Rivista Anarchica Online


eutanasia

L’ultima frontiera dei diritti umani
di Silvio Viale

 

Elèuthera pubblica un nuovo libro di Derek Humphry sull’eutanasia. Ecco la prefazione scritta da un medico di Exit Italia.

L’eutanasia è l’ultima frontiera dei diritti umani. Un luogo comune recita che la speranza sia l’ultima a morire, ma in alcuni casi l’ultima speranza è proprio morire. A buona ragione, il diritto a morire può essere considerato come il diritto all’ultima speranza. Ma è difficile morire bene. Neanche quando la fine è ormai vicina. Occorre pensarci in tempo. Occorre deciderlo in tempo. Occorre che le leggi lo permettano.
Lungo quella linea di confine che attraversa la nostra vita, dalla nascita alla morte, la fase finale è un campo di battaglia, con un territorio da conquistare alla barbarie di un nemico cinico e impietoso. Rifiuto della terapia, futilità medica, accanimento terapeutico, cure palliative, terapia del dolore, hospice, assistenza nella morte, sedazione terminale, accelerazione della morte, decisione di morire, da solo o con l’aiuto dal medico, consenso informato e direttive anticipate sono i fronti di questa battaglia, che chiede alla medicina, ai medici e ai sistemi sanitari di occuparsi anche della morte e non solo della malattia. In altri termini di occuparsi della persona e di tutta la sua vita.

Libertà di morire

(…). Questa edizione italiana di The Good Euthanasia Guide esce quattordici anni dopo l’edizione italiana di Final Exit (Eutanasia: uscita di sicurezza). Questa volta non si tratta di un manuale per il suicidio assistito, ma di una riflessione autobiografica sui temi più attuali correlati al diritto a morire, alla libertà di morire, come evoca il titolo scelto per l’edizione italiana Liberi di morire.
È possibile che le problematiche sulle malattie mentali o sulla scelta di morire, non per una malattia incurabile, irreversibile o terminale, ma semplicemente perché “vecchi”, potranno sorprendere, anche scandalizzare, chi si avvicina per la prima volta a questi temi.
Sono, però, le questioni di un dibattito più avanzato, che ha superato le titubanze di una discussione impaludata su concetti assoluti, metafisici, unilaterali, come sembra essere quella italiana.
D’altro canto, se non siamo nemmeno capaci di farci carico dei problemi dei morenti, dei malati condannati ad una morte vicina, come non stupirci della richiesta di morire da parte di chi, sebbene non ancora terminale, soffre “solo” di condizioni di salute estremamente compromesse? O, semplicemente, perché vecchio, indebolito e stanco di vivere vuole solo evitare l’inevitabile marasma senile? Se la vecchiaia, nella fase più avanzata, non è una malattia, ma una fase naturale della nostra vita, nondimeno è una condizione terminale e certamente non è un sinonimo di salute.
Se il punto non è la morte, ma il morire, allora, a chi spetta decidere sul proprio morire? Sulla propria dignità? A quali condizioni ciò può essere consentito?
Purtroppo l’impianto legislativo italiano sembra essere ingessato dagli articoli 579 e 580 del codice penale, “omicidio del consenziente” e “istigazione al suicidio”, che scoraggiano ogni sorta di compassione nel morire. Purtroppo il codice deontologico dei medici, da parte sua, esclude i “trattamenti finalizzati a provocare la morte”, preferendo non risolvere la contraddizione con i principi contemporaneamente proclamati del rifiuto della terapia, del consenso informato e dell’autonomia decisionale del paziente.

