Rivista Anarchica Online


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Esclusi a Buenos Aires

È una Buenos Aires drammatica e stracciona, sordida e disperata, quella ritratta nelle pagine dell’ultimo libro di Laura Pariani (Dio non ama i bambini, Torino, Einaudi, 2007), avvincente romanzo ambientato, come altri suoi lavori, in Argentina. Una Buenos Aires di inizio Novecento, abitata e popolata, in una promiscuità degradante, da un’umanità miserabile, dove i derelitti giunti dall’Italia in cerca delle opportunità loro negate nel paese di origine, sottoposti allo sfruttamento di esosi padroni di casa, si affollano in tuguri densi di umori pesanti e soffocanti, nei quali la innaturale convivenza sembra favorire ogni infamia. Sono i conventillos, sorta di piccole comunità autonome, chiuse alla sera da pesanti cancellate – dalle quali comunque il ribelle o il “malavitoso” riescono a uscire con facilità – che sembrano riprodurre, nel loro isolamento, le corti lombarde, o venete, o piemontesi, ossia i luoghi di origine della maggior parte dei loro abitanti e dei protagonisti del romanzo. Corti contadine che in Italia, allora, erano come isole sperse nella campagna, obbligate, sì, alla anacronistica conservazione di valori destinati a sparire, ma anche luoghi dove solo una forte solidarietà sociale poteva attenuare il peso della fatica quotidiana.
Bene, è proprio da uno di questi conventillos che parte, con macabra regolarità, un misterioso, crudelissimo assassino notturno, responsabile di una serie impressionante di delitti, che troppo a lungo rimarranno impuniti, e che hanno come vittime bimbi e bimbe, tutti figli della stessa comunità italiana. Si tratta, dunque, di una sorta di giallo, di un noir estremamente avvincente, spesso “raccontato” dallo sguardo dei piccoli protagonisti, ma anche costellato di puntuali e convincenti notazioni di carattere sociologico. Un noir che nel procedere della trama – ispirata a reali fatti di cronaca - ricostruisce, con duro e documentato verismo, le drammatiche condizioni di vita di questa umanità, giunta nella ricca Argentina inseguendo il mito della terra dell’oro (quanta attinenza con le storie dell’odierna esclusione!) ma che viene poi a scontrarsi con una realtà ricca solo di miseria, pregiudizio ed emarginazione. Non a caso, questi sconvolgenti delitti, così dolorosi e crudeli, sembrano compiersi nella sostanziale indifferenza di una città tutta “spagnola”, che non ritiene di dover dedicare troppo tempo ed energie a miserie che riguardano, in fin dei conti, solo gli ultimi degli ultimi.
Ma c’è un’altra voce, in questa Buenos Aires, una voce che risuona a dispetto dell’indifferenza e dell’ostilità dei criollos, convincente e sempre presente: la voce di chi cerca di sottrarsi al proprio destino di emarginazione, propugnando con forza i valori della solidarietà e dell’emancipazione sociale. E infatti spuntano frequentemente, fra le pagine del romanzo, le parole degli anarchici, dei libertari, di coloro che pretendono di parlare di coscienza sociale e di classe, di affermare la necessità della lotta senza piegare il capo, dell’utilità della solidarietà concreta e continua. Una solidarietà da spendere non solo sul luogo di lavoro lottando per salari migliori, ma anche nella vita comunitaria, nella socialità quotidiana, anche in quei miserabili conventillos nei quali, nonostante tutto, può materializzarsi la presa di coscienza della propria dignità. Quella dignità che spinge a combattere perché le gratuite angherie della società creola cessino di perpetrarsi nella più vergognosa impunità.


