquis nelle sue incessanti azioni di resistenza e di disturbo del regime fascista, mettendo continuamente a repentaglio la propria vita, come poi accadrà, per aiutare nella loro lotta gli anarchici e gli antifascisti, montanari del posto, esperti conoscitori del luogo pronti all’azione. La scuola diventerà, ogni notte, ricettacolo di trasmissioni clandestine e ospizio di partigiani e fuggiaschi – particolarmente toccante la storia della famigliola ebrea in fuga dalla Francia invasa dai nazisti – e lui, costretto a tenere nascosta questa doppia identità, non potrà rivelarsi nemmeno alla moglie, che, convinta della sua vigliacca adesione al fascismo, lo abbandona per andare a partorire a Barcellona. Come si è detto, anche i genitori degli alunni, costretti a subire le angherie e i delitti del gerarca, lo considerano, e continueranno a considerarlo fino ai nostri giorni, un detestabile complice del regime. Tragedia nella tragedia, l’impossibilità di gridare al mondo la propria verità non avrà termine nemmeno nel drammatico epilogo, reso ancora più doloroso dal travisamento che verrà volutamente fatto, fino in fondo, della sua memoria.
Alla conclusione si giunge progressivamente, in un fibrillante crescendo di colpi di scena, di continue rivelazioni che non sarà certo il caso di anticipare, per non togliere nulla al fascino del libro. A margine di questa epica storia della Spagna novecentesca, c’è anche l’intrecciarsi di altre storie, di altre vicende, tutte parimenti emblematiche delle profonde trasformazioni che hanno interessato e ancora stanno interessando questo paese così dinamico. Alla fine, comunque, nonostante i tentativi di Tina Bros di far conoscere la verità e rendere giustizia al maestro, nonostante le avversità che Elisenda incontra nel gretto ambito famigliare, indisposto a contribuire alle costosissime spese per la beatificazione, nonostante la consapevolezza della propria mistificazione, la protagonista riuscirà nel suo grottesco progetto di beatificare il maestro anarchico e ateo. E infatti la lapide della sua tomba reciterà: José Oriol Fontelles Grau caido por Dios y por la Patria. E questa paradossale conclusione sembra un chiaro monito che lo scrittore catalano manda a chi oggi partecipa, in modo acritico e bigotto, al tourbillon di beatificazioni che stanno facendo della Spagna un vero e proprio “beatificio”.

