Rivista Anarchica Online


energia

Il ritorno del nucleare
di Massimo Varengo

 

Dopo Chernobyl è stato quasi un tabù. Poi piano piano i sostenitori dell’energia nucleare sono rispuntati come funghi, mettendo in atto una campagna tendente a illustrarne i vantaggi (e la sicurezza).

Il terremoto che ha colpito il Giappone il 16 luglio scorso ha riproposto in termini molto chiari la questione della sicurezza delle centrali nucleari, a 21 anni dal disastro di Chernobyl. Nella più grande centrale atomica del mondo, quella di Kashiwazaki-Kariwa, il sisma ha innescato un incendio in un trasformatore di elettricità ed ha provocato una fuoriuscita di ‘acqua contenente materia radioattiva’. La compagnia che gestisce l’impianto – Tepco, primo produttore di elettricità dell’Asia – si è ovviamente preoccupata di tranquillizzare immediatamente la popolazione, comunicando dati che si sono rivelati successivamente falsi, confermando in questo il proprio atteggiamento manipolatorio: nel 2002 Tepco era già finita al centro di uno scandalo per la falsificazione sistematica dei dati sulla sicurezza dei suoi impianti nucleari. Nello stesso periodo la polizia tedesca ha perquisito l’impianto nucleare di Krummel alla ricerca di documenti che i gestori rifiutano di consegnare, ostacolando gli accertamenti su un incidente avvenuto il 28 giugno nella centrale. Un ulteriore esempio di quale rispetto nutrano le compagnie elettronucleari nei confronti delle popolazioni.
Quello che è successo in Giappone dovrebbe smentire i paladini ad ogni costo del nucleare, quelli che hanno sempre sostenuto che le 55 centrali nipponiche, costruite su un territorio altamente sismico, sono la dimostrazione delle capacità costruttive dell’ingegneria nucleare. La stessa Tepco ha dovuto ammettere che la sua centrale era stata progettata per resistere ai terremoti, ma fino ad una certa intensità, evidenziando il fatto che non esistono centrali intrinsecamente sicure Ma i paladini non demordono: c’è chi si richiama al presidente Lula che vuole costruire un terzo reattore in Brasile, per sbeffeggiare gli ambientalisti nostrani, chi prospetta la costruzione di impianti in grotte scavate sotto le montagne per abbinare sia la fase produttiva che lo smaltimento delle scorie; addirittura Benedetto XVI si è scomodato per invitare alla costruzione di nuovi centrali nucleari e ad ‘accrescere il contributo dell’energia atomica alle cause della pace’ e il famoso oncologo Veronesi si sta spendendo sullo stesso fronte, cercando di convincere il premio Nobel per la fisica Rubbia, decisamente contrario.

Una risposta seducente

In tempi di guerra per il controllo delle risorse energetiche e di mutamenti climatici vistosi che prospettano scenari inquietanti, se non catastrofici, per tutte le specie viventi su questo pianeta, era inevitabile che di energia nucleare si tornasse a parlare.
Ad impatto zero sull’effetto serra, meno inquinante del petrolio, non dipendente dalle forniture dalle zone di crisi e di conflitto, l’energia nucleare viene presentata come una risposta seducente a tutte le incertezze di un mondo economicamente sviluppato che vuole mantenere ad ogni costo i suoi stili di vita. Le stesse conclusioni dell’IPCC sul cambiamento climatico presentate a Bangkok, relative alle tecnologie per contrastare il surriscaldamento, sostengono di fatto il rilancio del nucleare, nonostante l’insensatezza di affermare che se nei prossimi 10-15 anni non si realizzeranno consistenti abbattimenti delle concentrazioni di CO2 – in modo da contenere l’aumento di temperatura entro i due gradi – il clima sulla terra darà origine a catastrofici mutamenti ambientali, quando poi per realizzare una centrale ci vogliono almeno 10 anni.
Dal canto suo l’Unione Europea invita a non smobilitare il nucleare e di conservarlo all’interno dell’ampio ventaglio delle fonti energetiche in uso, e nei tre paesi che avevano annunciato da tempo la chiusura delle loro centrali – Germania, Gran Bretagna e Svezia – si è riaperto il dibattito sull’opportunità di mantenere aperta l’opzione atomica. Anche in Italia, per iniziativa di Edison ed AEM Milano, sono in corso tentativi di consorziare compagnie elettriche ed industrie dell’acciaio per la costruzione di uno o due impianti in collaborazione con partner internazionali.
Sui pericoli del nucleare molto si è detto e si è scritto. Nella memoria europea sono ancora vive le immagini della catastrofe di Chernobyl e sulla carne di molti ucraini sono visibili gli effetti delle radiazioni.
Qualcuno sostiene che i reattori definiti di ‘quarta’ generazione, siano puliti e talmente sicuri da escludere ogni possibilità di incidente. Lo dicevano anche prima degli incidenti di Three Mile Island negli USA e di Chernobyl. Ma anche se così fosse ci sono alcune questioni che permangono al di la del progresso realizzato nella costruzione delle centrali. Vediamo il perché.