Libertari italo-argentini

È interessante osservare il modo in cui la Pariani riesce a inserire nel romanzo, in maniera tanto credibile quanto “necessaria”, questa presenza degli anarchici. Non è la prima volta che l’autrice accenna all’importante funzione dei libertari italo argentini nel processo di sviluppo economico e civile di quella società, e qui dimostra di aver opportunamente frequentato archivi e biblioteche (probabilmente anche la Biblioteca anarchica José Ingenieros di Buenos Aires) da cui trae testimonianze e lunghe citazioni - gli anarchici non compaiono mai in prima persona ma si presentano con i loro giornali o attraverso l’eco delle loro lotte – del ruolo primario avuto dall’anarchismo per l’affermazione di maggiori spazi di libertà. Conosciamo bene, infatti, quanto sia stata significativa la loro presenza nella società argentina di inizio Novecento, espressa anche da un quotidiano che uscirà per alcuni decenni e dall’egemonia in campo sindacale con la Federacion Obrera Regional Argentina, leader incontrastata fra il proletariato. E sappiamo anche come e quanti siano stati gli anarchici italiani che frequentarono e svolsero la loro attività in quelle terre, dai più famosi ai più sconosciuti, da Pietro Gori ed Errico Malatesta, via via fino ai tantissimi altri, anonimi e quasi dimenticati ma non meno presenti nella lotta quotidiana contro il potere.
Fra le tante figure di compagni che vissero nel paese sudamericano negli anni tratteggiati nel romanzo di Laura Pariani, senza dubbio una delle più importanti e significative è quella di Fortunato Serantoni, il fiorentino “editore errante dell’anarchia”, come lo definisce in un bel saggio biografico Adriano Paolo Giordano (Fortunato Serantoni: l’editore errante dell’anarchia, in «Editori e Tipografi anarchici di lingua italiana tra Otto e Novecento», Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo 2, 2007), importante e significativo non solo per il ruolo che rivestì nel processo di organizzazione e consolidamento dell’anarchismo in quel paese, ma anche per l’intensa attività editoriale condotta in quegli anni. Un’attività editoriale alla quale si dedicò anima e corpo in Argentina ma che già ne aveva marcato l’impegno militante anche in Spagna e in Italia. Serantoni fu infatti l’instancabile, prezioso e insostituibile editore di una miriade di pubblicazioni, periodici, riviste, almanacchi, opuscoli, fogli volanti che accompagnavano e stimolavano, con la loro regolare cadenza e massiccia diffusione, tutto quello che il movimento anarchico, soprattutto di origine italiana, esprimeva in quei vorticosi momenti.
Trasferitosi a Buenos Aires nel 1893 per sottrarsi alle attenzioni della solerte polizia italiana, divenne presto fedele interprete e soprattutto attento testimone dell’impegno dei libertari, non solo di quelli provenienti dalle fila dell’emigrazione, ma anche di quelli di madrelingua spagnola, con i quali collaborò con numerose pubblicazioni, tra le quali la prestigiosa «Ciencia Social», un coraggioso tentativo di approfondimento teorico e culturale delle tematiche anarchiche. Collaboratore di Gori quando questi visiterà il paese, fonderà anche una casa editrice, la Libreria Sociologica, costretta alla chiusura dalla repressione poliziesca, ma che riprenderà nuova vita al ritorno in patria nel 1903. La sua permanenza in Argentina fu segnata delle difficoltà e dalle privazioni che dovevano comunemente affrontare i nostri immigrati, sia quelli alla disperata ricerca di lavoro sia gli altri, là giunti alla ricerca di nuove libertà o per sfuggire alle persecuzioni poliziesche in patria. Sintomatica è la morte per difterite e morbillo, causata dalla impossibilità economica di ricorrere a cure appropriate, del piccolo figlio Comunardo. E nel leggere di quella lontana tragedia che colpì duramente la famiglia dell’editore, non si può non pensare alle vicissitudini che riecheggiano nelle pagine del libro di Laura Pariani. Brani, frammenti e notizie che riferiscono della voce e del lavoro degli anarchici italiani impegnati a migliorare la qualità della vita, loro e del popolo. E non è sicuramente azzardato vedere nelle puntuali e belle citazioni sparse nel testo, la riproduzione, se non letterale sicuramente dei contenuti, di quanto Serantoni andava scrivendo e pubblicando. Una sorta di costante e consapevole controcanto, fatto di ottimistica volontà e di chiamata alla lotta, alle disgrazie, alle miserie, ai lutti e ai dolori dei protagonisti di questo libro.

