Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

José Mario Branco
Attraversando i deserti: la strada, i suoni e le parole

Resistere è vincere? La notte era passata, ma l’agitazione restava, le notizie erano esaltanti. Troppo esaltanti. Quasi incredibili.
Cosa avrebbe davvero trovato nella terra abbandonata anni prima agli assassini l’artista-resistente che tornava? Possibile davvero che le tenebre fossero vinte e che si potesse dire addio a cinquant’anni di fascismo? E i fascisti, davvero non sarebbero più tornati?
In quei giorni si raccontava un sinistro aneddoto: gli ufficiali della PIDE, la polizia segreta di Salazar, asserragliati nel loro famigerato quartier generale, resistevano alla pressione dell’esercito rivoluzionario; fintanto che bruciavano i documenti più compromettenti, inviarono una delegazione a parlamentare e si offrirono di passare, armi e schedari, ai nuovi vincitori “Tanto di noi c’è sempre bisogno”.

Davvero si sarebbe costruito un nuovo Portogallo in cui non ci sarebbe stato più bisogno di polizie segrete?
La domanda era necessaria, come si dice in portoghese precisa, a maggior ragione per chi, a costruire questo nuovo Portogallo, si adoperava già da anni nella clandestinità, nella repressione, nel carcere e poi nell’esilio parigino.

Quanti dubbi feroci, quanta feroce esaltazione e quanti sogni in viaggio sull’aereo che, il 30 aprile 1974, riportava a casa – insieme ad altri musicisti e poeti costretti da lungo tempo all’esilio – Jose Mario Branco, una delle più lucide, rigorose, geniali e inflessibili menti musicali dei nostri anni.
Aveva dovuto sparire dalla circolazione più di dieci anni prima, nel giugno del ’63.
Militante dei gruppi giovanili dei cattolici sociali, poi del partito comunista, nell’aprile del ’62, a soli 19 anni, era stato prelevato dalla PIDE e imprigionato per 5 mesi. Appena libero gli era stata recapitata la cartolina per il servizio militare, che voleva dire la guerra coloniale. Per Jose Mario questo era impensabile, e benché il partito comunista portoghese non avesse preso una chiara posizione contro la guerra (e questo fu per il nostro il primo motivo della rottura che negli anni seguenti lo avrebbe portato a militare su posizioni ben più estremiste), lui per nulla al mondo avrebbe preso le armi contro i popoli africani… restava dunque l’esilio, la fame, i lavoretti per mantenere la famiglia che aveva prontamente messo su, le prime canzoni – parte in francese parte in portoghese – i concerti; poi lo studio, sempre più approfondito della musica, il professionismo e i primi dischi, che arrivarono in Portogallo come una rivoluzione prima della rivoluzione, benché l’autore non ne potesse sostenere la diffusione. Poi il 25 aprile 1974: la rivoluzione dei garofani.

E ora tornava non per ricevere medaglie e cantare le lodi del Portogallo rinato, ma per continuare, in mezzo a mille difficoltà, con un gusto della provocazione e della polemica mai sopito, a mettere pungoli nella coscienza collettiva del suo popolo, con le parole, con la musica, coi suoni e con un’inesausta serie di tentativi di far corrispondere, all’enunciazione rivoluzionaria, una pratica di estrema coerenza nell’affrontare il proprio ruolo di intellettuale contro; per lunghi anni Branco ha contribuito a fondare collettivi, sindacati e cooperative che consentissero ai lavoratori dello spettacolo una vera gestione indipendente della propria attività.
Pur con le medaglie culturali e politiche dei suoi due primi apprezzatissimi dischi e la fama di massimo arrangiatore sulla piazza, non si pensi che la strada di Branco, una volta tornato in Portogallo, sia stata in discesa, tutt’altro: i produttori non hanno mai creduto in lui. Quanto ai suoi propri dischi, sempre più ambiziosi e radicali, è dovuto ricorrere regolarmente all’autoproduzione, col sistema della pre-vendita al pubblico, per finanziarne i costi di registrazione e stampa.

