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Dead women walking

Il patriarcato da bar è il modo più semplice cha ha il simbolico patriarcale e maschilista di fare presa e di riprodursi all’interno del discorso comune, della chiacchiera riportata e non ragionata, dello stereotipo senza argomentazione e logicità. Tutto questo si ritrova nell’ultima idea di Giuliano Ferrara, quella di prendere adesioni per una grande moratoria sull’aborto. Ma nell’intento di aprire nuovamente questo discorso stantio c’è anche la malafede di coloro che fanno di ogni discorso un’arma politica contro l’avversario per cui, con il PD debole sulla bioetica e di fronte ad una bella figura internazionale del governo ottenuta con il voto all’ONU sulla moratoria per la pena di morte, Ferrara e altri hanno deciso di strumentalizzare l’aborto per aumentare i malumori nel governo e sperare in un cedimento sui nodi scoperti.
Siamo davvero stufe che i nostri corpi e le nostre vite vengano invase da discorsi opportunistici e di bottega. Ci appelliamo a Giuliano Ferrara perché rivolga la sua crociata altrove: mai pensato di diventare animalista? La questione della libera scelta della maternità non deve più essere argomento su cui imbastire lotte per poltrone e potere politico.
Utilizzare la moratoria sulla pena di morte per fare un parallelo con l’aborto è arrampicarsi sugli specchi. Infatti non c’è nesso logico tra una decisione che per legge uno Stato prende per togliere la vita di qualcuno che è nato ed ha diritti anche se ha commesso qualche grave delitto, e la decisione di una donna di far nascere, amare e crescere un figlio o di non poterlo fare per motivi che riguardano le sue singole e personalissime decisioni di vita e di coscienza. Già lo Stato italiano si è arrogato diritti di decisione per parte delle donne, ponendo limiti alla libera maternità attraverso le limitazioni imposte dalla 194 e con il diritto all’obiezione di coscienza, e decidendo per noi su quando e come avere dei figli o non averne. Si è raggiunto il paradosso della Legge 40 del 2004 con la quale lo Stato ha preso chiara posizione su come bisogna che noi donne abbassiamo la testa alle decisioni degli altri, a decisioni ideologiche e di principio, perché non possiamo scegliere liberamente di avere dei figli neanche in caso di problemi di sterilità.
Il femminismo italiano, come ha ricordato Adriana Cavarero intervistata da Il Foglio, ha già ribadito che sul corpo e sulla sessualità, sulle decisioni di vita delle donne non si deve legiferare, pertanto nessun appello ad un “diritto universale” a favore di ipotetici nascituri può permettersi di andare a contrastare con il diritto di autodeterminazione (autonomia) e di libera scelta che è tra l’altro anche uno dei fondamenti della bioetica, e che spetta a ogni donna. Il dibattito dovrebbe essere posto sul versante dell’etica della responsabilità che deve coinvolgere le donne e gli uomini in ogni parte del mondo, per una decisione matura rispetto alla nascita di un figlio che è un progetto di vita, un impegno fondamentale perché questo nuovo nato abbia possibilità di una vita felice e sviluppare tutte le sue potenzialità. E non funziona neppure l’argomentazione che vuole le donne vittime di una selezione delle nascite in paesi considerati meno civili di quelli europei, questa tragica piaga infatti non si vince con un’ipotetica imposizione statale alla nascita ma con il miglioramento delle situazioni economiche delle donne e con i diritti politici effettivi dati alle donne. Solo così e con una cultura dell’autodeterminazione le donne di questi paesi saranno libere di scegliere quanti figli avere, e solo se non saranno costrette a mandare le loro bambine a prostituirsi o a venderle come spose bambine, allora la nascita delle loro figlie sarà una gioia e non un dolore mortale.
Noi donne, di nuovo trattate pubblicamente come contenitore da maneggiare in talk show abbiamo ora il compito di gridare forte non solo il nostro NO a queste strumentalizzazioni.
Dobbiamo pubblicamente rifiutare il ruolo di “dead women walking” che vogliono appiopparci, perché in questo gioco mediatico siamo noi le sottoposte a pena di morte simbolica.
In questa società nella quale il diritto alla vita è sempre più messo in pericolo, e non certo per le scelte della popolazione femminile ma semmai per la cultura scellerata maschilista che ci considera proprietà del marito, del fidanzato, del padrone, dello Stato, noi donne dobbiamo rivendicare la nostra responsabile autodeterminazione.
Ci chiediamo infine come mai lo pseudo-neo-tomista Giuliano Ferrara non abbia invocato gli universalissimi principi della vita e della difesa degli innocenti quando volenterosamente il suo governo appoggiava — quella sì — la silenziosissima strage di innocenti in Afghanistan e Iraq. C’è da chiedersi infatti come mai il realismo politico di certi maschi rimanga tale per quanto riguarda la guerra — ultima e preziosissima ratio della politica di cui solo loro colgono l’essenza — e si trasformi in un melenso idealismo che difende i feti quando si tratta del corpo femminile. Ferrara — e molti uomini con lui — è realista e cinico quando si tratta delle bombe in Iraq, diventa idealista e mistico quando si tratta del corpo delle donne.
Che dire infatti di quei bambini carbonizzati dalle bombe al fosforo bianco lanciate sull’Iraq dagli aerei americani: innocenti forse non lo erano più per il fatto di essere venuti al mondo dalla parte sbagliata? Perché ci fu il silenzio, allora, su quella vera e propria strage di innocenti – vivi e coscienti – avallata dall’occidente? Quello è sì uno dei tanti crimini contro l’umanità passati sotto silenzio per il quale le madri gemono e continueranno, inascoltate, a gemere.