Il cane Anarchia

Trovo, in un rarissimo e interessante documento (Il terrore nella Repubblica Argentina, Castellammare Adriatico, Camillo Di Sciullo Editore, 1910), una eco delle conseguenze della dura repressione con la quale il potere governativo colpì, una volta tanto in modo democraticamente imparziale, tutto il popolo argentino, italiani, spagnoli e via andare. Vi è fedelmente riportata la cronaca dei fatti seguiti allo stato d’assedio proclamato, nella primavera del 1910, dal governo per scongiurare la minaccia di uno sciopero generale indetto dal movimento anarchico. Stato d’assedio che portò a una lunga serie di feroci atti repressivi e intimidatori da parte della polizia e dell’esercito – ma anche dei bravi figli della borghesia creola, ammalati di nazionalismo e razzismo – e che andarono a colpire ulteriormente, come se ce fosse bisogno, i residui margini di libertà.
Non sarà lettura inutile riprendere in mano, anche se solo parzialmente, alcune delle pagine di quel prezioso e illuminante opuscolo, così come sarà interessante leggere nelle parole dello scrittore argentino Osvaldo Bayer una succinta descrizione dell’importanza che ebbe l’immigrazione italiana nella promozione dello sviluppo del movimento libertario sud americano (Osvaldo Bayer, Gli anarchici espropriatori e altri saggi sulla storia dell’anarchismo in Argentina, Cecina, Archivio Famiglia Berneri, 1996).
Tornando, per concludere, alle avvincenti pagine di Laura Pariani, riusciremo a scoprire finalmente, ma come in ogni giallo che si rispetti solamente nelle ultime pagine, l’autore dei mostruosi delitti. E vedremo così che l’assassino dei piccoli italiani strappati tragicamente alle loro famiglie, non poteva essere altro che uno fra loro, un essere disperato e folle uscito da quella stessa comunità di vittime di cui si farà carnefice. Come solo dal seno di quella comunità poteva sbucare chi fosse in grado di comprendere l’indicibile verità e, di conseguenza, fermare la mano omicida.
Nel finale del romanzo, è un piccolo gruppo di monelli, la cui mascotte è il cane Anarchia e il capo riconosciuto “Garibaldi”, che trova la soluzione, a dispetto tanto dell’indifferenza delle istituzioni, qui rappresentate dagli uomini della polizia, quanto della rassegnata indolenza di chi li circonda. E qui cogliamo forse il senso più profondo della presenza dell’anarchismo in queste pagine. Quella piccola banda-comunità, priva di regole formalizzate ma governata nel rispetto e nella solidarietà reciproca, estranea e respinta dalle istituzioni alle quali si rivolge senza troppa fiducia, e pur tuttavia capace di risolvere i problemi alla radice, sembra infatti rappresentare l’unica possibilità di risolvere le contraddizioni sociali senza dovere collaborare con le autorità. E quindi con il potere. L’innocenza e l’intuito dei giovani adolescenti sono dunque l’innocenza e l’intuito di un pensiero e di una aspirazione sociale che possono costruire una società altra e più umana.

Massimo Ortalli


Nomi italiani

di Osvaldo Bayer

Dice giustamente Diego Abad de Santillán che l’arrivo di Malatesta contribuì a ritardare la nascita del socialismo in Argentina e il suo sviluppo. A questo riguardo, fondamentale fu la nascita del sindacato degli Operai Panettieri. Malatesta, redigendo lo statuto dell’organizzazione, tracciò una linea che doveva servire da norma per altre organizzazioni operaie di lotta. Parallelamente, e sempre riferendoci alla parte organizzativa, doveva diventare fondamentale, quasi tre lustri dopo, anche la presenza a Buenos Aires dell’avvocato italiano Pietro Gori nella costituzione della Federación Obrera Argentina (FOA), la prima organizzazione operaia, il cui congresso di fondazione si tenne nel salone Ligure, in calle Suárez 676, nel quartiere della Boca, abitato in prevalenza da immigrati genovesi. Dei 47 delegati operai, più della metà, 26, avevano nomi italiani: Colombo, Magrassi, Ponti, Montale, Moglia, Larrossi, Cuneo, Garfagnini, Ferrarotti, Cavalieri, Barsanti, Berri, Di Tullio, Rizzo, Negri, Oldani, Mosca, Bernasconi, Lozza, Barbarossa, Grivioti, Patroni, Basalo, Mattei, Bribbio e Pietro Gori.