Sconosciuta epopea
Costante presenza del libro, dunque, è la coraggiosa resistenza armata antifranchista, soprattutto di matrice anarchica e comunista, che continuò significativamente a farsi sentire fino alla fine degli anni cinquanta, quando solo il progressivo consolidamento del regime, accompagnato dal raffinarsi degli strumenti repressivi e delle infiltrazioni poliziesche, la rese sempre più difficile. Né vanno dimenticate le pesanti divisioni che si erano create all’interno del Movimento libertario in esilio, fra chi si interrogava sulla opportunità di offrire a un inevitabile martirio le migliori energie giovanili, e chi, al contrario, riteneva che solo le continue e incessanti azioni armate nella Spagna fascista tendenti a colpire i responsabili della repressione, potessero sostenere concretamente i tentativi di riorganizzazione della Cnt, risollevando lo spirito libertario e ribelle della classe operaia spagnola e catalana.
Alcuni libri raccontano questa sconosciuta epopea, e lo fanno, come si suol dire, “dal di dentro”, vale a dire con informazioni provenienti da fonte diretta. Lo scrittore spagnolo Antonio Tellez, infatti, protagonista lui stesso di molte delle imprese di cui narra, ha dedicato due preziosi volumi, editi anche in Italia, a due fra i più noti valientes, i combattenti che per anni continuarono a tenere in scacco e rendere quasi impossibile la tranquillità del regime franchista (Sabaté. La guerriglia urbana in Spagna 1945-1960, Ragusa, La Fiaccola, 2005 e Facerias. Guerriglia urbana in Spagna, Ragusa, La Fiaccola, 1984). Si tratta di un vero e proprio squarcio di luce su fatti e avvenimenti che furono volutamente ignorati o rimossi per anni, perché non turbassero il vergognoso processo di cooptazione del fascismo spagnolo al sistema democratico occidentale, a cui ho accennato in precedenza.
È interessante, in queste pagine, leggere anche del sostegno non indifferente che l’anarchismo italiano apportò sistematicamente alla resistenza spagnola. E infatti in Tellez troviamo spesso citati, fra gli altri, i nomi di Franco Leggio di Ragusa e di Goliardo Fiaschi, l’anarchico di Carrara che, dopo essere stato arrestato in Catalogna con Facerias, dovette scontare lunghissimi anni di galera prima in Spagna poi in Italia. Del resto il sostegno degli anarchici italiani si espresse, negli anni successivi, anche in clamorose forme di protesta attuate nel nostro paese. Basterà citare, fra le più significative, l’assalto al Consolato spagnolo di Genova, nel 1949, per il quale furono processati gli anarchici Mancuso, De Lucchi e Busico – azione che incontrò la più completa solidarietà dell’opinione pubblica democratica – il rapimento, nel 1962, del console spagnolo a Roma attuato dagli anarchici milanesi, tra i quali Amedeo Bertolo, Luigi Gerli e Gianfranco Pedron, e inoltre il sequestro, a Roma nel 1966, del consigliere ecclesiastico spagnolo Monsignor Ussia, ad opera di un gruppo di cenetisti iberici aiutati da compagni del luogo.
Tornando alle nostre Le voci del fiume, voglio aggiungere che a rendere ancora più affascinante questo libro, a parte l’argomento per noi così coinvolgente, è la sensibilità con cui viene descritta l’atmosfera che avvolge questo villaggio pirenaico, destinato a diventare una stazione sciistica alla moda, ma ancora immerso in quella ancestralità contadina e montanara nella quale le dure condizioni di vita della popolazione sembravano potessero emanciparsi solo attraverso l’opera degli anarchici. Ed è altrettanto interessante osservare come anche la società spagnola si trasformi inesorabilmente, parallelamente a quanto avviene a Torena, e come l’afflato libertario, a suo tempo inscritto naturalmente nel cuore popolare, sembri diventare qualcosa di estraneo e legato a un passato che non può tornare. Allo stesso modo in cui, nonostante la lucida follia e l’eroica generosità dei resistenti, non poteva tornare l’anarchia, negli anni quaranta e in quelli successivi, dopo che era stata così duramente e ferocemente sconfitta dalla “santa alleanza” dei poteri reazionari. Cabré descrive molto bene questo trapasso, e lo fa senza parlarne direttamente ma limitandosi a registrare i cambiamenti e le evidenti mutazioni sociali e culturali intervenute negli anni. E come cambiano i costumi e gli oggetti, altrettanto cambiano mentalità e pensieri. Rimane solo la volontà della ormai semifolle Elisenda, con la sua grandezza epica e tragica, a ricordare il passato, tenendo viva così, accanto a quella del maestro, anche la memoria della lotta degli anarchici, quasi che la reazione potesse dare un senso a chi si oppose ad essa con tenacia e durezza. Ma anche gli anarchici hanno voluto mantenere viva la memoria del loro passato, delle loro lotte e delle loro aspirazioni. E non con uno sguardo rivolto all’indietro, ma come promessa e speranza per il futuro.

