Rivista Anarchica Online


 

Camminando
lungo il Tesina

Qualche anno fa ho voluto conoscere il mondo percorrendo gli argini dei fiumi dei miei paesi. Posso così raccontare delle storie.
Ho iniziato col Tesina e mi sono subito imbattuta nella direttiva del Magistrato alle acque che, nella zona di Sandrigo, ordinava di sradicare un bosco con centinaia di alberi ( pioppi, olmi, platani, salici, aceri, gelsi e ontani ) alcuni quasi centenari. Era un luogo scelto come rifugio da una grande varietà di uccelli: nei vecchi tronchi nidificava l’allocco, era tornato il picchio rosso, si vedevano garzette, aironi cenerini, cannaiole. “Per far scorrere l’acqua più velocemente” si disse, e soprattutto per evitare che alcuni campi, tradizionalmente destinati a far da bacino di sfogo alle acque del Tesina, venissero allagati. Si modificò pesantemente una zona ad “alta naturalità”, intervenendo sulle anse, rettificandole, rendendo un anonimo canale di scolo ciò che prima era un habitat ricco e variegato.
Per la legge ciò si poteva fare e quindi la vita di quegli alberi venne sacrificata per la miopia di chi non aveva prevenuto con una manutenzione quotidiana e tempestiva.
A distanza di pochi anni passò, in un convegno dedicato al fiume definito “in fase avanzata di malattia”, un contrordine: ”Ripristinare le anse”. Il Tesina, sostenevano i pescatori a mosca e altri tecnici, era sporco, privo delle risorgive, collettore di scarichi, reso artificiale dalle gettate di cemento.( E solo per guadagnare qualche metro di terra coltivabile). “Niente paura! – risposero i politici – Basterà abbandonare le vecchie tecniche e far tornare le care vecchie anse, le curve per mantenere la naturalità dell’ambiente precedente”.
Pier Francesco Ghetti nel suo bel libro “Manuale per la difesa dei fiumi” (ed. Fondazione Giovanni Agnelli) porta l’esempio del Trentino negli anni sessanta. Per recuperare terreni per infrastrutture vennero eseguiti lavori di arginatura, eliminando aree di espansione e depositi alluvionali, creando così nuovi spazi per l’agricoltura e l’edilizia.
Questo mise in seria crisi i torrenti, i cui alvei erano stati rettificati, ristretti e ingabbiati. La soluzione fu il solito “contrordine”: allargare le anse e ripristinare le aree di espansione, intervenire, casomai, con sole tecniche rispettose dell’ecosistema fiume. Proprio come avevamo chiesto a suo tempo all’Autorità del fiume Tesina.
Qualche anno dopo mi sono imbattuta nella roggia Caveggiara che si getta nel Tesina a S.Piero Intrigogna, L’ultimo suo tratto scorre sotto le vetrine del centro commerciale Palladio, in mezzo all’enorme lastra asfaltata (detta ‘parcheggio’) che, insieme alla realizzazione di varie lottizzazioni tra Ca’ Balbi, Bertesinella e Setterà, ha portato alla quasi totale impermeabilizzazione del suolo. I campi che potevano ricevere le acque piovane sono al giorno d’oggi scomparsi.