Piergiorgio Welby

Battaglia per l’eutanasia

(…). La battaglia per l’eutanasia in Italia non è nuova. Sin dagli anni ’70 l’eutanasia doveva seguire la legalizzazione del divorzio e dell’aborto, come una naturale triade sui diritti civili. Fu proprio Loris Fortuna a presentare un primo progetto di legge sull’eutanasia e furono proprio i radicali del CISA, che tentarono le prime iniziative. Nasceva così, sulle orme della Hemlock Society di Derek Humphry, il Club dell’Eutanasia, animato da Adele Faccio e dal medico radicale Guido Tassinari, con l’intenzione di agevolare l’unica forma di eutanasia consentita dalla legge, il suicidio. Purtroppo le intenzioni naufragarono il 15 maggio del 1989 su uno dei primi casi, quello di Umberto Santangelo, un cameriere di 33 anni che fu trovato morto in una camera dell’Hotel Windsor di Milano a seguito di una iniezione letale di Pentothal. Guido Tassinari viene condannato a 4 anni per “omicidio del consenziente” e morirà nel 1993 per i postumi di una caduta di quand’era latitante in Germania, senza finire in galera.
Adele Faccio commentò amaramente quella battuta d’arresto “Non è come la battaglia dell’aborto, dove avevamo dietro tutto il movimento femminista. Questa è una cosa privata. L’Italia non è pronta”.
Solo Giorgio Conciani, che con Adele Faccio fu arrestato per gli aborti clandestini del CISA e come Guido Tassinari si batteva per l’eutanasia e la sterilizzazione volontaria, continuò a dare consigli telefonici e a prescrivere farmaci fino a quando l’Ordine dei Medici di Firenze lo radiò nel 1996 per “istigazione al suicidio”. In effetti, fino ad allora, la battaglia per il diritto a morire era orientata a garantire il suicidio come unica forma di eutanasia praticabile, su un modello ispirato dalla storia di Kevorkian, dal “self deliverance” di Derek Humprhy e dal suicidio assistito svizzero, anche se nell’ombra, in cliniche ed ospedali, le morti accelerate non sono mai cessate.
Nel 1996 nasce EXIT-Italia con l’obiettivo di ottenere modifiche legislative e di introdurre in Italia il Testamento Biologico. Fondatore è un dirigente della FIAT-IVECO di Torino, che si avvicina quasi per caso al tema quando una riunione di lavoro salta perché l’interlocutore deve partecipare ad una riunione dell’associazione olandese sull’eutanasia, Emilio Coveri, affetto da retinite pigmentosa. EXIT viene accolta nella federazione europea delle associazioni per una morte dignitosa e nella World Federation of the Right to Die Societies.
Supera a fatica i mille iscritti, ma anima fortemente il dibattito. Nel 1999 il Consiglio Comunale di Torino vota un ordine del giorno a favore dell’eutanasia e diversi progetti di legge vengono presentati. Nel 2000 un gruppo di intellettuali socialisti guidato da Giancarlo Fornari fonda a Roma “liberauscita”. Negli anni successivi la Consulta di Bioetica, guidata da Maurizio Mori, propone un testamento biologico, che chiama Biocard. Anche Umberto Veronesi, smessi i panni del ministro, esce allo scoperto proponendo di sottoscrivere un documento sulle proprie volontà davanti ad un notaio. Nasce anche l’Associazione Luca Coscioni per la Ricerca Scientifica, che inizia a battersi per i malati in tutte le direzioni, della quale Piergiogio Welby e Luca Coscioni sono stati presidenti. Come non ricordare poi il pluridecennale impegno di Marco Pannella, sempre in prima fila sui diritti civili.
Il risultato di tutto ciò è che anche in Italia c’è un movimento per l’eutanasia. C’è sempre stato, ma negli ultimi dieci anni è cresciuto, fino a conquistare la maggioranza dei cittadini. La conferma viene dalle periodiche rilevazioni dell’Eurispes, per le quali i favorevoli all’eutanasia sono passati dal 25% del 1987 all’odierno 70%, mentre i contrari sono scesi al 27%. I tempi sono maturi per modifiche legislative.
In questi anni, anche in Italia, numerosi progetti di legge sono stati presentati a favore dell’eutanasia, del consenso informato e delle direttive anticipate. Essi sono stati firmati da decine di deputati e di senatori di quasi tutti i partiti. Solo un partito, perso tra riti celtici e allegorie medioevali, ha ritenuto di presentare un disegno di legge contro l’eutanasia, come se attualmente una legge la permettesse.

Derek Humphry
Liberi di morire
le ragioni dell'eutanasia
traduzione di Giacomo Paleardi

2007 prefazione di Silvio Viale

128 pp. € 13,00

Una “morte opportuna”