 

Beffarda ironia

di Osvaldo Bayer

Attualmente, l’anarchismo argentino è solo un ricordo, una tradizione, una linea storica, forse la più pura come lotte e sacrifici, del movimento operaio. Ma, sebbene l’ideologia sia rimasta indietro, il movimento operaio che nacque con essa e che successivamente prese altre strade, rimane inalterato. Nessuna dittatura militare è riuscita a distruggerlo. La coscienza dei diritti dei lavoratori rimane sempre viva.
È questo forse il merito dei Malatesta, dei Gori, degli immigrati italiani e spagnoli e di altre nazionalità che giunsero nella nuova terra e dedicarono tutte le loro ore libere e perfino la loro vita alla politicizzazione del proletariato che si stava formando. Il ricordo di questo merito è l’omaggio a tutti quelli che furono espulsi da leggi repressive o vennero assassinati o subirono il carcere per le loro idee.
Un luogo comune dei nostri politicanti demagoghi è quello di ripetere ogni anno, nella Giornata dell’Immigrato, che questi stranieri sono venuti a “costruire la Patria col martello e con l’aratro”. Ci si dimentica sempre di coloro che ci portarono ideali di redenzione e ci insegnarono a pronunciare per la prima volta la parola solidarietà, tanto preziosa come il vocabolo libertà, di cui parla il nostro inno nazionale e che, nell’attuale Argentina, non è altro che beffarda ironia.


Il terrore bianco

di AA.VV.

“Come è noto, dinanzi alla minaccia dello sciopero generale rivoluzionario proclamato per il 18 corr. dalla Federazione Operaia, il Governo ha decretato lo stato d’assedio in tutta la Repubblica.
“Alcuni gruppi di studenti, irritatissimi, perché lo sciopero era diretto contro le feste centenarie, hanno dato l’assalto alle redazioni del giornale anarchico La Protesta e del giornale socialista La Vanguardia, ed hanno distrutto il materiale e le macchine. Quindi hanno fatto una clamorosa dimostrazione nelle vie. È avvenuto un tumulto davanti al Sindacato socialista ed in altri punti della città.
“I dimostranti percorsero le vie cantando l’inno argentino”.
Senza dubbio la Federazione della quale qui si parla deve essere la Federazione Operaia Regionale Argentina la quale, a quando apprendemmo nei giorni scorsi dalla Protesta, pareva intenzionata a dichiarare lo sciopero generale qualora quella borghesia e quel governo non avessero cessato di perseguitare sempre più ferocemente gli anarchici, le loro idee, la loro stampa, i loro locali. Era questa una semplice minaccia; ma si vede che il Presidente della repubblica Argentina ha avuto paura. Egli così, con l’approvazione del Parlamento, ha decretato lo stato d’assedio in tutto il paese dopo quattro mesi soli dal giorno in cui l’esosa misura era stata tolta.


Una pesciata nel culo

di Laura Pariani

Dicevano che qui a Buenos Aires si faceva la Merica, coi soldi da raccogliere a palate sulle piante e per strada, così Fiore è partito per il mondo, cammina cammina, un passo innanzi e quattro indré, aveva la mente piena di speranze, credeva di trovare un avvenire verto. Seeh, col fischio. Lavoro nisba. E mica solo per lui: non passa mese senza uno sciopero. Prima quello dei portuari, dei peones del Mercado Central, dei ferrovieri, adesso quello dei panettieri, ché per i pitocchi italiani è sempre la stessa musica. La contano facile gli anarchici che vengon qui al conventillo a riempirci la testa coi só discorsi, rimugina Fiore tra sé: fanno e disfanno senza pagare il conto, quello tocca a noialtri poragente. Ché, dopo gli scioperi, via con i controlli, le perquisizioni della polizia, la Ley de Residencia con cui ti sbattono fuori dall’Argentina quando vogliono con una pesciata nel culo, una minaccia che ti pende sulla testa se provi a fare un passo falso.
Per questo Fiore di scioperi non ne fa, dicano pure tutte le cagate che vogliono quei fuori di testa della Società Operai Italiani, che lo chiamino pure crumiro e venduto: l’hanno perfino preso a sassate una volta quando si è rifiutato di aderire a una manifestazione. Ma non si scherza con la Polizia, e la Comisaría sta proprio qui dietro, di fronte all’Hospital San Roque. Basta, facciamola finita, via, andare. Ché tutti, quando l’ora l’è rivâ, dobbiam sleppare la terra cunt ul musôn, ma adesso è ancora tempo di bere.