Parliamone dunque: l’opera di Jose Mario Branco, che non consta solo dei suoi 8 dischi, ma anche dei lavori a cui ha apportato coi suoi arrangiamenti un valore incalcolabile, è fra le cose più importanti che la musica d’autore portoghese abbia prodotto. La sua concezione del genere canzone è innovativa a 360 gradi.
Sfuggito alle pastoie del folklore urbano posticcio in cui si era cristallizzato il Fado, perché, come tutta la sua generazione, considerava questa forma una sorta di omologazione musicale imposta, dalla politica culturale della dittatura, per dare del Portogallo un’immagine immobile, seppe non fermarsi alla banalizzazione delle formule, filtrate dal pop e dalla canzone di protesta angloamericana, a cui si attennero troppi suoi contemporanei.
La canzone francese, di cui si imbevve negli anni della formazione, il jazz, la psichedelia dei Beatles, il Blues, lo condussero – attraverso un uso imprevedibile di suoni e rumori e la scarnificazione dell’armonia – a ritornare alle origini di un folklore contadino, che nei suoi primi due dischi ha il sapore di certa musica modale, una moderna riformulazione del cantico medievale.
Qui va anche posta la precisazione che cercare di dare una visione d’insieme dello stile compositivo di questo artista è impossibile: non c’è un solo suo disco che assomigli a un altro. J.M.Branco ha sostenuto che la riflessione da cui mosse il suo pensiero musicale si articolò intorno alla percezione che la musica portoghese appariva eminentemente votata alla tristezza, quando al contrario, a ben analizzarne le forme popolari, queste esprimevano una vitalità e una varietà che era evidentemente il vero carattere dei portoghesi; persino Zeca Afonso, il nume tutelare e il sommo genio, di cui Branco non ha mai cessato di tessere le lodi, che pure aveva introdotto nelle sue canzoni una levità pregna di poesia e di rivolta, non aveva spinto la sua ricerca fino a un rapporto vocale/strumentale che fosse intrinsecamente allegro, e che – allegramente – calpestasse tabù, prescrizioni e idee preconcette.
Proprio Zeca comunque, che conobbe Branco nel ’69 durante un concerto a Parigi, ne intuì il genio. Oltre a procurargli il primo contratto discografico e ad avallare, con la sua indiscutibile personalità, l’arte del giovane collega, gli affidò l’arrangiamento di quello che viene considerato l’LP più emblematico della musica portoghese “Cantigas do Maio” (1971), per intenderci, il disco che contiene quella “Grandola villa morena” la cui trasmissione per radio, la notte fra il 24 e il 25 aprile ’74, fu il segnale dell’inizio della rivoluzione dei garofani. A mio avviso Branco fece per Zeca ancor di più col successivo “Venham mas cinco” (1973), le cui meravigliose soluzioni musicali si accostano all’immensità dei brani, per uno degli album che io consiglierei a chiunque.

A Parigi, con José Afonso

Ma per tornare già solo ai dischi prodotti da Branco a proprio nome, ognuno meriterebbe un discorso a sé. I primi due (quelli del periodo dell’esilio) “Mudam-se o tempos mudam-se a vontades” (1971) e “Margem de certa manera” (1972) hanno messo le basi alla canzone portoghese moderna, una musica mai sentita prima. “A Mae” (1978), che raccoglie le canzoni originali scritte per una messa in scena da Brecht, è ispirato alle tradizioni orali più sconosciute e ai canti dei pescatori, con un impatto sonoro le cui formule corali creano una moderna “canzone di gesta” eroica. Poi ancora, “Ser solidario” (1982) e “Correspondencias” (1991), i dischi più propriamente di canzoni, giungono a una riformulazione della musica portoghese (e persino a una riconciliazione col Fado!) per tramite di tutte le influenze musicali avvicendatesi nella vita dell’autore: rock, jazz, funky, canzone francese… E in mezzo c’è ancora il proto-rap di “FMI” (1981), satira e arringa di violenza devastante contro il Fondo Monetario Internazionale e la degenerazione degli ideali della sinistra nell’Europa del riflusso, e, in contrasto con la voluta povertà di quest’ultimo, “A noite” (1985) un grandioso poema musicale di mezz’ora per coro, orchestra sinfonica e voce solista; opera viscerale e vomito di rabbia il primo, distillato di poesia e armonie celestiali il secondo.

Dopo il disco del ’90 più d’un decennio di silenzio, interrotto solo da un live nel ’97, occasione per riascoltare la maestria di Branco nella riscrittura e revisione della propria opera. Il lungo silenzio di una tale prodigiosa creatività però cominciava a pesare, se non che, nel 2004, la pubblicazione di “Resistir é vencer” (…e già solo il titolo!) ha rappresentato la summa di tutta l’arte e di tutte le forme della canzone portoghese moderna. Il disco è una sfida lanciata alla povertà ideale e culturale e un canto di speranza per le sacche di resistenze e di dignità che sussistono al mondo, un’opera di poesia e di coraggio, un canto d’amore per l’uomo contro la morte globalizzante che vorrebbe ghermirci.
Per dischi così si può aspettare anche la vita, e ne vale sempre la pena.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it