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Da Verona a Dachau, con ironia

Sommersi, come siamo, da fighetti sinistrorsi in sciarpa di cachemire, diligentemente kennediani e con la erre blesa, autoreferenziali al punto di preoccuparsi solo di apparire con stolida faccia da ordinanza nella loro tronfia e idiota telegenicità, e abituati a pontificare sul nulla purché a reti unificate, diventa davvero un bagno di freschezza e di buona salute la lettura di queste splendide pagine autobiografiche (Giovanni Domaschi, Le mie prigioni e le mie evasioni. Memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista, a cura di Andrea Dilemmi, Verona, Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea), che un perseguitato politico anarchico, vittima consapevole e determinata di un fascismo crudele e vendicativo, scrisse in quasi vent’anni trascorsi fra carcere e confino. Ospite involontario, e sicuramente non troppo soddisfatto, di quel miserabile tour operator – come è stato recentemente definito da un famoso, ancorché pregiudicato, cavaliere lombardo – che per vent’anni agì in regime di completo monopolio.
Un bagno di freschezza che ricorda, se ce ne fosse il bisogno – e forse per le generazioni più giovani questo bisogno c’è davvero – che gli ideali di giustizia sociale, di progresso e di solidarietà propugnati da generazioni di militanti appartenenti al grande tronco del socialismo (anarchici, socialisti, comunisti, giellisti, ecc.) non erano parole vuote utili a procurare prebende, incarichi e benefit, ma l’espressione di un’idea inestirpabile, dai contenuti talmente forti da spingere, chi se ne faceva coerente testimone, ad accettarne tutte le conseguenze. Anche, come spesso capitava, quelle più disastrose e drammatiche. Capisco che tali considerazioni potrebbero apparire enfatiche o retoriche, ma se osserviamo nei dettagli tutte le biografie e le testimonianze di chi affrontò a viso aperto, muovendo dai propri ideali, le durezze della lotta politica e sociale, non è certo di enfasi e retorica che si deve parlare. Anche perché non ci sarebbe retorica sufficiente a dare conto di simili esistenze esemplari.
E difatti, in queste memorie di Giovanni Domaschi, che si leggono come un avvincente libro di avventure privo di tratti eroici o magniloquenti, si fanno notare il sorprendente ottimismo e la divertita ironia con i quali questo modesto anarchico veronese, meccanico d’officina, autodidatta ed entusiasta del proprio ideale, narra una vicenda di vita che appare invece, nelle tragedie che la segnano, assolutamente drammatica. Ma evidentemente “un’idea è l’amante mia” e per questa idea non c’era traversia che non valesse la pena di essere vissuta. Un ottimismo e una vena ironica che diventano narrazione di particolare freschezza e leggerezza, anche quando vengono descritte – e il testo ne è drammaticamente pieno – storie di sofferenze terribili, di dolorosi distacchi dai propri cari e dai compagni, di botte e umiliazioni, di vendette del potere e vigliacche rappresaglie dell’avversario politico. Sofferenze inutili, però, e senza costrutto, perché lo spirito e la forte tempra di Domaschi gli permetteranno di affrontare con indifferenza il proprio destino, essendo per lui ben più importante quello universale dell’umanità. Indifferenza ma anche determinazione, come dimostrano i continui tentativi di evasione, alcuni anche riusciti, attuati non solo per ritrovare la libertà personale, ma anche per riprendere posto nella lotta contro il fascismo.
