Rivista Anarchica Online


società

L’aria che tira
di Maria Matteo

 

Chi ci governa, chiunque sia, alimenta la guerra tra poveri, facendo del razzismo una dottrina di Stato. Il caso Torino.

 

Viviamo tempi terribili, tempi segnati dalla ferocia e dall’indifferenza. Lo spazio che ci circonda, lo spazio sociale, lo spazio politico, lo spazio culturale, lo spazio fisico, sono appestati da miasmi ammorbanti che soffocano.
Tra le pieghe della politica, quella che gioca l’eterno gioco del potere, delle alleanze che variano e mutano, delle leggi elettorali fatte per questo e non per quello, nelle brevi note a margine della cronaca, emerge una spaventosa quotidianità, fatta di attacchi e aggressioni fasciste, di ordinanze e leggi contro gli immigrati, di ronde padane, di sudiciume culturale elevato al rango di opinione.
A Torino, la città dove vivo, appena dietro ai palazzoni nati vecchi di una periferia come tante altre, tutte eguali a diverse latitudini, stanno le baracche e le roulotte dei rom. Stipati in campi spesso improvvisati senza acqua, né luce, vicino alle acque limacciose della Stura, abitano gli ultimi tra gli ultimi, i rom rumeni.
I più pensano a loro come nomadi, gente randagia che vive ora qua, ora là, gente che ha scelto, ha scelto il margine, la riva maleodorante dei nostri fiumi/discarica per vivere. Nessuno va oltre la chiacchiera ed il pregiudizio. Eppure basterebbe provare a parlare e ascoltare per sapere che questa è gente che è partita perché, là, in Romania, aveva perso la casa dove abitava e non riusciva più a campare. Niente lavoro, nessun futuro in un paese, dove il razzismo è pane quotidiano sempre più amaro da buttare giù. Il presidente della Romania Basescu è uno che per stigmatizzare il comportamento di una giornalista a lui sgradita l’ha chiamata “sporca zingara”.

Storie di ogni giorno

In uno di questi campi rom, in via Vistrorio, sino al 14 ottobre 2007 ci abitavano 62 uomini, donne e bambini. Poi una notte, tre molotov e ogni cosa va in fumo. Si sfiora la strage, ma fortunatamente tutti riescono a scappare. Il giorno dopo i media fanno più danni delle bocce dei fasci: pagine interne e toni smorzati, l’ombra del sospetto sulle vittime, scappate con i vestiti addosso, bruciati i documenti… Chi sa? Magari si son dati fuoco da soli! Quando in quartiere fai un presidio di solidarietà trovi un muro di indifferenza e ostilità sin quando una passante si ferma e senza vergogna dice che “per quelli dovrebbero riaprire Auschwitz”. Si descrive come una persona perbene, una che lavora per mantenere i propri figli, una dai saldi principi morali.
Le persone che quella donna vorrebbe deportare verso nuovi campi di sterminio fanno parte di una comunità che cerca di sopravvivere, conquistandosi un futuro in una città che non li vuole, tra uno sgombero e l’altro, tra un’umiliazione e l’altra, nel timore che il pregiudizio si traduca in violenza.
Quando, dopo poche settimane, sempre in Barriera, una donna andata a prendere i figli a scuola, viene affrontata e malmenata brutalmente da tre energumeni armati di bastoni il fatto non diventa notizia, neppure una breve in cronaca. La donna è rom.
Storie come queste accadono ogni giorno. Quello che colpisce è la straordinaria normalità di tutto ciò, come se non vi fosse nulla di spaventoso, nulla di cui vergognarsi, nulla da temere.
Il ’900 è appena passato ma le ombre scure del secolo breve sono ancora tra noi, minacciose. Di fronte all’orrore dei lager nazisti, di fronte ai gulag, di fronte ai mattatoi argentini, cileni, di fronte ai tanti luoghi ove l’umano si fa troppo umano e la negazione dell’altro diviene industria della distruzione, ci siamo chiesti come fosse potuto accadere, come fosse possibile che nessuno vedesse, nessuno sapesse, nessuno levasse la propria voce. Pareva impossibile, ma l’impossibile è accaduto. Oltre il filo spinato dove lavoravano i macellai di professione, alcuni sadici bastardi ma, i più, solo operai di un crimine legale, viveva la gente per bene, quella che, dopo, dice di non aver visto, di non aver immaginato, di non aver saputo. La stessa che, poi, apprende distratta e dimentica in fretta. La stessa che, di fatto, in cuor suo benedice i torturatori e gli assassini o, nella migliore ipotesi chiude gli occhi, strangolata dal laccio feroce della paura.
Siamo sull’orlo di un baratro ma i più continuano a vivere come se nulla accadesse: così il baratro si avvicina.
Le nostre vite sono sempre più insicure, perché i tassi crescono e il mutuo non si paga più, perché il welfare familiare non regge, tra pensioni da fame e precarietà senza fine, perché respiriamo veleni e mangiamo merda, perché i soldi per le nostre vite li spendono per ammazzare qualcuno in Afganistan. Eppure la colpa è di chi sta peggio di noi, di chi arriva da uno dei tanti sud di questo pianeta piagato e piegato, dove campare è un terno al lotto che vincono in pochi, la libertà un sogno da supermarket, il benessere un lavoro da schiavi senza tutele né garanzie.