Anche se è difficile prevedere quando si potrà discutere di eutanasia, il Parlamento italiano non può più evitare di approvare almeno un disegno di legge sulle direttive anticipate, da anni in discussione al Senato, consolidando così la giurisprudenza sul rifiuto delle terapie e la consapevolezza sulle tematiche di fine vita.
Giocando a carte scoperte, penso che qualsiasi provvedimento a favore dell’autonomia del paziente, delle cure palliative, della terapia del dolore, dell’assistenza domiciliare, degli ausili comunicativi, del testamento biologico o dell’indipendenza del medico implichi un inevitabile passo avanti verso la possibilità di ottenere una “morte opportuna”, cioè l’eutanasia, innescando meccanismi virtuosi.
Non a caso nella vicenda Welby è emerso per la morte l’aggettivo “opportuna”, contenuto nella lettera di Welby al Presidente Giorgio Napoletano, perché opportuno allude ad un senso di serena necessità, a qualcosa di desiderabile, a un beneficio. Opportuno richiama al concetto epicureo di morte da non temere, perché “se ci siamo noi, non c’è lei, se c’è lei, non ci siamo più noi”.
Morte opportuna è un concetto sviluppato da un teologo dogmatico, il domenicano francese Jacques Pohier, condannato dal Vaticano nel 1979, che considera la morte come una tappa naturale della vita. Se Dio è il creatore della vita, egli sostiene, l’uomo è responsabile della propria vita come è responsabile del creato. Il malato, non il medico, è il primo responsabile della propria vita. È Giovanni Paolo II che decide di non sottoporsi più a cure, non il suo medico, che lo asseconda alla morte. Se (ha) il potere di rifiutare l’accanimento terapeutico e le cure intensive prolungate, ovvero di accettarle, è del malato, che può così decidere il momento della morte, perché lo stesso principio non può valere per il suicidio assistito o l’eutanasia volontaria? La domanda non è se qualcuno ha il diritto di praticare un omicidio, come potrebbe sembrare l’eutanasia, ma se una persona ha dei diritti sulla propria morte per cui può chiedere un aiuto per il momento della morte? Più che di morte opportuna, bisognerebbe parlare di morte che avviene al momento ritenuto opportuno dall’individuo responsabile della propria morte.
Sono sempre sorpreso ogni volta che mi soffermo a constatare come la gerarchia della Chiesa Cattolica utilizzi due criteri diversi per l’inizio e per la fine della vita. Tanto è fisso ed assoluto il primo, la fecondazione, quanto è incerto e confuso il secondo, con l’accettazione della morte cerebrale al fine dei trapianti. In entrambi i casi, è la scienza che ha contribuito all’evoluzione del concetto religioso adottato dalla Chiesa Cattolica, ma non da tutti i cristiani e nemmeno da tutte le religioni monoteiste.
Per l’inizio della vita si è giunti a ritroso, al momento estremo, prima del quale rimangono solo i singoli gameti, vitali sì, ma non vita. Per la fine della vita, la tecnologia e la medicina hanno dilatato i limiti, prolungandoli e creando condizioni non naturali, che moltiplicano i modi del morire.
Sia per l’inizio che per la fine della vita, anche i cattolici praticanti, quelli che più credono in Dio, mostrano di avere concetti diversi da quelli della gerarchia ecclesiastica.
Hugo Tristan Engelhart, medico cattolico di Houston, favorevole all’eutanasia, ha detto “Come cristiano sono assolutamente certo che, aiutando un paziente a morire, rischio di finire all’inferno, ma come laico credo che la decisione di ricorrere al suicidio debba essere lasciata alla coscienza dei malati”.
Ovviamente Derek Humphry non affronta questioni teologiche, ma sia per chi crede in Dio e sia per chi non crede, questo libro rappresenta un esercizio personale sui temi delle proprie convinzioni e della propria morte.

Invito alla riflessione

Nella società moderna poche persone hanno a che fare con la morte e con il morire. Pochi visitano i luoghi dove sono ricoverati i lungodegenti o le case di riposo. Pochi hanno mai assistito alla morte di qualcuno. La morte rimane un fatto estraneo alla medicina e al sistema sanitario, entrambi proiettati alla malattia. La morte reale è un tabù persino per la maggior parte dei medici.
La stessa reticenza con la quale il mondo politico evita di affrontare i temi della morte è indice del deliberato abbandono di questa fascia di popolazione, di solito passivamente ininfluente sulla vita politica. Quando mai vedrete un corteo di cronici non autosufficienti, di anziani indeboliti o di morenti? Paradossalmente l’inevitabile proiezione futura di noi stessi?
A volte per ignoranza, spesso per malafede, vi è un abuso di termini impropri per dire cose opposte, per creare confusione, come dimostra la fortuna dello slogan “No all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico” prontamente adottato in coro da chi vuole eludere le proprie responsabilità.
In fondo la questione è molto semplice.
La vecchiaia e la fase terminale della nostra vita sono piene di decisioni che influenzano il momento e le modalità della nostra morte. Senza garanzie e senza regole, l’assistenza alla morte si colloca in un’area grigia, spesso illegale e clandestina, diffusamente praticata. Si tratta di riconoscere che l’angoscia, il dolore, la sofferenza, la solitudine non possono essere imposti a nessuno, con nessuna motivazione e che, accanto al diritto alla vita, vi è il diritto a morire con dignità, nel rispetto dell’autonomia di ogni singolo individuo. Vi è il diritto alla speranza di morire serenamente in pace.
Il caso Welby ha aperto la strada, uscendo allo scoperto. La politica non può più chiamarsi fuori.
Come scriveva Indro Montanelli “Noi non pretendiamo che lo Stato riconosca i nostri principi, noi ci accontentiamo che non li perseguiti in pratica”.
La lettura di questo libro è ovviamente un invito alla riflessione. Certamente è anche un monito ad attrezzarsi in tempo per la fase finale della nostra vita. Soprattutto è una chiamata alle armi sull’ultima frontiera dei diritti umani.

Silvio Viale
medico di Exit-Italia