Per far fronte al maggior flusso idrico il Consorzio di Bonifica aveva avviato lavori di sbancamento e ampliamento con l’immediato sradicamento di centinaia di alberi che costeggiavano il corso d’acqua. Ma, ironia della sorte, le sponde erano già ben “piastrellate” con solide pietre ancora dagli anni Trenta del secolo scorso. I lavori per l’amplia­mento si fermarono, ma la ‘tabula rasa’ era ormai un dato di fatto.
Mi ritrovo ora a fare la conoscenza con il Rio Rèvene, un piccolo corso d’acqua che nasce dalle risorgive di Fontana Fozze a Castegnero, attraversa i campi e si snoda verso il canale Bisatto, delimitando il confine con Nanto. Un tempo questa zona era soggetta saltuariamente a delle esondazioni. Qualcuno dice anche che ci fossero delle risaie. Poi venne la bonifica, poi alcuni fossi vennero chiusi, poi ancora le lottizzazioni…
Il “Rio Rèvene dalle limpide acque” è ora sotto accusa, un’accusa molto pesante. Le sue sponde, i suoi piccoli argini sono riccamente alberati da una fitta siepe. Non solo ‘morari’, ma anche querce, bagolari, olmi, platani, ontani…
Questi filari, reperti di antiche usanze contadine, si vorrebbe ora far sparire per far entrare le ruspe del Consorzio di Bonifica, quello che teorizza la pulizia radicale, la “tabula rasa” per principio. Un habitat naturale, ricco di biodiversità, dove vivono il martin pescatore, l’usignolo, il fringuello, la civetta, dove le anatre fanno il nido, sta per entrare nella fatidica categoria “anonimo scolo di acqua”.
Ma perché, mi chiedo, per fare ordinaria manutenzione di un piccolo e innocuo corso d’acqua, per togliere le ramaglie depositate sul fondo, per sfalciare alcuni arbusti si deve utilizzare un mezzo pesante, un “carro armato” come la ruspa? Sappiamo che fino agli anni sessanta tutti i corsi d’acqua avevano la loro brava “siesa” che ne sosteneva le rive, dava legna per il riscaldamento, offriva rifugio e abitazione ad uccelli e insetti utilissimi anche per l’agricoltura.
Sfalcio e pulizia venivano fatti dai Consorzi con manodopera assunta appositamente. Poi arrivò lei: la ruspa aliena, la meccanizzazione. I vari consorzi di bonifica del Veneto sradicarono in poco tempo migliaia di chilometri di rive alberate. Ma la modernità non risolve i problemi, molto spesso ne crea altri più pesanti. Infatti le rive, non più trattenute dalle radici, si sfaldano, le erbe acquatiche senza l’ombreggiatura delle piante aumentano a dismisura, alimentate anche dai fertilizzanti dei campi. Gli interventi dei consorzi devono per forza aumentare, facendo crescere i costi per la collettività.
È un sistema inesorabile nelle sue direttive strategiche, ma che dimostra sempre più, alla luce delle maggiori conoscenze e di una nuova sensibilità “planetaria”, la sua incongruenza. È facile piangere per le foreste dell’Amazzonia (o del Congo, o del Borneo); è più difficile togliere la ‘routine’ a dei comportamenti obsoleti e devastanti.
I paesaggi di cui abbiamo memoria (e che si possono ancora osservare in luoghi più attenti ad una visione globale del territorio) non prevedevano “il nulla” ad accompagnare i corsi d’acqua, ma delle alberature ripariali ben mantenute secondo la tradizione antica della cultura agricola, ricche di biodiversità e fonti di vita per tutta la campagna intorno. Questa eredità va conservata per le future generazioni.

Elena Barbieri
U.N.A. Uomo Natura Animali

 