“emergenza sicurezza”

Chi ci governa, chiunque sia, alimenta la guerra tra poveri, facendo del razzismo una dottrina di Stato. Il meccanismo è semplice ma spietato. In ultima analisi lo stesso dei nazisti. La selezione avviene nei paesi d’origine: solo i più giovani, i più forti, quelli in grado di attraversare il deserto, di lavorare come bestie per pagare il viaggio, reggere la traversata, arrivano nel belpaese. Poi ci penserà il mercato a selezionare ancora quelli più flessibili, utili, obbedienti, adattabili. Così i cantieri si sono riempiti di gente di ogni dove che lavora come qui non si lavorava più, nei campi ci sono nuovi braccianti/schiavi per i caporali, per i nostri vecchi arrivano le badanti a prezzi stracciati, sulle strade ragazzine ultraminorenni alimentano il mercato del sesso a pagamento. Per quelli che non possono o non vogliono stare alle regole, o, semplicemente “sono di troppo” ecco la galera amministrativa e poi la deportazione. Un meccanismo ben oliato, che si regge e alimenta anche grazie alle continue campagne razziste e xenofobe, che vedono protagonisti oggi i rumeni, ieri gli arabi, l’altro ieri i cinesi, e poi gli albanesi, gli slavi… in una girandola che segue le esigenze del momento.
Poi capita che in una notte, nella nuova Torino tutta luci d’artista e grandi opere, sette operai muoiano tutti insieme, in un’unica fiammata dentro una fabbrica dove si lavora e si crepa come nell’800. Dolore, rabbia, le lacrime calde di chi vede la propria vita specchiata in quella dei sette operai morti nella guerra del lavoro, una guerra che miete più vittime di quelle guerreggiate, ma resta nascosta tra i non detti del nostro vivere sociale. Se si desse il suo nome a questa guerra, nessuno potrebbe continuare a chiamare “incidenti” gli omicidi dei lavoratori, se si desse il suo nome a questa guerra si saprebbe che non ci sono norme o tutele che tengano di fronte alla frenesia di chi vuol produrre e guadagnare, di chi considera l’operaio una macchina facilmente sostituibile, di ben poco valore.
E poi ci sono le lacrime ipocrite di chi, dai banchi del parlamento, dalle poltrone del governo, dalle stanze delle burocrazie sindacali per anni ha lavorato perché i padroni potessero riprendere il controllo dei posti lavoro, quei posti dove, per una breve stagione, le cose erano andate un po’ meglio per chi per vivere è costretto a vendere la vita. A volte anche a perderla.
In quella acciaieria dove si lavorava per turni di 12 ore si è consumata una tragedia umana terribile ma si è anche compiuto il destino di una classe operaia che ha perso le sue radici e le sue ragioni, perché se capita quel che capita è anche perché di fronte alle leggi razziste che condannavano i migranti a piegarsi, in tanti, in troppi, hanno applaudito, si sono sentiti “padroni a casa propria” mentre i padroni, quelli veri, quelli che le case le hanno dappertutto, incassavano ogni giorno un pezzo in più delle nostre vite.
Il baratro che abbiamo di fronte è quello della guerra. La guerra quotidiana tra chi ha poco e chi ha nulla, tra chi si aggrappa all’illusione di galleggiare e chi va a fondo. Eppure basta dare un’occhiata all’indietro per sapere che se non si inverte la marcia i più verranno sommersi.
Il lavoro che “rende liberi” ricatta la vita di tutti. La vita degli immigrati stritolati dalla equiparazione tra permesso di soggiorno e dovere del lavoro, la vita di ciascuno di noi perché chi non piega la testa troverà sempre qualcuno, più debole, che lo farà.
Le destre e le sinistre evocano una presunta “emergenza sicurezza”, individuando negli ultimi, negli immigrati poveri i capri espiatori da offrire in sacrificio, per allontanare lo spettro che i penultimi si alleino agli ultimi, che l’odio lasci il posto alla solidarietà. E dalla solidarietà la capacità di opporsi ai nemici veri, quelli che lucrano sulle nostre esistenze, quelli per i quali una vita non vale i 20 euro per ricaricare un estintore.

Maria Matteo