Massimo Ortalli

Il nuovo martire
Mentre cominciava a leggere l’articolo, Tina sentì in sottofondo Maite che chiedeva cos’è, e Joana che rispondeva parla di un maestro di Torena. E Ricard, ah, quello ucciso dal maquis, sì, ne aveva già sentito parlare. E Joana a Maite, dicono che sia stato uno dei grandi fascisti della zona, ed era maestro di scuola, pensa. Allora Ricard storceva il naso e diceva ma questo ci complicherà la vita, se apriamo un altro fronte non arriveremo in tempo all’inaugurazione, e Maite rispondeva, va bene, va bene, casomai ne riparliamo, adesso non ti allarmare. Intanto Tina stava leggendo, in uno stile fiorito, contorto, ufficiale e artificiale, che una settimana prima, il diciotto ottobre millenovecentoquarantaquattro, giorno dell’evangelista san Luca, sapendo che era una giomata in cui avrebbero potuto fare molto danno, una numerosa e potente squadra di maquis ha assaltato tre paesi della zona (Torena, Sorre e Altron) con l’obiettivo di impossessarsi di quella quota e di avanzare da lì senza ostacoli con l’intenzione di bombardare con l’artiglieria pesante la valle della Noguera e la capitale, allo scopo di distogliere l’attenzione delle forze nazionali eccetera, eccetera. Saltò velocemente qualche riga. Qui, qui: ... il coraggioso intervento del maestro di Torena, Oriol Fontelles Grau, che da solo, armato di una pistola di piccolo calibro, ha affrontato la ciurma rossa che voleva penetrare nella chiesa per commettere una profanazione. Oriol Fontelles, il nuovo martire, ha fatto loro fronte dall’interno e li ha tenuti in scacco fino a due ore dopo che le munizioni gli erano finite.

Dalle notizie che abbiamo, ancora agonizzante ha dichiarato al suo amico, il sindaco di Torena, il camerata Valentí Targa, che lo ha accolto tra le sue braccia perché morisse in pace, che aveva resistito per dare tempo alle forze dell’ordine di arrivare a Torena senza problemi e senza che i rossi potessero conquistare una posizione di privilegio. Sapeva, gli ha detto, che dava la vita per salvare altre vite ed era contento di farlo.
Poi il santo guerriero, il maestro laborioso, ha reso l’anima al Signore degli Eserciti del Cielo e della Terra ancora nel fiore della gioventù.
Riposi in pace un eroe e un martire, il falangista Oriol Fontelles Grau (1915-1944). Cavolo.


Disperato, contento, triste
Il Ventureta vide i cinque uomini che facevano la guardia intorno al campo, e quella speranza disperata che suo padre all’ultimo momento saltasse addosso ai cattivi cominciò a svanire, perché era tutto scuro e freddo come l’oblio. Lo fecero scendere, lo portarono verso la parete estema, accanto al primo muro di cinta del cimitero, illuminato solo dai fari della macchina e scoppiò a piangere, a dire non voglio morire, io non so dov’è mio padre. Piangeva ancora mentre lo legavano al ceppo, perché stava imparando che il destino è irreversibile, e gridò forte ho paura, ho paura, ho paura!! Valentí frenò la crisi isterica con un ceffone ben piazzato e gli sputò in faccia che era un vigliacco e che doveva imparare una buona volta a morire come un intrepido, come muoiono gli eroi, porca puttana. Si allontanò e gli puntò contro la pistola che aveva tenuto tutto il tempo in mano e poi disse non ti ammazzerò, vigliacco, volevo solo sapere se saresti stato capace di resistere senza fartela sotto e il Ventureta si mise a singhiozzare, disperato, contento, triste, felice, impaurito; abbassò lo sguardo e chinò il capo. Allora Valentí mirò alla nuca che gli si offriva così bene e sparò due colpi di seguito nel momento in cui il ragazzo alzava di nuovo la testa, e Joan Ventureta smise di singhiozzare, di piangere e di avere paura, per diventare una buona volta, porco giuda, e grazie a me, un individuo coraggioso guercio e morto.


