Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

I fuochi di Praga
Karel Kryl e Jaromir Nohavica, 40 anni di canzone d’autore ceca

Quando gli hanno detto che la libertà aveva fatto ritorno, anche lui era voluto tornare nella sua Praga, dopo vent’anni d’esilio a Monaco. Ma non l’aveva ritrovata, aveva difficoltà nel riconoscere le speranze sperate. Ancora, caparbiamente, la sua voce non smetteva di tuonare contro le storture, la falsità, la disumanizzazione, la guerra... ancora per poco. Un infarto lo stroncò ad appena cinquant’anni, un freddissimo giorno del marzo del ’94, durante una primavera che tardava a tornare. Ne sono passati quasi 15. Quest’anno la sua vedova ha ricevuto un disco d’oro per la pubblicazione di una registrazione inedita dal vivo.
Karel Kryl, di famiglia piccolo borghese, per nascita “nemico oggettivo di classe”, a sette anni aveva assistito alla distruzione della tipografia paterna, durante la campagna di “socializzazione della piccola proprietà”. Frequentò la scuola nel tempo terribile dei processi di Praga, potendo così “godere” sulla propria pelle l’arte della rieducazione.
Crebbe individualista ed insubordinato, poeta ironico, surrealista e non sense, contro la disciplina ottusa di partito. Era un giovane operaio in un’industria di ceramiche col pallino della cultura beat, quando tutt’attorno c’era la primavera di Praga. Durò poco, vennero i carri armati a soffocarla. Lo scherzo nelle sue canzoni volse in grido desolato.

Fratellino non piangere, questi non sono gli orchi delle favole
E tu non puoi più essere un bambino
Questi sono soldati arrivati sulle verdi carrozze di ferro.
(...) Fratellino non piangere, non sprecare le tue lacrime
Ricaccia in gola l’invettiva, risparmia le forze per scappare.
Lungo il cammino canta con me la canzone, non è difficile.
Appoggiati a me dove la strada è più aspra
Ci trascineremo fino a zoppicare, ma non possiamo più tornare indietro
Piove e fuori gia scendono le tenebre, questa notte non finirà presto
Il lupo ha sentito l’odore dell’agnello
Fratellino chiudi il cancello! Chiudi il cancello.

(Batricku, zavirej vratka, 1968)

E dunque la fuga e l’esilio. Un lavoro in radio: un modo per sentirsi ancora presente – clandestino – nel cuore dei cecoslovacchi. L’assenza/presenza della sua voce ne fece un personaggio leggendario. Le sue canzoni erano sempre più amare, sempre più amate.

A volte allegorie disperate del potere:
Nella luce torbida della sala gotica
Mercantucoli terrorizzati fissan gli occhi sul messale
Mentre una folla di sicari chiede la benedizione
Giacchè il primo dei cavalieri è sua altezza il Boia (...).
All’angolo della via un assassino predica la morale
Le guardie passeggiano davanti al cancello della prigione
Dalle corazze guerresche ti salta agli occhi la scritta:
Il primo dei cavalieri è sua altezza il Boia.
Sul palazzo del governo sventola la bandiera con la ghigliottina
Ai bambini piacciono i coni gelato
I giudici – indignati – hanno ucciso i gelatai.
Era terribile la vita in quello stato dove vedevi
Che si proibiva di scrivere e si proibiva di cantare.


Nel piatto del gulasch

A volte, dal quadro fosco, osceno, povero e dissacrante, dalla miseria della realtà con cui Kryl rintuzzava la demagogia del realismo socialista, si affacciava la tensione lirica di quest’uomo buono e sensibile. La sua più bella canzone prende spunto dal contrasto fra uno squallido bozzetto di vita militare e la purezza dell’amore cercato in un sogno adolescente:

Qualche resto per i sorci nel piatto del gulasch
Lettere d’amore, partite a carte.
Prima del lungo viaggio ci togliamo le scarpe sudate
E poi sotto la coperta sogniamo masturbandoci.

Neanche vent’anni, un distintivo sul berretto
Tra il sorriso degli adulti si tira fuori la sigaretta
La pistola carica alla cintura
Andiamo al passo cantando vicino al bordello.

Amore, chiuditi nella stanza, Amore
La guerra è con la mia ragazza, con lei faccio l’Amore
Accorciandomi le notti. Amore, hai il sole sul ventaglio, Amore
Due ciliegie su un piattino ti regalerà quando tornerò. Un giorno.

Un giorno tornò alla sua gente, al suo amore, Karel Kryl. È ancora emozionante guardare il documentario girato quell’anno, mentre stringe le mani e parla con tutti, e arrampicato su una tettoia fa un concerto per un pubblico che conosce a memoria le sue canzoni, pur essendo nato dopo che lui era già partito.
Almeno quello la vita glielo doveva, anche se durò troppo poco.

