Rivista Anarchica Online


clericalismo

Porpora, tasse e rivoluzione
di Carlo Oliva

 

Dietro al dibattito sulle tasse, la Chiesa, lo sciopero fiscale, ecc. c’è ben altro.

 

Soltanto in Italia si può passare l’intero mese di agosto discutendo sull’opportunità che i cittadini paghino o meno le tasse. E non in sede privata, per occupare le lunghe ore tediose sotto l’ombrellone o davanti al bivacco dei rifugi alpini, ma al livello politico e istituzionale più alto possibile, servendosi delle più prestigiose testate giornalistiche nazionali, con la partecipazione entusiastica delle massime gerarchie civili ed ecclesiastiche.
L’elemento ecclesiastico può apparire incongruo, ma è stato (incautamente) introdotto dallo stesso presidente Prodi, che aveva dato inizio al bailamme auspicando, in luglio, che i pastori della chiesa, come richiesto da un noto passaggio di San Paolo, esortassero dal pulpito i cittadini allo zelo fiscale. Il riferimento all’Apostolo non era tra i più precisi, se non dal punto di vista teologico, almeno da quello della sintassi latina, visto che non esiste politico italiano capace di citare la più semplice frase nella lingua dei padri senza inserirci qualche svarione da matita blu, a prova della funzionalità educativa dei nostri licei, ma l’intervento, nella sua pochezza, è bastato a scatenare un mezzo finimondo.

L’unico principio

In un paese serio, naturalmente, gli avrebbero risposto tutti che non spetta a un politico suggerire al clero cosa fare e cosa dire, esattamente come non spetta al clero raccomandare ai politici cosa dire e cosa fare. Ma si sa che il nostro paese, da questo punto di vista, proprio serio non è e le reazioni, come da copione, sono state svariate e molteplici. La maggior parte dei commenti di parte ecclesiastica si sono rivelati sorprendentemente sprezzanti (basta pensare alle cose cattive che ha scritto la rivista dei padri paolini), nel senso che l’unico principio fatto proprio dal cattolicesimo istituzionale in materia di tasse è quello per cui la chiesa non deve pagarne affatto, come peraltro il governo Prodi, in perfetta continuità con i precedenti, ha da tempo provveduto a disporre.

