Rivista Anarchica Online


capitalismo

Cambia il pelo non il vizio
di Antonio Cardella

 

Comunque lo si rigiri, il sistema economico incentrato sugli USA, contribuisce a rendere sempre più ricchi i ricchi. Anche le ultime vicende lo confermano.

 

Ho cercato con una certa caparbietà, tra le pieghe degli eventi di questo pazzo mondo contemporaneo, qualcosa che servisse a risollevare il morale, che valesse ad iniziare con ottimismo questa nuova stagione della mia collaborazione con la Rivista. E mi sembrava di averla trovata, questa nota di ottimismo, nelle analisi di accreditati centri di ricerca, quali il Goldman Sachs, che danno il PIL planetario, cioè la ricchezza prodotta dall’economia globalizzata, in crescita impetuosa.
Secondo tali dati, in dieci anni, a partire, cioè, dal 1998, la crescita è passata dal 2,8 al 4,9%, con punte del 5,3 e del 5,1% rispettivamente negli anni 2004 e 2006. Se si analizzano gli apporti delle singole economie a questo straordinario rilancio, si vedrà che i paesi emergenti (Cina, India, Brasile e Russia inclusi) hanno contribuito con il 47,7%, mentre hanno rallentato le tradizionali economie avanzate, quella americana in particolare.
Tutto bene – si dirà – è normale che paesi condannati per secoli al sottosviluppo e all’emarginazione si riscattino da questa loro condizione e si affermino nella competizione internazionale, soprattutto nell’acquisire quote significative nei mercati mondiali.
Ma occorre verificare anche che questi processi, apparentemente di normale avvicendamento nella storia dei popoli, non siano malati, avvengano cioè nel contestuale mutamento delle ottiche che nei contesti che si soppiantano hanno provocato squilibri insostenibili. Su questo piano le cose non sembrano procedere nel modo migliore. Se le economie occidentali, quelle tradizionali basate sulle logiche di mercato (un mercato esistente sui testi accademici piuttosto che nel concreto dei processi produttivi e distributivi) hanno certamente contribuito a migliorare le condizioni di un’area popolata da poco più di ottocento milioni di anime, è altrettanto vero che di tale miglioramento non hanno risentito, se non molto marginalmente, i rimanenti cinque miliardi e mezzo della popolazione mondiale.
Non solo, ma anche all’interno di quest’area privilegiata del benessere, il gap tra i ricchi e i poveri è cresciuto e non vi è chi non veda nelle città della ricca Europa e dell’opulenta America zone di sofferenza insostenibili, un degrado crescente che nessuna politica solidaristica riesce ad arginare.

Illustrano questo articolo alcune immagini scattate a Wall Street

La Cina, per esempio

La speranza era, quindi, che i paesi emergenti sfuggissero alle dinamiche di sviluppo del capitalismo maturo e imboccassero strade diverse, si inventassero insomma processi politico-economici che consentissero, insieme alla crescita complessiva, di bonificare i grandi squilibri tra le vaste zone di povertà esistenti al loro interno e la parte più ricca dell’imprenditoria produttiva e finanziaria, concentrata normalmente nelle grandi metropoli (sorte anch’esse, purtroppo, sui modelli verticalizzanti dei grandi centri urbani statunitensi ed europei).
Le aspettative in questo senso sembrano largamente disattese.
Se si pensa alla Cina, è del tutto evidente che le fonti principali della sua crescita sono lo sfruttamento della propria forza-lavoro, e le grandi risorse investite per acquistare valuta e titoli esteri per mantenere basso il valore della propria moneta.
Con lo sfruttamento del lavoro, oltre a mantenere basso il livello dei redditi familiari, la Cina (ma non soltanto la Cina) offre alle grandi imprese multinazionali l’opportunità di delocalizzare le proprie attività imprenditoriali, di moltiplicare i loro utili e di sottrarsi contemporaneamente a quei vincoli che le legislazioni nazionali in Occidente hanno messo a punto, nel tempo, per salvaguardare il lavoro. Di questa situazione sono esempi quotidiani lo sfruttamento del lavoro minorile, l’inesistente normativa sulla sicurezza del lavoro, l’utilizzo di materie prime a basso costo che restituiscono prodotti finiti di infima qualità quando non addirittura nocivi per la salute dei consumatori.
La seconda fonte di crescita cui avevamo accennato è la destinazione di imponenti risorse per l’acquisto di valuta e di titoli pubblici stranieri. Con questa misura si mira prevalentemente a mantenere basso il livello della moneta nazionale, favorendo le esportazioni dei beni prodotti, ma soprattutto si detengono nel proprio portafoglio strumenti di pressione (se non di ricatto) utili per qualsiasi emergenza. È noto che se la Cina dovesse chiedere il saldo dei titoli del Tesoro americano posseduti, gli Stati Uniti si troverebbero a mal partito.
Tuttavia questa scelta di puntare tutto sul volume delle esportazioni e sul possesso di valuta straniera lascia ai margini gli investimenti per estendere la base del benessere, sicché immense aree della Cina contemporanea sono ai limiti della sopravvivenza, esposte per la precarietà delle loro abitazioni alle calamità naturali, che in quelle latitudini sono frequenti, e non avvertono, se non in misura marginale, gli effetti dei grandi progressi delle isole metropolitane, isole tutto sommato infelici, con i loro grattacieli inutilmente protesi verso il cielo.
Quindi, le formule che regolano l’emergere di queste nuove potenze economiche, sono le vecchie formule di un capitalismo occidentale in rapido declino e il dirigismo politico che caratterizza paesi come la Russia e la stessa Cina non attenua gli effetti perversi che il neoliberismo imperialista ha provocato negli Stati Uniti e, per fortuna in misura minore, in Europa.
Qualcuno ha trovato un’analogia tra la situazione attuale e quella verificatasi a partire dal 1890 con l’emergere di nuove potenze economiche, quali gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone e la stessa Italia a discapito di vetuste potenze coloniali quali la Gran Bretagna e la Francia. Anche allora a prevalere non fu una nuova visione del mondo ma una più giovane massa muscolare dei paesi emergenti. L’epilogo di questo scontro fu, prima la grande crisi del 1907 che, innescatasi negli USA, si irradiò presto in tutto il mondo occidentale, poi l’enorme tragedia del primo conflitto mondiale.
Come si vede l’incremento significativo del PIL planetario non è di per sé una notizia consolante, soprattutto se, collateralmente, gli spiriti si infiammano, il mondo si riarma e si moltiplicano i conflitti regionali. Così come avviene purtroppo nell’inquieta stagione che attraversiamo.