Jaromir Nohavica

È molto difficile trovare notizie dei cantautori dell’est europeo, eppure quel poco che filtra dalle scarsissime traduzioni è sempre esaltante.
Sono almeno 25 anni che per la repubblica Ceca si aggira, con grandissimo successo, un simpatico signore baffuto, ormai cinquantacinquenne... mezzo camionista, mezzo pensatore Easy Raider, con lo sguardo limpido e il sorriso irresistibile, con una voce raschiata dal tempo e un po’ afona, ma molto molto musicale, porge con grazia ineguagliabile i suoi versi.
Si chiama Jaromir Nohavica (leggi Noàvizza) ed è un poeta dell’amore, un pirata della pace, un clown capace di far ridere i bambini e far commuovere gli adulti con la stessa canzone; un filosofo dalle maniere delicate, che non sputa sentenze, ma che quando canta del tempo e della vita ti fa restare lì, un po’ sognante e un po’ tramortito, per la grande, pacifica bellezza che riesce a trasfondere nei versi più disperati.

Ho visto la cometa, che ha attraversato il cielo
Volevo cantare per lei, ma è scomparsa
È scomparsa come un capriolo nella foresta
Solo due monetine gialle rimangono nei miei occhi

Ho nascosto quelle monete nella terra sotto la quercia
Quando tornerà noi non saremo più qui
Non saremo più qui, ah, mia vana gloria,
Ho visto la cometa e volevo cantare per lei

Dell’acqua, dell’erba, della foresta
Della morte, con la quale non possiamo conciliarci,
Dell’amore, del tradimento, del mondo
E di tutte le persone che sono vissute su questo pianeta.

Alla stazione siderale i vagoni tintinnano
Il signor Keplero ha prescritto le leggi dei cieli,
Le ha cercate e trovate in binocoli astronomici,
Ha scovato i segreti che ci portiamo sulle spalle

Gli enormi e infiniti segreti della natura
Che l’uomo solo dall’uomo può nascere
Che le radici e i rami si uniscono per creare l’albero
Che il sangue delle nostre speranze viaggia per l’universo.

Ho visto la cometa, come una carezza
Dalle mani di un artista vissuto a suo tempo
Mi sono arrampicato fino al cielo per toccarla
E per la futilità fui completamente nudo

Come una statua, un David di marmo bianco
Immobile ho guardato in alto.
Quando tornerà di nuovo, ah, mia vana gloria,
Io non sarò più qui, ma qualcun’altro canterà

Dell’acqua, dell’erba, della foresta,
Della morte, con la quale non possiamo conciliarci,
Dell’amore, del tradimento, del mondo
Sarà una canzone su di noi... e sulla cometa.

Urgenza espressiva

Ho potuto approcciarmi a questo grande artista per la passione di un ragazzo italiano, Alessandro (che qui ringrazio assieme alla sua banda di traduttori), il quale appassionato della cultura ceca, gli ha dedicato qualche pagina web semplice, ma traboccante d’amore e perciò assolutamente indispensabile alla conoscenza di Jaromir (www.onice.vr.it/nohavica), che nel frattempo ha provvisto anche il suo sito ufficiale di una gustosa versione in italiano (www.nohavica.cz).

Nohavica – lo dicevamo – riscuote un grandissimo successo in patria, un successo covato negli anni difficili del suo esordio, quando non poteva registrare che cassette semi-clendestine: pur senza essere in aperta dissidenza col regime – come il suo amico Kryl – non ne era certo il beniamino... Non a caso nel suo repertorio trovano spazio anche brani di Bulat Okudzava e uno dei suoi primi dischi s’intitola Canzoni per Vladimir Vysotsky (per la cronaca, i due massimi cantautori di protesta sovietici degli anni ’60 e ’70).
È però agli inizi degli anni ’90 che un disco eccezionale fa esplodere il fenomeno Nohavica: alla publicazione di Mikimausoleum – nel 1993 – la canzone ceca conosce già da anni le poesia tenere o disperate di Kryl, le cui melodie si avvalgono del suo accompagnamento un po’ stentato, che coniuga al gusto nazionale ritmi spiccatamente Pop 60. È una musica abbozzata per l’urgenza espressiva, sono canzoni necessarie che si avvalgono della loro incompiutezza musicale come di un’ulteriore e caratterizzante vibrazione.

Mikimausoleum di Nohavica, fin dal titolo postmoderno, è invece un’opera musicale perfettamente compiuta, uno dei dischi capolavoro del genere. Le liriche sono nette, i versi, in perfetta armonia fra canto e disincanto, si snodano sui tappeti armonici lussureggianti della chitarra di Karel Plihal, l’arrangiatore.

Il buio mi sveglia di mattina, mi tocco il polso
Se mi batte ancora il cuore e se ancora ho fortuna
O se ho già lasciato questa vita ed ho le scarpe di cera
Di mattino in mattino lo stesso risveglio nel nulla.

Non c’è cosa, non c’è come, non c’è perché, non c’è dove
Non c’è nessuno, non c’è argomento, ognuno è solo dentro di se,
Un don Chisciotte smunto ha sellato il suo Ronzinante
E dio è un autista cieco seduto al volante.