Monia Andreani, Olivia Guaraldo, Francesca Palazzi Arduini, Emma Schiavon

 


Le lotte dei ricercatori precari

Il 12 dicembre, il manifesto ha ospitato una mia critica ai ricercatori precari (RP) e al loro atteggiamento ambiguo e contraddittorio verso la cooptazione e il mondo baronale. Pur sapendo di toccare un tema delicato, in cui si sovrappongono storie personali, privilegi corporativi e questioni politiche, la mia scelta di soffermarmi sull’anello più debole della catena del potere accademico è stata quasi obbligata. I docenti di ruolo, infatti, proprio per il potere che traggono dai rapporti baronali, hanno tutto l’interesse a perpetuare questo sistema. I RP hanno invece interessi contraddittori, in cui si intrecciano rapporti privilegiati col mondo baronale e ambizioni scientifiche, che sono frustrate proprio dai rapporti baronali.
Il “sistema universitario” nasce con l’Unità d’Italia. Da allora, la sua riproduzione è affidata ad un meccanismo di reclutamento contraddittorio, basato, nella forma, sul concorso pubblico e, nella sostanza, sulla cooptazione. Questo ha permesso di scongiurare il pericolo sovversivo di un sistema privo della guida necessaria a garantire la riproduzione della cultura dominante e l’assolvimento delle funzioni di indottrinamento e controllo sociale richieste dalle classi dominanti, in un contesto apparentemente democratico.
La cooptazione inizia con una serie di scambi di favori tra cooptatori e cooptandi, secondo cui i secondi si incaricano di alcuni doveri istituzionali e professionali dei primi, per ricevere, come ricompensa, i famosi contratti precari: borse di studio e contratti di ricerca. Ovviamente, questi contratti, a tempo determinato, non riportano le vere mansioni richieste (che, come ci spiegano i RP stessi, comprendono correzione di bozze, lavori a firma del cooptatore, lezioni, ricevimenti ed esami al posto del titolare del corso). Ma, il contratto, seppur implicito (e illecito), è ben noto alle parti. Se il cooptando lo accetta (o, meglio, lo insegue affannosamente) è perché gli permette di mantenere un piede nell’università e di sperare di metterci anche l’altro. Se il cooptatore lo offre è perché ne trae i benefici, senza pagarne alcun costo, che è invece a carico della collettività.
Ben inteso, anche questi “contratti precari”, formalmente, sono attribuiti per concorso. Ma, proprio per la funzione che svolgono, essi sono attribuiti al cooptando di turno con margini d’errore statisticamente insignificanti. Perché la fase più delicata della cooptazione è proprio quella iniziale, in cui il “precariato” gioca una duplice funzione: esso serve sia come test di fedeltà del cooptando, sia come base materiale da cui il cooptatore trae il proprio potere e scarica su altri i propri doveri.