 

Una cagna di nome Anarchia

di Laura Pariani

Borbotta da solo. La cagna lo sbircia col suo unico occhio, ascoltando paziente. “Guarda che io me ne frego se tu hai voglia di mordere una delle caviglie delle guardie, – dice Ambrogio, – sono mica brava gente, le guardie: non hanno saputo neanche trovare l’assassino del mio Alfredino. E il capo della Comisaría, quello che chiamano Flaco, ha avuto il coraggio di dirmi che non aveva tempo da perdere per cercare dov’erano stati sepolti l’Alfredino e la Marisa. Certo, se fossi stato ricco, sarebbe stata un’altra solfa... Sbuffava, capisci? diceva: E poi cosa vorresti disseppellire? carne mangiata dai vermi? ossa? La fede nuziale l’avranno già rubata i becchini e così pure la medaglietta della vergine del Buon Soccorso che l’Alfredino portava al collo... Ché poi a cosa gli è mai servita quella dannata medaglietta? Ma a quei tempi credevo ancora nel Signúr e nei suoi miracoli. Il curato è venuto e mi ha detto che il Signore dà e il Signore toglie. Allora ho smesso di aspettare i miracoli. Dio, ti dimentico, ho detto. Basta. Finito…”.
La cagna è venuta ad appoggiare la testa sulle ginocchia di Ambrogio che prende a carezzarle il collo, con dolcezza: “Guarda, sai cosa ti dico? Che fai bene a mordere le caviglie delle guardie e dei preti. Fai proprio bene. E di nome ti voglio chiamare Anarchia, ma che resti un segreto tra me e te”.


La patria è una mistificazione

di Laura Pariani

Dal foglio anarchico “I dannati della terra”, dicembre 1908

Si svolsero in plaza Miserere i funerali di Annibale Silvestri, manovale muratore di anni 21, pestato a sangue dalla polizia lo scorso 1° maggio e mai più riavutosi. Avendo la Gendarmeria negato il permesso di portare ai funerali le bandiere rosse, purtuttavia per le esequie convennero in molti, non solo suoi compagni di lavoro ma anche cocchieri, distributori di pane, stivatori del porto, gente di tutte le nazionalità, tutti comunque ostentando la cravatta rossa. Onore al martire, Odio eterno ai boia.

In occasione della funzione di gala celebrata il mercoledì scorso al Teatro Rivadavia, alcuni nostri fratelli italiani e spagnoli, membri del corpo musicale che attuava in apertura di detta funzione, si rifiutarono di cantare l’inno nazionale argentino. Ne nacque una accesa discussione tra pubblico e musicanti.
Fratelli, ricordiamo: la patria è una mistificazione. Il mondo intero ci alberga: non abbiamo confini né un pezzettino di terra da difendere.

Riguardo ai gravissimi delitti degli ultimi dí, leviamo un pensiero alle terribili condizioni dei bambini dei nostri conventillos, vere e proprie topaie indegne del nome di casa. La miseria che spinge al delitto, l’ignoranza dei genitori spesso analfabeti che ancora non comprendono l’importanza dell’istruzione per i propri figli, la necessità di una degradante vita in comune, la frequenza con cui in tale promiscuità i piccoli assistono a fatti crudeli, la perenne depressione dello spirito, le ingiustizie patite ogni giorno, pervertono e distruggono i principi della vita morale che ogni giovane vita possiede.