Notizie dal
Venezuela

Comincia a circolare il n. 52 di “El Libertario”, nel cui editoriale si riafferma l’impegno di questo portavoce dell’anarchismo venezuelano a mantenere salda una visione critica senza compromessi sulla realtà del paese, nonché la sua proposta di lotta conseguente per la libertà e l’uguaglianza nella solidarietà.
L’anno è appena cominciato e già appare chiara l’agenda elettoralista con la quale di nuovo si tenterà di addomesticare le lotte sociali in Venezuela, una musica che si sta suonando senza originalità, ma con successo, da dieci anni. In vista delle elezioni per la nomina di governatori, deputati e sindaci, previste per il 16 novembre, i politicanti governativi e dell’opposizione sono entrati in campagna elettorale praticamente non appena è stata voltata la pagina del Referendum costituzione del 2-D, riproponendo ingannevolmente di rinviare la risoluzione delle istanze collettive a quando sarebbero stati eletti alle cariche alle quali aspirano. Da una parte e dall’altra si torna a raccontare la storiella, secondo la quale, vista l’importanza di queste elezioni per la “riconquista della libertà” o per “il progresso della rivoluzione”, non ci sarà niente di più importante da fare nel 2008 che favorire la loro vittoria alle urne, dopo di che questi insigni rappresentanti del popolo si occuperanno infaticabilmente e abilmente delle richieste dei loro elettori.
Non sprecheremo parole per spiegare quanto tale proposta sia menzognera, perché di ciò sarà testimone chiunque abbia vissuto in questo paese e sappia per sentito dire o per esperienza ciò che è successo a coloro che sono usciti vittoriosi dalle urne, tra i quali l’unica distinzione che si potrebbe fare è tra gli inetti e i mediocremente inutili, tra i corrotti spudorati e i cauti trafficanti di voti, o tra i tecnocrati simulatori di efficienza e i demagoghi vocianti. In una cosa sono stati tutti uguali ed è nell’impegno a placare (con le buone o con le cattive) tutto ciò che è o appaia come lotta autonoma dei poveri. Né dobbiamo dimenticare due punti chiari del 2-D che tutti tacciono: da un lato, i militari finiscono di consolidare il risultato che deve essere accettato, fregandosene dei kalashnikov, cioè quello della “sovranità popolare che decide liberamente nelle elezioni”, e dall’altro, la dubbia pulizia delle posizioni elettorali creole, esemplificata in quel 15% di verbali e in quel 1.800.000 voti ancora non conteggiati dal cne in questo referendum, ufficiosamente vinto con un margine di 125.000 suffragi.
Poiché la farsa è sempre la medesima e noi spettatori potremmo anche ignorarla, i comici di turno giurano e spergiurano che adesso sì, che questa volta avranno rappresentanti eccelsi, impegnati fino alla morte nella “rivoluzione” o nella “democrazia” (a seconda del frasario di ogni cricca), i quali, inoltre, combineranno un’eroica onestà (a seconda delle preferenze ideologiche: Che Guevara o Madre Teresa) con una gestione efficiente e senza pecche (anche qui, a seconda che si tratti di un manager di una multinazionale o di un commissario alle finanze delle Farc).
Questi striduli canti di sirene sono già cominciati e, siatene certi, aumenteranno nei prossimi mesi, ma i loro contenuti menzogneri diventeranno evidenti, per chi voglia vederli, con la scelta definitiva dei candidati, in mezzo al consueto processo di imposizione dall’alto, trappole settarie e mascalzonate varie, per finire con il favorire gli inevitabili personaggi che da tempo ci fanno il giochino di carta vince/carta perde, insieme a qualche faccia nuova pronta a ripetere la vecchia truffa. Con un simile panorama, non abbiamo alcun dubbio sulla linea che proponiamo e che porteremo avanti per questi tempi, che è la stessa sulla quale insistiamo da anni, le cui manifestazioni concrete e le cui proposte d’azione sono raccolte nelle pagine di questo numero: la ricostruzione dell’autonomia delle lotte sociali, unica via che permetterà alle classi oppresse e sfruttate di fare passi avanti nella risoluzione dei loro problemi attuali. Nove anni sono stati più che sufficienti per rendersi conto che non c’è niente da sperare dal caudillismo messianico incarnato in Hugo Chávez, e i quattro decenni precedenti ci hanno detto quasi la stessa cosa delle burocrazie di partito, oggi all’opposizione; così, il dilemma autentico sta nel chiedersi se continueremo a salire su questo funesto carrozzone elettorale che porta soltanto a un destino di fallimento o se costruiremo un’alternativa, coniugando individualità, collettività e partecipazione consapevole, che non deleghi, ma faccia affidamento sulle nostre capacità, costruendo una organizzazione orizzontale, senza imposizioni autoritarie di alcun tipo, articolando le richieste con le capacità di soddisfarle, presenti nelle collettività. È questa la via, attraverso la quale pensiamo ci sia la possibilità di trasformare il Venezuela in modo radicale e positivo.

Nelson Mendez
nelson.mendez@ucv.ve

(traduzione dal castigliano di Luisa Cortese)