La mistificazione dei ricercatori precari

Tutto questo nel discorso dei RP non appare. La loro storia comincia invece da qui: “La precarietà dei nostri contratti ci obbliga ad un plus-lavoro non remunerato e ci espone al ricatto. Noi svolgiamo mansioni che appartengono al corpo docente, ma che non ci sono riconosciute. Senza il nostro contributo alla didattica, il sistema entrerebbe in crisi. E anche sul piano scientifico, tra noi ci sono persone con titoli più prestigiosi di quelli dei docenti di ruolo”. Nient’altro che la verità.
Ma non, tutta la verità. Perché appunto il discorso dei RP riguarda la precarietà, ma non la cooptazione, che è un modo di reclutamento basato proprio sulla precarietà e in cui la precarietà è il primo passo verso i privilegi accademici. E da qui nasce tutta la mistificazione. Senza nemmeno conoscere la loro storia, i RP vorrebbero cavalcare il movimento contro la precarietà, dimenticando che la loro precarietà ha origini completamente diverse, essendo interna ad un meccanismo ben rodato di riproduzione del ceto accademico, che non ha niente a che fare con la nuova offensiva liberista contro il mondo del lavoro.
I RP rimangono così intrappolati nella terra di nessuno, un po’ sfruttati e un po’ privilegiati. E da qui discendono le loro acrobazie diplomatiche: i giorni dispari, si presentano come vittime del sistema di potere baronale e, i giorni pari, discutono amichevolmente con i loro referenti baronali i tempi della loro carriera accademica. Un giorno, in bella mostra, a invocare San Precario; l’altro, in gran segreto, a pregare San Gregario. Perché, prima ancora di parlare di riconoscimenti e stabilizzazioni, è tutto da vedere se, senza entrambi i santi, i RP otterrebbero il posto che ricoprono.
Vittime della loro stessa mistificazione, i RP chiedono dunque la fine della precarietà e il proseguimento della cooptazioneSenza vedere che il rifiuto delle loro richieste è determinato dai loro stessi referenti (che occupano peraltro il 12% dei seggi parlamentari), i quali non hanno alcun interesse a porre fine al sistema di potere di cui sono al comando. Addirittura i rettori, con cui i RP sfilavano a braccetto nelle manifestazioni del 2005, invocano ora la Costituzione per impedire la loro stabilizzazione, sostenendo che essa lederebbe l’autonomia universitaria (art. 33). E i RP si guardano bene dal replicare che la Costituzione afferma pure che “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso” (art. 97), e non mediante cooptazione. Perché la cooptazione, anche se incostituzionale, sta bene a tutti, docenti di ruolo e RP, baroni e portaborse.
Persone che manderebbero in galera un disgraziato che ruba per mangiare –“perché la legge è legge”– di fronte alla cooptazione universitaria, non invocano la legalità, ma filosofeggiano sulla propria specificità, che renderebbe addirittura necessaria la cooptazione. E i primi a cadere in questa mistificazione sono proprio i RP, che usano gli stessi argomenti dei loro baroni: “La ricerca è speciale, non si può valutare oggettivamente, l’importante è dare il giusto peso al merito, il lavoro universitario richiede un’equipe coesa...” – argomenti che dimostrano quanto i RP abbiano ben assimilato la logica dei loro capi e siano, in definitiva, soltanto l’altra faccia della medaglia del potere baronale.
E in tutto questo, nessuno nota che i problemi di chi vuol fare ricerca scientifica sono causati dalla cooptazione, non dai suoi critici.