Pipotto

di Laura Pariani

Epperciò sono venuti qui gli anarchici a parlare con discorsi differenti, tutti noi siamo stati a scoltarli con l’immaginazione di rifare tutto di nuovo, buttare nel río fame e padroni; ché il male, ci spiegavano, stava nel fatto che noi l’anarchia non sapevamo cosa fosse, è stato con lo sciopero che abbiamo aperto gli occhi, le abbiamo capite le cose anca se non siamo stati alla scuola, qui al conventillo pressoché firmiamo con la croce, del resto il nostro nome conta poco, chi siamo, cosa importa essere chiamati Pipotto o Togn, l’importante è presentarsi forti, meglio avere muscoli da bue che anima da cristiano, la nostra firma vera la facciamo sul lavoro col martello o il badile, uno vale seconda i quintali che è buono di portare in spalla, allora sí che i padroni ti cercano, puoi pretendere il tó posto, uno dovrebbe avere il diritto, invece i preti in chiesa sempre: dovete, dovete. Chissà perché sono sempre i pitocchi che devono: se perdi la pazienza c’è l’obbligo di confessarsi subito, lo sciopero è peccato. Eppure io non sono convinto che Cristo ha detto così, non ci posso credere. Al mondo invece funziona a ‘sto modo che i padroni ci provano sempre a tenerti sotto, lo sanno anche i sassi, ma questo non vuol dire che devi mangiare merda solo perché te la mettono davanti al naso.
Comunque poi di seguito è arrivata la polizia e hanno fatto una retata e molti, anche il Tino della Corte di Ursi, è finito alla Penitenciaría.
Cara Madre, ricordatevi di noi nelle vostre preghiere, che io non mi dimentico mai del giorno che ce ne siamo venuti via un anno fa,
il vostro figliolo Pipotto.


Son todos iguales

di Laura Pariani

Il pomeriggio di questa domenica è un deserto, a parte uno stormo di colombi che gira sull’incolto. Pablito racconta del neonato che hanno trovato morto: lui era presente quando i poliziotti hanno portato via il corpo.
“Certo che ce n’è di fetenti in giro”, dice Tilio. Il gemello ripete la frase aggiungendo: “Chissà chi è stato...”.
Saro, un bassetto scuro che tutti chiamano Sicilia, scrollò le spalle: “Che importa? Tanto non lo troveranno mai. Alla polizia non gliene frega niente dei bambini morti. Mio zio Onofrio dice che è per il fatto che sono figli di italiani. Ecco perché”.
Maurilio scuote la testa: “Ma va’…”.
Saro reagisce con stupore: “Maccome, Garibaldi, non vorrai mica dire che le disgrazie di questo quartiere non vengono dal fatto che è un barrio d’italiani?”.
Maurilio borbotta: “Certo, Sicilia, l’essere italiani e abitare qui significa essere poveri e vivere in case di merda”.
“I vigilantes ci guardano dall’alto in basso. Eppoi sono prepotenti. Ayer mismo uno di loro al mercato ha fermato me e il Gordito e ha voluto che gli consegnassimo quello che avevamo guadagnato, altrimenti ci metteva dentro per vagabondaggio”, insiste Saro.
“Son todos iguales. Lo que buscan es dinero”, dice Tilio.
“Una mierda”, è quasi un coro.
Maurilio zittisce il resto della banda: “Tutto vero. Ma non è di questo che stavamo parlando. Quella dei bambini morti è un’altra faccenda. Non è solo la polizia che ce l’ha coi bambini. Ché i nostri genitori, i nostri zii, gli italiani dei nostri conventillos non si comportano meglio con chi è piccolo. Neanche a loro importa niente dei bambini, morti o vivi che siano”. La voce di Garibaldi ha un tono amaro.
“È che la gente è senza cuore: guarda gli zii dell’Isacco, che scherzetto gli hanno fatto”, sbotta Pablito.
“Di cuore non ce n’è da nessuna parte. Forse da bambini se ne ha un po’, poi si diventa grandi e si diventa stronzi”.
“Il parroco dice che. . .”.
“Lascia perdere i preti. Da questa parte dove noi abitiamo Domineddio non guarda. Ti ricordi quella storia che raccontava don Vincenzo all’epoca in cui andavamo a dottrina? Quando tutto il mondo era schifoso e c’era una città che in schifezze le vinceva tutte? Allora Dio la distrugge. Non mi è mai piaciuta quella storia. E non c’erano forse bambini anche laggiù...? Ve lo dico io: Dio se ne frega dei bambini.”.