Sotto il naso dei franchisti
Vedi? Questo sono io. Mi disegno allo specchio del bagno della scuola perché tu possa sapere com’era tuo padre. Non credere che stia imbrogliando: sono proprio così bello e attraente. Sono proprio così, perché se c’è qualcosa che so fare bene è disegnare e dipingere. Se mi ci fossi dedicato appieno non sarei venuto qui e non avrei avuto l’occasione dimostrarmi vigliacco davanti a tua madre o intempestivamente temerario.
E adesso vivremmo felici, io ti avrei portata a scuola e ti avrei insegnato a dare da mangiare ai piccioni. E poi, non dovrei fare alcuno sforzo per farmi ogni giorno la barba davanti a uno specchio. Non so più qual è la mia faccia. Ieri ero ufficialmente a letto con la febbre e invece verso sera me n’ero andato sul colle del Triador, per collocarci un’antenna.
Abbiamo creato una rete di comunicazione SoKo il naso dei franchisti e ancora mi stupisco che non l’abbiano scovata. Scendendo in paese ho sentito delle voci e delle grida. I lamenti di Felisa di casa Maria del Nasi e il sollievo di quelli che pensavano era ora, era ora che pagasse per quello che ha fatto. Ho pensato che la cosa più prudente fosse tornare a letto a fare il malato e il giorno dopo scoprire una nuova disgrazia e mostrarmi impassibile al dolore. E così difficile, figlia. Ma una cosa sono le mie previsioni e un’altra quelle di Valentí Targa. Ha fatto venire Balansó, uno dei suoi fedeli, a buttarmi giù dal letto, e all’una di notte ci ha fatto un discorso sulla vita, la morte, la giustizia e che sia chiaro per tutti che quel bastardo di Mauri è tornato da chissà dove per suicidarsi chissà perché all’ingresso del paese. E chi osi dire una cosa diversa mi avrà per sempre come nemico. Mi avete capito bene?
«E Felisa?»


Con passo deciso
«Davvero io...» Oriol guardò Targa, disorientato: «Non so a cosa stai giocando.»
Targa si alzò, rise artificiosamente e disse non gioco, io; smise di ridere all’improvviso e si piazzò davanti a Oriol, borbottando stiamo ancora aspettando.
Rumore all’ingresso della chiesa. Gli uomini di Targa tornavano portando qualcosa che lasciarono davanti a Valentí. Era la radiotrasmittente. Adesso sì, addio, figlia, addio monti, e jug-cinque a farsi benedire. Targa esaminò con attenzione l’apparecchio; gli sfuggì un fischio di ammirazione. Uno degli uomini gli faceva delle confidenze all’orecchio e lui assentiva continuando a esaminare pulsanti e interruttori. Poi prese la pistola di Oriol ed esaminò anche quella.
«Non è il modello che...»
«Quello che usa il maquis» confermò Arcadio Gómez Pié.
Targa si piazzò davanti a Oriol e cominciò a parlare a bassa voce, scandalizzato dalle sue stesse impossibili parole, tu mi volevi uccidere, sei stato tu, bastardo assassino, da dietro, come i vigliacchi; perché, se eri il mio camerata? Perché un colpo alla nuca, io che ti ho dato tutto? Da quando? A che giochi? Chi sei?
La luce della lampadina riflessa negli occhi furiosi di Valentí e in quelli più ansiosi è muti di Jacinto.
«Hai detto che ci sono notizie di movimenti di truppe?»
Valentí Targa lo guardò perplesso, sconcertato.
«Hai capito qualcosa di quello che ti ho detto?» Indicò la radio: «Hai visto che cosa avevi a casa?»
«Non so di cosa mi stai parlando. Perché ti avrei dovuto voler uccidere, io?»
Valentí Targa prese la pistola del maquis, la caricò e la puntò contro la fronte di Oriol. Nel momento in cui stava per sparare si sentì un grido e lo sbattere della porta contro la parete:
«Basta! No! Non lo fare!»
Elisenda entrava e scendeva i tre gradini con passo deciso. Jacinto con buoni riflessi, si ritirava nell’ombra e finì per rintanarsi nel confessionale e Oriol iniziava un sorriso, cominciando a muovere la testa per guardare il suo amore nello stesso momento in cui il dito di Targa premeva il grilletto. Lo sparo risuonò nelle strette volte della chiesa e scoppiò nella testa di Oriol Fontelles che non aveva ancora perso il sorriso e che non ebbe il tempo di certificare erroneamente che sì, moriva per colpa di un caffè corretto, con tanto lavoro che c’è ancora da fare.
«Che hai fatto?»
«Ho obbedito agli ordini.»
«Ti ho detto che...»
«Troppo tardi.»

Jaume Cabré