Papa Benedetto XVI

Un po’ di ricatto

Ne hanno preso spunto, comunque, gli oppositori di centrodestra, che sull’asserita esosità tributaria del governo in carica giocano da tempo tutte le proprie carte. Così, l’onorevole Bossi non si è lasciata sfuggire l’occasione di spiazzare i colleghi rispolverando la sua vecchia proposta di sciopero fiscale a oltranza. I colleghi in questione, invece di raccomandargli, da amici solleciti quali dovrebbero essere, di stare calmo e non sforzare troppo un cervello già provato dalla malattia, hanno fatto a gara nel cercare una qualche quadra che permettesse di lasciar cadere la proposta, notoriamente fallimentare (come già sperimentato da Bossi una decina di anni fa), senza trarne le ovvie conclusioni sulla sagacia politica del proponente. Straordinario, da questo punto di vista, è stato l’ex ministro Tremonti, che, rivelando un insospettabile cotè gandhiano, ha citato il precedente della “marcia del sale” indiana del 1930. E se i laici del centrosinistra, tanto per dimostrare la loro nota capacità propositiva, hanno tenuto la bocca ben chiusa (e forse è stato meglio così, visto che qualsiasi cosa dicano, su questo come su altri temi, di solito fan danno) sul carro della proposta, per un motivo o per l’altro, hanno continuato a saltare vari esponenti del clero, della società civile e della confindustria, senza che nessuna voce veramente autorevole ne denunciasse l’intrinseca immoralità, con il risultato che alla fine ha dovuto scomodarsi di persona il cardinale segretario di stato, Tarcisio Bertone, che ha solennemente dichiarato, in occasione del suo intervento al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, che sì, i buoni cristiani le tasse le devono proprio pagare. Sempre, naturalmente, che l’obbligo relativo sia sancito da “leggi giuste”.
Bertone, ovviamente, parlava ai seguaci del pio Formigoni, che, tra tutti i colonnelli del centrodestra è probabilmente il più ostile a Bossi, il che può spiegare molte cose. In ogni caso, è difficile che Prodi si sia rallegrato più di tanto delle sue parole, che pure sembravano venir incontro alla sua originaria richiesta. Di fatto, bastava quella chiosa sulle leggi giuste, per quanto banale e superflua (difficilmente un ecclesiastico potrebbe esortare a rispettare delle leggi ingiuste), a sminuirne di parecchio la portata, offrendo una facile scappatoia a quanti hanno sempre motivato la nota riluttanza fiscale dei propri elettori proprio con il mettere in dubbio l’equità della legislazione vigente in materia.
Così, al pronto compiacimento del capo del governo si è contrapposto quello, affatto speculare, dei senatori Calderoli e Castelli, che hanno letto l’intervento cardinalizio nell’ottica, per lo meno, di una non sconfessione dell’alzata d’ingegno del loro malconcio leader. Né è mancato un vescovo, quello di Rimini e San Marino (quindi, in un certo senso, il padrone di casa), che ha cercato di sciogliere l’ambiguità della dichiarazione del segretario di stato nel senso di una “storicizzazione” del principio evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare, esplicitando che se uno stato non serve, obiettivamente, il bene comune, non si vede perché esortare i cittadini a pagargli un qualsiasi tributo. L’affermazione era accompagnata da una serie di riferimenti alla scuola e alla famiglia che, se non provenissero da un successore degli apostoli, saprebbero un po’ di ricatto (dateci quel che chiediamo e vedrete che le tasse le pagheremo al volo…), ma sono cose che succedono nel dibattito avvelenato di questi tempi.
Nessuno, naturalmente, si è preso il disturbo di spiegare o di rilevare come il dibattito sulle tasse, in sé, non sia altro che un’applicazione del dibattito generale sullo stato e che solo nel suo ambito può essere portato a una conclusione qualsiasi. E che il problema vero, nonostante quanto vanno blaterando in tanti, a destra e a sinistra, sul “federalismo fiscale”, non è quello della destinazione geografica delle risorse raccolte – una tematica che avrebbe senso solo nella prospettiva di una rottura dell’unità nazionale cui nessuno, leghisti a parte, è interessato davvero – ma quello della struttura democratica dello stato stesso.
Eppure il principio è stato affermato oltre due secoli fa dai fondatori della democrazia americana, che, in occasione di uno dei pochi scioperi fiscali veramente significativi della storia, quello del “tè di Boston”, che ben si può accostare alla “marcia del sale” correttamente richiamata da Tremonti, lo hanno formulato una volta per tutte nei termini, tutt’ora ineccepibili, del “nessuna tassazione senza rappresentanza”. Tanto è vero che entrambe le iniziative, e le poche altre che possono essere loro accostate (che so, lo “sciopero del fumo” nella Lombardia asburgica prerisorgimentale) si possono inquadrare in una prospettiva rivoluzionaria, in un quadro di eventi mirati a sostituire, se necessario con la violenza, il regime vigente con un altro che si auspica migliore. Basta questo per capire che tra tutti i sommovimenti che ci sovrastano minacciosi, quello di uno sciopero fiscale è l’ultimo di cui avere paura. La prospettiva di un moto rivoluzionario promosso dai vescovi o dall’ex ministro Tremonti non è, francamente, tra quelle che tolgono il sonno.

Carlo Oliva

Una chiosa. Il tè, il fumo, il sale… gli esempi storici di riluttanza fiscale organizzata si limitano, come è evidente, al campo delle imposte indirette. Un intervento sulla tassazione vera e propria è molto più difficile da organizzare e gestire, non soltanto per via del carattere automatico delle ritorsioni cui gli aderenti andrebbero senz’altro incontro, ma anche perché non sarebbe praticabile dalla maggior parte della popolazione, che, sui redditi da lavoro dipendente (e su quelli finanziari) viene, notoriamente, tassata alla fonte.
La possibilità di ribellarsi esplicitamente al fisco resterebbe aperta soltanto ai percettori di reddito da lavoro autonomo, tutta gente che, in materia, ha fin troppe possibilità di elusione, più o meno legittima, per essere tentata di scendere in campo in quel senso. La prospettiva, paradossalmente, sarebbe preclusa allo stesso Bossi, che vive, a quanto ne so, della sua indennità di parlamentare, sulla quale, al momento della corresponsione, sono già state applicate le debite trattenute. L’intervento sulle imposte indirette, invece, è anche un intervento di autolimitazione sui propri consumi (non bevo tè, non fumo, non compro il sale nei negozi…), che comporta quel tanto di sacrificio personale che è insito in ogni vero sciopero e ben si inquadra, appunto, in un ethos di tipo rivoluzionario. Il che significa che quello di sciopero fiscale guidato dalla destra è un concetto in sé contraddittorio, ma questo lo avevamo capito già.