Politiche clientelari

Ma vi è un ulteriore elemento di seria preoccupazione a bilanciare l’euforia per l’aumento del PIL mondiale ed è la crescita esponenziale del debito pubblico che si verifica nei bilanci della maggior parte dei paesi, siano essi in via di sviluppo che tradizionalmente avanzati.
Per fare un esempio a noi vicino, in Italia il livello di indebitamento è pari al 106% del prodotto interno lordo: un’enormità! Questa situazione, in tutta evidenza, è determinata in buona parte dalla necessità (spesso elettoralistica) di politiche clientelari che sono restie a frenare e a razionalizzare le spese dei vari livelli della pubblica amministrazione, ma anche ad un’eccessiva espansione del credito, che non è sempre una misura virtuosa per la corretta gestione valutaria. E questa considerazione ci consente di introdurre il tema che ha infiammato il già torrido clima dell’agosto appena trascorso: il crollo del mercato immobiliare americano, con conseguenze che si sono irradiate in tutte le borse mondiali e i cui effetti sono ancora oggi difficili da valutare.

Non è in chiusura di questo articolo che si possa affrontare un argomento così complesso, ma voglio solo accennare alle incomprensibili misure che le banche centrali hanno messo in atto per fronteggiare l’emergenza, soprattutto l’immissione di un volume immenso di liquidità nel sistema finanziario.
La misura è curiosa, se non proprio originale, considerato che proprio dal sistema bancario è stato attuato un esercizio del credito che ha favorito un eccesso di indebitamento pubblico e privato. A prescindere, infatti, dal fatto specifico del crollo della bolla speculativa immobiliare, la situazione dell’intero sistema economico americano è a dir poco irreale: il debito pubblico è alle stelle, il livello di indebitamento verso l’estero è tale che, se i creditori volessero improvvisamente rientrare dei capitali investiti soprattutto sui titoli del Tesoro americano, il governo di quel paese sarebbe costretto (si fa per dire) a portare i libri in tribunale; su ciascuna famiglia americana grava un debito medio di 84mila dollari (in Italia è di 14,800) e tale debito prescinde relativamente dalle contingenti vicende borsistiche per investire il settore dei consumi, il che è un segnale assai pericoloso perché testimonia di una relazione diretta tra indebitamento e livello dei consumi. In parole povere: si deve dedurre che la capacità di alimentare i consumi non deriva da un incremento del reddito familiare ma dalla facilità di attingere al credito.
L’immissione così massiccia di liquidità, così, serve solo a ripianare i debiti degli speculatori, delle banche e delle assicurazioni che hanno illecitamente riversato sui risparmiatori, spesso ignari, una massa enorme di carta straccia che non sarà mai esigibile.
Questo per dire che il capitalismo non cambia mai rotta: salva i ricchi ed i corrotti e aumenta l’area della povera gente che è costretta a pagare.

Antonio Cardella