Diventa davvero impressionante la successione delle “tappe” carcerarie del meccanico veronese, che per quasi tutto il ventennio fascista sarà “ospite”, spesso a più riprese, delle carceri di Verona, Lipari, Milazzo, Regina Coeli, Fossombrone, Poggioreale e Piacenza. Tra un carcere e l’altro, poi, l’assegnamento al confino – “soggiorno tutto compreso” – nelle isole di Favignana, Lipari e Ponza e infine, durante gli anni della guerra, la detenzione nei campi di concentramento di Renicci d’Anghiari, di Gues e Flössenburg. Solamente il terribile lager di Dachau, nei primi mesi del 1945, riuscirà a piegarne per sempre l’inossidabile spirito di libertà.
Sembra incredibile, oggi, che si potessero affrontare situazioni di vita così dure e dolorose, ma evidentemente c’era qualcosa che permetteva che questi “miracoli” non solo accadessero ma anche con una frequenza e una intensità sorprendenti. Innanzitutto il senso inalienabile della propria dignità e la consapevolezza dei propri ideali, e poi la speranza, la speranza che il regime crollasse, che l’evasione andasse in porto, che qualcosa di nuovo potesse consentire la ripresa della lotta (a liberazione avvenuta, Domaschi è ancora lì, a organizzare la lotta contro il nazifascismo nel Cln veronese, mettendo definitivamente a repentaglio la propria libertà). Un altro elemento fondamentale era la solidale comunanza con gli altri detenuti politici, numerosissimi durante il ventennio, e provenienti da tutti i ceti sociali e le scuole dell’antifascismo. È perfino commovente la gioia con la quale Domaschi ritrova, fra una tradotta e l’altra, altri “politici”, altri militanti che come lui rifiutarono l’asservimento al regime. E suoi compagni di galera e di confino furono davvero molti, dai giellisti Rossi, Bauer e Fancello al futuro presidente della repubblica Pertini – quando costui affermava, in occasione dello sciopero della fame dell’anarchico Alessandro Galli, che temeva per la sua vita perché gli anarchici sono gente seria e determinata, pensava sicuramente a gente come Domaschi e ai tanti altri che aveva conosciuto in carcere e alle isole – da altri anarchici come Lucetti e Failla a comunisti come Secchia, Terracini e Scoccimarro, anch’essi pronti nell’affrontare la barbarie fascista in nome di un ideale di emancipazione che solo la ineluttabile degenerazione stalinista e bolscevica avrebbe gettato nel fango.
A rendere ancora più interessante la lettura di questo manoscritto, bruscamente interrottosi probabilmente per “cause di forza maggiore”, contribuisce l’ampia e fondamentale introduzione di Andrea Dilemmi, arricchita dalla raccolta di numeroso materiale documentario. Nell’inquadrare compiutamente e con rigore storiografico questa vicenda unica ma anche paradigmatica di una generazione di compagni e militanti, il curatore non solo dimostra la sicura professionalità dello studioso, ma lascia anche scorgere una sentita partecipazione ideale, che non contrasta, in questo caso, con il necessario rigore storiografico ma, al contrario, ne completa l’analisi e la comprensione.
Fa piacere sapere che oggi, a più di sessant’anni dalla morte, esiste un gruppo anarchico veronese intitolato a Domaschi. A evidente testimonianza del segno che ha lasciato nella memoria dei suoi compagni, e del valore del suo esempio. Tanto più chiaro, il suo come quello di tanti militanti delle varie scuole del socialismo, se confrontato con le miserie attuali di un ceto politico, apparentemente ancora legato alla storia del socialismo, ma che nei fatti riproduce senza vergognarsene, e forse anche senza rendersene conto, gli stessi valori e le stesse miserie di quel sistema che dice, stancamente ormai, di volere riformare.