Accendo il telefono – segreteria dei sentimenti altrui
Le brutte notizie arrivano come la polizia all’alba
Sono per metà sveglio e per metà ancora nel sonno
Dovrei ridere, ma ho il sorriso di Topolino.
Le mattine, le cancellerei.

Quasi non si riesce a credere che un disco così bello, complesso, ricco di sfumature, allegro e triste assieme, si regga quasi esclusivamente su una chitarra, per quanto suonata in modo eccelso, e su una voce, per quanto straordinariamente ricca di verità: la voce di molte generazioni che infine escono tutte assieme dal tunnel che aveva appiattito una cultura ricchissima su un’unica assurda dialettica consenso/dissenso. Con questo disco non solo la cultura boema giunge a un vertice espressivo, ma il mondo può tornare a riconoscersi nello specchio di un particolarissima visione quella di Kafka, di Capek, di Hasek... L’accompagnamento minimale, ma non minimalista, sottolinea una grande varietà di registri, le cui più evidenti influenze provengono dalla musica popolare slava (Nohavica è nato presso il confine polacco), ma spaziano dalla folk song americana, a nenie trobadoriche e impennate ritmiche. Questo è un disco che apre le strade e che ha dato voglia a un mondo musicale di uscire allo scoperto.

Da allora Nohavica, che ha inciso ancora una diecina di ottimi dischi, lo si vede spesso in giro con formazioni antitetiche, talvolta degli ensemble rock, talvolta quartetti d’archi, talvolta persino band dal sapore heavy, ma è la fonte della sua ispirazione a sembrare inesauribile. Il suo pubblico ha tutte le età e si assiepa davanti a un antidivo che, tutto solo con chitarra e fisarmonica, o sorretto da batteria ed elettricità, percorre la sua strada, a volte con dolore, mai senza emozione:

I treni per Tesín partono ogni quarto d‘ora,
Ieri non ho dormito, ed oggi non riposerò,
San Medardo, mio protettore, si tocca la fronte,
Ma finché si canta non si è morti.

Nel chiosco mi compro un panino e degli stuzzichini
Il cuore ce l‘ho per l‘amore e la testa per le canzoni,
A scuola ho imparato bene cosa si dovrebbe fare,
Ma finché si canta non si è morti.

Cento volte ho preso un granchio e cento volte ho pagato caro
Andando su e giù per una montagna russa
Anche se gli avvoltoi stessero volando sul mio corpo
Finché si canta non si è morti.

Paladino dei diritti dei deboli, amico dei matti, fustigatore della follia della guerra (suo un adattamento in ceco del Disertore di Boris Vian), nemico dichiarato della pena di morte:

Quando domattina, alle cinque mi metteranno al muro
Berrò un’altra vodka alla mia salute,
Mi toglierò la sciarpa dagli occhi, che possa vedere il cielo
E dopo mi ricorderò di te, amore mio.

Quando domattina alle cinque verrà il prete
Gli dirò che si è sbagliato, che non ho voglia di andare in cielo
Che ho vissuto come ho vissuto e allo stesso modo smetterò di vivere
Ed i guai che mi sono causato devo risolvermeli io.

Fraterno e comprensivo, consolatore del dolore umano, come un buon Darmodej – folletto della mitologia della sua zona – Nohavica percorre la sua piccola nazione, fra l’amore, la stima e la gratitudine di un popolo intero.

Ieri camminava un uomo per la città lungo la via principale.
Ieri camminava un uomo per la città ed io lo vedevo dalla finestra:
Suonava col flauto un corale, suonava come una campana
E tutto il lutto era lì, dentro quel tono lungo e bello
Ed improvvisamente ho capito che è lui.

Sono uscito correndo nella strada con addosso solo la camicia da notte,
In mezzo alla spazzatura si rincorrono i ratti
E nei letti caldi di amore e di non amore
Piano si dimenano le immagini di famiglie,
Ed io volevo una risposta alle mie domande.(...)
Tremava di paura, quando mi sono avvicinato,
Nella bocca aveva il flauto di Hieronymus Bosch
La luna stava sopra le case come un uccello sull‘acqua
Come la mia coscienza, quando vomita nel bagno,
Ed io sapevo di colpo: questo è Darmodej,

Il mio Darmodej, vagabondo di destini e di amori,
Che passa per tutti i sogni, però lascia i giorni,
Il mio Darmodej, il male bello, il veleno sotto la lingua,
Quando gira le case col dizionario, vendendo aghi.

Ieri camminava un uomo per la città, un venditore ambulante,
Camminava, ma non cammina più, il sangue è caduto sul marciapiedi.
Ho preso il suo flauto che suonava come una campana
E tutto il lutto era lì, dentro quel tono lungo e bello,
Ed io ho saputo di colpo:
Io sono lui,

Il vostro Darmodej, vagabondo di destini e di amori,
Che passa per tutti i sogni, però lascia i giorni,
Il vostro Darmodej, il male bello, il veleno sotto la lingua,
Quando giro le case col dizionario, vendendo aghi.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it