La fine del pensiero critico

La cooptazione impedisce l’emancipazione scientifica del cooptando e mortifica le funzioni critiche dell’università. Il cooptatore opprime il cooptando, anche se lo protegge, perché impedisce il suo sviluppo scientifico, richiedendogli obbedienza e fedeltà, invece che rigore e originalità.
A volte, il rapporto di potere è esplicito e palese, come in certe facoltà, dove i baroni si riconoscono dal codazzo di portaborse che li segue. In altri casi, il rapporto baronale si fonde invece con una filiazione anche scientifica. Perché baroni sono anche quei Maestri che, per introdurre i loro studenti migliori alla ricerca, li invitano a partecipare ai propri progetti, li portano con sé ai convegni, e, poi, proprio per la stima reciproca che intercorre tra loro, li difendono dalle cordate rivali nelle sedi in cui si ripartiscono posti e risorse. Perché, nell’università baronale, la filiazione scientifica può durare solo finché il cooptatore si impegna a tenere in vita il cooptando (e termina non appena il cooptando si allontana dagli interessi del cooptatore, o addirittura ne critica le scelte scientifiche e accademiche).
Questo aspetto materiale – che i RP conoscono bene – ribalta il rapporto scientifico che intercorre tra maestro e allievo. Infatti, anche nel caso più favorevole, in cui il rapporto baronale ha una dimensione pure scientifica, la loro interazione non valorizza le ambizioni scientifiche dell’allievo-cooptando, ma quelle del maestro-cooptatore. E questo proprio nella fase più delicata dello sviluppo scientifico di un giovane studioso, che dovrebbe essere aiutato a trovare il proprio percorso, non essere indirizzato verso il percorso di chi può garantirgli – evidentemente, a suo insindacabile giudizio – il successo accademico.
Ma di questi problemi non c’è traccia nelle battaglie dei RP. Loro non si lamentano dello svilimento del loro percorso scientifico, ma dei loro limitati privilegi accademici. Questo dimostra che a loro non interessa la ricerca scientifica, come pomposamente affermano, ma la carriera accademica, cioè la scalata verso nuovi privilegi economici e di potere. Infatti, il loro vero privilegio, quello di essere pagati per pensare (a differenza dei veri precari, che sono pagati per eseguire), non lo sfruttano nemmeno. Perché sanno che, durante la cooptazione, non si deve pensare, ma eseguire, obbedire, svolgere acriticamente la funzione richiesta dal referente.
Da questo punto di vista, i RP sono in buona compagnia, accanto ai docenti di ruolo. Questi ultimi, infatti, hanno smesso di pensare già da tempo, come prezzo da pagare per entrare nella corporazione. E ora che possono finalmente pensare liberamente, hanno anche dimenticato come si fa. Quello che resta della loro passione giovanile per la ricerca è solo la bramosa ricerca di nuovi privilegi di carriera. Per loro l’affiliazione e i compromessi scientifici hanno persino smesso di essere prezzi da pagare. Sono piuttosto la dimostrazione delle proprie abilità relazionali, che – loro non possono più vederlo, ma i RP forse possono ancora – costituiscono la negazione stessa dell’autonomia di pensiero.
Le conseguenze sulla ricerca scientifica sono ovvie. La cooptazione permette di riprodurre la cultura e il pensiero scientifico dominanti, lasciando fuori ogni voce critica, indipendente e deviante. Essa richiede e infonde obbedienza, invece che spirito critico. Perché per entrare nelle cittadelle universitarie, il pensiero critico deve prima farsi interno al sistema, deve cioè incontrare un barone pronto a promuoverlo. Questo lascia fuori tutti quelli che, invece di cercare di risolvere i problemi dei loro referenti, si pongono domande (e, inevitabilmente, sollevano critiche), quelli cioè che costituiscono la vera sfida proprio sul fronte scientifico. In questo sistema, l’estensione del proprio feudo è il solo scopo e le idee senza baroni muoiono, con i loro portatori.
In questo contesto mistificato, la battaglia dei RP contro la precarietà è l’antitesi di quello che vorrebbe apparire. Perché i RP si presentano come forza oppressa, ma non osano contrapporsi alla casta che li opprime. Perché loro nella casta vogliono entrarci. Senza nemmeno quel riformismo moderato di chi afferma che bisogna entrare nel sistema, per cambiarlo dall’interno. Perché i RP vogliono entrare e basta. E sanno anche che se ci riusciranno, sarà grazie alla cooptazione, non nonostante essa.

Giulio Palermo
Ricercatore, Università di Brescia

 

 

 

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