Massimo Ortalli

Per ordine del governo fascista
A sedici anni feci parte del “Circolo Giovanile Socialista” del mio paese (1) al quale diedi tutta la mia possibile attività; in seguito a migliori riflessioni divenni Anarchico e partecipai a tutte quelle iniziative che credetti utili al miglioramento morale e materiale della mia classe. Come anarchico avversai la guerra europea e non volli fare il soldato, per qualche mese indossai la casacca militare ma solo per sdrucirla sul pancaccio delle celle buie del mio reggimento. Passai, e sto passando ancora, degli anni tristi, come, del resto, li stanno passando tristi tutti coloro che non vollero o non vogliono piegare dinnanzi al manganello ed alle leggi fasciste. Complessivamente soggiornai nelle carceri italiane per dodici anni, fui trasferito, indesiderato ospite, da un Penitenziario all’altro dove mi accolsero sempre le celle più nere... nelle quali potei maggiormente conoscere la vita carceraria sotto tutti i suoi punti di vista. In questo frattempo assistetti a dei fatti, a degli episodi che contrastano enormemente con le più elementari leggi naturali episodi e fatti che credo mio dovere esporre ai compagni lavoratori, ed ai miei figlioli Anita ed Armando, i quali soffersero il riflesso delle mie avversità ed ai quali dedico queste pagine dall’isola di Ponza dove sono ancora relegato per ordine del Governo fascista.


Negare, negare sempre!
Dopo venti giorni passai il primo interrogatorio nel quale, com’è sempre stato il mio metodo, mi mantenni completamente negativo dando del pazzo al Marinoni mio accusatore (2). Come già dissi, ho sempre dato molta importanza al metodo di negare davanti ai giudici borghesi, l’ho sempre ritenuto il dovere più elementare di ogni sovversivo verso sé stesso e verso le idee che dice di professare. Il magistrato, il giudice istruttore cerca sempre di toccare le corde più sensibili dell’imputato per strappargli delle dichiarazioni che lo compromettano, egli fa appello alla sua dignità di uomo, lusinga l’imputato col promettergli di rimandarlo a riabbracciare i suoi bambini a baciare la sua vecchia mamma, altrimenti, “se non confessa, è galera per molti anni”: ci pensi! Ci pensi! mi sembra ancora di udire da qualche giudice istruttore, “sono un padre di famiglia anch’io, parlo per il suo bene”. Vi sono di quelli che offrono delle sigarette, altri che danno o fanno dare delle legnate. Comunque, mai si deve confessare quello che non conviene alla propria causa! Anche le piccole ammissioni possono essere concatenate con altre che difficilmente dopo si possono cancellare dalle risultanze processuali; quindi negare, negare sempre! specialmente questo atteggiamento vorrei che lo comprendessero bene i giovani, i quali non sono ancora addestrati a questo genere di battaglie; sarebbe utile che ci fosse anche una scuola apposita, il cui titolo potrebbe essere questo: “Scuola per liberarsi degli Artigli della Magistratura” in modo che essi possano imparare bene come devono comportarsi davanti a coloro che adoperano tutte le astuzie per mandarli a vedere il sole a scacchi. Le contestazioni che mi fecero furono gravissime e varie, ma di vero a mio carico non c’era che il possesso di materiale esplosivo e della corrispondenza clandestina.
Passai dei nuovi interrogatori ma rimasi sempre sullo stesso terreno.


Con cretina soddisfazione
Nella perquisizione che mi fecero dopo l’arresto i quattrini che tenevo nascosti nella visiera del berretto non furono trovati e li volevo mandar fuori insieme con un biglietto alla Ciarravano per farle conoscere la mia deposizione in modo che lei potesse regolarsi nel caso che venisse interrogata. Avevo con me un ago e un filo, scucii e rimisi il tutto nel berretto stesso; nell’oscurità della cella l’operazione non riuscì molto bene, ma avevo fiducia che quei due carabinieri sebbene si fossero accorti, il favore me lo avrebbero fatto ugualmente. Parlai con quello tra i due del quale avevo l’impressione che fosse il più stupido, e gli proposi il favore che desideravo che mi facesse, cioè che consegnasse il berretto al suo vero proprietario... che casualmente rimase nelle mie mani prima di essere arrestato, insomma gli raccontai la solita storia dei miei berretti. Accettò con cretina soddisfazione e portò il berretto nella bottega di due compagni pasticcieri (3) i quali capirono subito e lo consegnarono alla Ciarravano.