Problemi irrisolti

Il principio di funzionamento di una centrale nucleare si basa sulla reazione di fissione di materiale fissile, generalmente uranio 235, che avviene in modo controllato, diversamente da quanto avviene con la bomba atomica. Il controllo si attua mediante l‘inserimento di opportune barre il cui posizionamento permette la regolazione della potenza del reattore o il suo spegnimento. L’energia liberata, sotto forma di calore, viene utilizzata per generare vapore surriscaldato che fa girare una turbina la quale, tramite un alternatore, produce energia elettrica. Nel corso dell’esercizio il materiale combusto all’interno del reattore, ormai esausto, va poi smaltito costituendo un sottoinsieme di rifiuti radioattivi di vario livello: le cosiddette scorie. In realtà le barre controllano solo la reazione primaria della fissione , ma non le reazioni secondarie dei prodotti della fissione. Ed è per tale motivo che, una volta avviato il reattore, vi è la necessità di raffreddare il nocciolo pena la sua fusione immediata con conseguente distruzione del contenitore e la fuoriuscita di materiale radioattivo (come è successo a Chernobyl) e anche dopo la sua cessazione la centrale deve essere raffreddata continuamente per molto tempo ancora.
Entriamo nel merito dei problemi posti e che rimangono tuttora irrisolti.
L’impatto sull’ambiente, per iniziare, dovuto al fatto che la costruzione di una centrale richiede tempi lunghi ed un numero significativo di lavoratori che devono stazionare in una zona all’origine scarsamente popolata e generalmente ad economia agricola. Ciò comporta abitazioni, strade e servizi per tutto il tempo necessario, modificando profondamente l’habitat di partenza. Quando i lavori saranno finiti, sarà praticamente impossibile ritornare alle origini. Inoltre una centrale ha una vita di 50-60 anni, dopo di allora deve essere abbandonata passando il testimone ad un’altra centrale che presumibilmente verrà costruita nelle immediate vicinanze.
Poi ci sono gli effetti dell’inquinamento termico, dovuto al riscaldamento delle acque di raffreddamento dei condensatori, acque che sono prelevate da fiumi vicini e utilizzate in grandissime quantità per poi venire restituite al fiume stesso, provocando sbalzi di temperatura e variazioni di pressione, apportando con se sostanze disciolte di natura anticorrosiva impiegate per la pulizia delle condotte. Gli effetti sulla fauna ittica sono devastanti.
Vi è poi l’irrisoluto problema dello smaltimento delle scorie, triste eredità lasciata alle generazioni successive per centinaia, migliaia di anni. Si tratta di migliaia di tonnellate prodotte annualmente nel mondo, che restano pericolosamente attive, la maggior parte per 300 anni, gli attinidi minori per circa 10.000 anni, il plutonio per 250.000. E se è vero che i reattori di ‘quarta’ generazione rilasciano meno scorie è altrettanto vero che si tratta di residui di lavorazione più radioattivi e più longevi.
In caso di incidenti poi vi è il danno biologico sui corpi viventi, dovuto all’assorbimento dei prodotti della fissione nucleare come il cesio 137, lo iodio 131, lo stronzio 90, ecc. che, interagendo con l’organismo umano, possono provocare l’insorgere, in crescendo, di dermatiti e arrossamenti, di anemia, leucemia, tumore e, in caso di dosi molto elevate, portare alla morte. Anche dosi piccole possono provocare conseguenze a lungo termine: si possono avere tempi di latenza lunghissima (20 anni per la tiroide, 25 per la pelle) il che rende molto difficili gli studi epidemiologici. In buona sostanza gli incidenti nucleari non possono essere paragonati a quelli convenzionali: mentre questi ultimi sono ristretti nello spazio e nel tempo, i primi non hanno limiti né territoriali né temporali.
Ma anche in caso di funzionamento normale, ricerche effettuate nei confronti degli abitanti prossimi ad alcune centrali (come quella di Big Rock Point negli USA) hanno evidenziato una percentuale ben più alta di quella nazionale riguardo i deceduti per leucemia o la nascita di bambini portatori di anomalie fisiche o celebrali.
C’è ancora un altro aspetto che generalmente viene sottovalutato ed è quello riguardante la loro convenienza economica.
Innanzitutto il sistema ‘nucleare’ è un sistema assolutamente rigido: una centrale infatti per funzionare efficientemente deve essere operativa all’85% della sua capacità per i suoi 50-60 anni di vita. Il che vuol dire che non si può mai fermare o lavorare al di sotto di quel valore: in caso di diminuizione della domanda di energia la centrale deve continuare a produrre e dovranno essere le altri fonti ad adeguarsi. Ma questo è possibile in regime di concorrenza?

