Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

Unfolk

Ecco un altro di quei lavori storti che piacciono a me: sghembi, che suonano strani, che non si sa dove mettere né come chiamare. Di quelli che bisogna fare fatica per raccontare perché le parole scappano via come gocce di mercurio in fuga che non vanno nella direzione giusta, di quelli che offrono pascolo abbondante e sempre straordinariamente diverso all'immaginazione.

Insomma, io un po’ la storia dietro “la so”: Alessandro Monti è un caro amico da tanti anni, ho seguito il formarsi di questo suo “Unfolk” ancora da quando non si chiamava così ed i vari pezzi non avevano forma definita ed abitavano in grande parte solo nei suoi sogni. Potrebbero essere frammenti di musica antica suonati oggi da uno sperimentatore, oppure vecchie registrazioni rielaborate da un abile manipolatore di software appassionato di progressive. Un manoscritto ritrovato, un virus nella rete, un buco improvviso nella linea del tempo, o nulla di tutto questo.

“Unfolk”, dice Monti, sta per “unorthodox folk music” o “non folk”: gioco di parole spacciato un po’ troppo frettolosamente come tale, ma in verità indecisione antica tra radici e suggestioni, segno del bilanciamento difficile tra i suoni entrati in testa seguendo la via del cuore o quella dell'orecchio.
C'è un mandolino irlandese, presenza costante ma non vero e proprio punto di partenza, quanto pretesto per una tessitura di ascolti, di innamoramenti, di lontananze che allungano le braccia per chilometri segnando l'inutilità della loro misura di tempo e spazio: Florian Fricke, che stando ai giornali si sapeva scomparso, è invece una presenza tangibile che respira attraverso le dita di Gigi Masin accanto ad Alex Masi, chitarra di metallo liquido che sa attraversare oceani, un tappeto volante le percussioni di Bebo Baldan perennemente indecifrabili tra vero e sintetico accanto al violino di Marco Giaccaria che odora indiscutibilmente di India eppure anche d'Inghilterra progressive, e che mai e poi mai diresti invece catturato in una prigione di periferia torinese larga due metri per due. E suono d'acqua, sassi, campanelli, animali volanti, foglie, nebbia elettronica. Uno scherzo della vista.
Ho trovato un posto giusto nello scaffale, proprio accanto ai cd di Steve Tibbetts, un altro visionario che sogna e fa sognare, un altro di quelli che ti indicano la luna armati solo di un sorriso.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it