Davanti al Tribunale Speciale
Le mie prime impressioni quando vidi entrare nella sala il T.S. furono proprio come già le previdi nelle scorse notti d’insonnia; tutti i componenti della giuria il mio cervello li vide allora passare davanti vestiti da ... (4) in pantofole, profumati ed imporporati (5). Così, infatti, li vidi pure in quel mattino di Novembre: erano tredici bambocci imporporati nelle cui mani avevano la legge che veniva applicata, come in tutti i tribunali, secondo lo stato d’animo di quel momento. Un disturbo gastrico, un litigio con la moglie, una bocciatura del figlio, una partita agli scacchi perduta, una nottata d’insonnia ecc. ecc. queste sono tutte cose che possono sempre influire sullo stato d’animo del giudice, per infliggere il massimo di una data pena invece del minimo o condannare un innocente invece di assolverlo. La predisposizione naturale del magistrato poi è sempre nera verso l’imputato, in lui vede sempre il colpevole, specialmente quando si tratta di politica ostile al regime. Se l’imputato sa difendersi dal magistrato viene considerato come un furbacchione, se non sa difendersi per lui è la più chiara dimostrazione della sua colpevolezza, se la fisionomia fisica dell’imputato non è simpatica per il magistrato costituisce pure un’aggravante, se tace è un ipocrita, se parla è un prepotente. Insomma, sono pochi coloro che se la cavano bene quando la società stessa li fa cadere sotto gli artigli della legge, anche se questi sono degli innocenti.
Se trattasi di reati politici inoltre l’azione del Magistrato viene basata sullo spirito che domina in quel dato momento politico, la sua funzione è quella di condannare un innocente o di assolvere un colpevole se così piace a coloro che sono al potere. In certi periodi non vi è nulla che faccia evitare una sentenza di condanna: gli estremi del reato se non ci sono vengono inventati e qualsiasi ragione ritenuta nulla.
Con l’evento del fascismo al potere si è verificato anche delle invenzioni atroci contro degli onesti cittadini: quando il fascismo volle tentare di demolire dei suoi avversari ricorse quasi sempre a dei mezzi che toccarono le corde più sensibili delle sue vittime: le ha sempre accusate di azioni immorali, azioni che da loro non furono mai commesse. Così in quel mattino di Novembre successe pure a me.


Partenza dal reclusorio di Fossombrone
Nella seconda quindicina di Gennaio 1929 ricevetti dalla procura di Messina la citazione per rispondere in appello della causa d’evasione dalle carceri di Lipari. Partii il giorno 23 in viaggio straordinario scortato da due carabinieri i quali non erano dei peggiori poiché durante il viaggio mi permisero di gettare gli abiti da carcerato, di indossare i miei che tenevo ancora nella valigia e di inviare della corrispondenza, dicevo a loro, ai miei famigliari: corrispondenza che mirava a preparare una nuova evasione dalle carceri di Messina ove tra poche ore sarei stato rinchiuso.
Con me avevo la immancabile chiavetta per togliermi le manette durante il viaggio se ne fosse presentata l’occasione. Sul tragitto Firenze-Roma i carabinieri di scorta si appisolarono ed io ebbi il tempo di allentarmi i ferri in modo di togliermeli completamente al momento opportuno il quale poteva essere vicinissimo.
Un bambino che viaggiava sullo stesso vagone accompagnato da un agente in un collegio di Palermo e che di tratto in tratto veniva nel nostro scompartimento a biasimare colui che ebbe l’incarico dai genitori di accompagnarlo, vide i miei movimenti ed intuì subito le mie intenzioni, tanto che, senza pronunziare parola per non svegliare i carabinieri, con un piacevole sorriso mi incoraggiava con gli occhi e col capo al tentativo.