Una nuova campagna

Un secondo problema investe i costi. Nel bilancio di una centrale, il combustibile ha un peso del 5%, il restante 95% è dovuto ai costi di costruzione. Se ne deduce che se per le altre fonti è il prezzo del combustibile che ne determina la convenienza, nelle centrali sono i tassi di interesse sui mutui accesi a farla da padrone. Ciò vuol dire che per affrontare una spesa del genere l’energia prodotta deve essere competitiva per qualche decennio con quella prodotta da altre fonti per poter rimborsare il debito. Ma in un mercato instabile come quello dominato dalle logiche del capitalismo non vi sono sicurezze.
Se in Finlandia si possono permettere la costruzione di una centrale è perché, oltre a contare sui finanziamenti per i paesi in via di sviluppo, prezzo e mercato sono garantiti in partenza: i clienti sono gli stessi azionisti; mentre in Francia se ne può mettere in cantiere un’altra perché il settore energetico è in regime di monopolio e può scaricare i costi sulla bolletta dei cittadini. Dove c’è concorrenza le centrali potrebbero andare in rosso come in Gran Bretagna nel 2002 dove Blair dovette intervenire per salvare British Energy (la holding delle centrali inglesi) dalla bancarotta.
Un terzo problema riguarda i tempi. Per costruire una centrale ci vogliono dai 10 ai 15 anni. Se si parte ora che scenario energetico globale ci sarà allora? E poi le riserve d’uranio sarebbero sufficienti? L’Agenzia ONU per l’energia atomica, nel suo rapporto del 2001, valutava in 35 anni la riserva di uranio fissile, al consumo di allora.
Domande alle quali non ci può essere risposta e che spiega perché negli Stati Uniti ed in Europa la questione nucleare è stata ridimensionata negli ultimi anni, perlomeno fino ad ora.
Sicuramente non secondari sono poi i problemi legati alla militarizzazione del territorio ove è situata la centrale per difenderla da attacchi terroristici di qualsiasi tipo e alla necessità di stabilizzazione della politica energetica, visti i tempi lunghi della filiera nucleare che necessitano di stabilità sociale e di ordine gerarchico. Se già in Italia solo per impedire lo stivaggio di scorie radioattive delle vecchie centrali in disuso abbiamo avuto una rivolta popolare a Scansano Ionico, quali misure poliziesche dovranno essere prese per costringere le popolazioni ad accettare nuove centrali? Non è sicuramente un caso se Berlusconi, quando ancora era premier, sollecitò l’Unione Europea a farsi carico dell’imposizione di una nuova politica nucleare in grado di scavalcare i singoli governi nazionali, incapaci di fare fronte alle prevedibili proteste delle popolazioni. Recentemente è stato Chicco Testa, ex presidente dell’Enel, a sostenere ‘l’incapacità del paese, con questo quadro istituzionale, di decidere su problemi strutturalmente complessi’ come il nucleare.
Quello che è certo è che nei prossimi mesi assisteremo ad una nuova campagna per convincerci della bontà della soluzione nucleare, una campagna altamente inquinata dagli interessi degli attori in campo e nella quale sarà importante avere le idee ben chiare per contribuire ad una chiara definizione del problema energetico.

Massimo Varengo