La mia seconda fuga
Durante quel giorno mentre uno osservava ed origliava attentamente dallo spioncino della cella tutti i movimenti della guardia di servizio nel corridoio, l’altro, con tutta la cautela che il caso richiedeva, segava le sbarre della finestra per aprire un varco che ci permettesse di passare per uscire nel cortiletto.
Per varcare le due cinta, dopo le quali saremmo completamente giunti nella strada, dovevamo tagliare le lenzuola a strisce, congiungere l’una con l’altra in modo di fare una corda alta press’a poco quanto erano alte le due cinta che ci separavano dalla libertà.


Senza fare il minimo rumore
In ognuno dei nostri letti facemmo dei finti uomini con le brocche che avevamo e con alcuni indumenti di vestiario vecchi, in modo che la guardia del corridoio non notasse dallo spioncino la nostra fuga, la quale, se tutto andava bene, doveva essere notata solo alla visita della mezzanotte.
Mancava un quarto alle nove quando tutto era pronto, tirammo invano con tutta la nostra forza dalla parte interna i pezzi di sbarra incrociati per piegare la parte che non era stata tagliata, per un momento ci guardammo in faccia, credemmo che i nostri calcoli fossero sbagliati; ad un tratto salgo sulla finestra, mi aggrappo alla parte sana dell’inferriata con le mani, e con i piedi spingo all’esterno la parte tagliata con tutta la mia energia, in un attimo si udì suonare sul selciato del cortiletto, per fortuna senza essere udita dagli aguzzini, tutto l’angolo dell’inferriata che volevamo togliere.
Il varco era pronto, gettammo fuori le nostre giacche e la corda fatta con le lenzuola per passare con più facilità, e finalmente uscimmo nel cortiletto anche noi, ci arrampicammo, mediante l’aiuto di una finestra, sul tetto di un piccolo magazzino che livellava con la prima cinta, ci togliemmo le scarpe e strisciammo sullo stesso tetto come fa il serpe, per raggiungerla senza fare il minimo rumore, la raggiungemmo infatti e ci calammo giù.


Note

  1. Si tratta di Porto S. Pancrazio, ora quartiere nella zona est della città, dove la famiglia si era trasferita nel 1908.
  2. Per il verbale dell’interrogatorio, sostenuto il 21 marzo, cfr. ACS, TS, b. 117, fascicolo I, «Processo Marinoni ed altri». Nell’occasione, oltre a negare ogni addebito, Domaschi aveva tentato di depistare la polizia sostenendo che le lettere dirette a Marinoni e intestate a «Elica e compagni» erano in realtà per la di lui moglie, che avrebbe chiamato “Elica” in modo confidenziale poiché «i soprannomi sono in uso nel Veneto». Interrogato sull’utilizzo di “Ciclo” come suo nome convénzionale, Domaschi, inventando sul momento, aveva risposto trattarsi solo di uno dei tanti, quali ad esempio “Garibaldi” e “Nino”. La polizia prenderà sul serio quest’ultimo dettaglio, aggiungendo in evidenza i due soprannomi sulla camicia del fascicolo presente a suo nome nel Casellario politico centrale di Roma.
  3. Alessio Raspini (cfr. Pagano, Il confino politico a Lipari, cit., p. 255) e, probabilmente, Comunardo Corti (cfr. DBAI, vol I, p. 452): «Soprattutto per opera di Corti, fornaio, che impastava e cuoceva, fabbricavano krapfen, fiorentinamente detti “bomboloni”, e Alessio Raspini si metteva sullo stomaco una tavoletta tenuta stesa da una cinghia che passava dietro il collo con sopra ad essa i “bomboloni” e girava per Lipari a venderli» (Busoni, Confinati a Lipari, cit., pp. 25-26).
  4. Pagliacci.
  5. Si trattava di Augusto Ciacci, Generale di Divisione, presidente; Piero Lanari, giudice relatore; Giulio Mucci, Alberto Ventura, Giovanni Sgarzi, Renato Pasqualucci, Gaetano Le Metre, consoli della MVSN, giudici.