Rivista Anarchica Online


lettere

 

Botta... / Se l’aura non la vedi

Egr. Professore, caro compagno,
non posso nascondere che sono rimasto molto deluso dal tuo Le metafore della complementarietà, che acquistai solo per l’autocitazione che ne facesti su a rivista. Be’, te la prendi con le metafore, ecc. ecc. ma nella prima riga dici che si è tentati di “portare sul banco degli imputati le parole”. Poi, dopo che in un solo periodo riesci a infilare Leibniz, Schopenauer, Fichte e Vailati, parli di “certe fumosità insite in questi capi d’accusa”…
Mi pare d’aver capito che, in sintesi, tu vorresti che “Quelli che parlano di materia, di energia […] di legge, di caso” ecc. ne dessero preliminarmente una “definizione in termini positivi e non metaforici”. Ciò, se non è una banalità (anche in osteria si sente l’esigenza di mettersi d’accordo sul significato delle parole) vuole dire forzare la discussione ed incanalarla entro determinati schemi concettuali, appunto quelli positivistici.
Dimmi: tu sai dire “io” a te stesso, un bambino piccolo no, lui parla di se stesso in terza persona. Bene: dammi una definizione positiva e non metaforica di io, oppure di libera volontà, o di libertà, o di realizzazione personale.
Ma questo è un discorso filosofico, e tu sei un metodologo operativo e non ti vuoi sporcare con ciarpame idealistico, e ne hai tutto il diritto. Quel che ti contesto è di parlare di ciò che non conosci, ovvero di leggere, e male, un solo capitolo di un solo libro di un autore per denigrarne l’intera opera.
Mi riferisco a Rudolf Steiner: sei padronissimo di non credere che a quello che vedi con i tuoi occhi e tocchi con le tue mani (e se l’aura tu non la vedi…), ma avresti il dovere morale (e non sto a dartene una definizione positiva) di presentare correttamente il pensiero di chi cerca di darne una descrizione, dell’aura.
E prima di parlare di derive dell’apparato teorico steineriano, non dovresti sottrarti allo sforzo di volerlo conoscere. Se lo avessi fatto non gli avresti accostato a casaccio né Wilhelm Reich né Chiara Lubich.
Saluti libertari (anche se non so darne una definizione positiva).

Lorenzo Santi
(Padova)

 

...e risposta / Definire i significati delle parole

Punto primo. È vero: ne Le metafore della complementarità – come nella maggior parte di ciò che ho scritto dal 1964 a oggi –, sostengo la tesi che è quanto meno opportuno definire i significati delle parole che si usano. Avremmo tutto da guadagnarci, ci difenderemmo dai chierici, dai cialtroni e da altri servi del potere – e vivremmo meglio, più serenamente. Quando apriamo un libretto di istruzioni, peraltro, ci secchiamo non poco se ci si dice soltanto cosa non fare o se le eventuali metafore utilizzate non risultano riducibili a operazioni effettivamente eseguibili. Mi sembra di capire che Santi non sia d’accordo. Il suo argomento sembra essere quello di chi dice che non tutto è definibile operativamente (anche se nell’esporlo sembra volermi relegare fra le braccia di una chiesa positivistica da cui io mi tengo bene alla larga) e se è così è in buona compagnia. Einstein si difese dalle bordate di Bridgman più o meno così – avendo in più la gentilezza di affermare che capiva le ragioni di Bridgman e che, probabilmente, era d’accordo con lui (Cfr. P. A. Schilpp, Einstein scienziato e filosofo, Boringhieri, Torino 1958, pp. 281-301 e pp. 609-635).
Punto secondo. Avendo più pazienza di Santi, definizioni operative di “io” e di “libero” (“libertà”, “liberale”, “libertario”, ecc.), ne ho trovate, per esempio, in G. Vaccarino, Prolegomeni, vol. II, Roma 2000, pag. 56 e S. Ceccato, Ideologia liberale, Atti della Fondazione Vallardi, Milano 1964.
Punto terzo. Avrei letto poco e male Steiner, ma di imputazioni precise e dettagliate non me ne vengono addotte. Evidentemente, davvero Steiner ha detto quel che gli ho fatto dire io. Da uno che ha cominciato ad avere visioni già a sette anni, d’altronde, è difficile aspettarsi altro. Santi prova il trucchetto dell’inversione dell’onere della prova: sarei io “padronissimo di non credere a quello che vedo con i miei occhi e tocco con le mie mani”, non lui “padronissimo di credere a quello che non vede con i suoi occhi e non tocca con le sue mani”. La sua aura, insomma, si taglia a fette, mentre la mia è una costruzione mentale e nemmeno innocente.
Punto quarto. La tecnica della libera amputazione di persone ed eventi a scopi ideologici mi è nota e, come tale, è già stata oggetto di molte mie analisi. È così che ci hanno fatto digerire un Newton tutto “fisica” e niente “teologia”, un Einstein tutto “genio” e niente “epistemologia” (dove gli andava bene tutto, a seconda del momento e dell’oggetto), un Heidegger “grande” filosofo e “piccolo” nazista, qualche tonnellata di intellettuali (Vittorini, Piovene, Moravia, Guttuso, ecc.) tutti “comunisti” e niente “fascisti”, un Pessoa o un Artaud tutti “gran poeti” e poco “filonazisti”, e così via distinguendo, ovvero facendo sparire le tracce più compromettenti. Il principio è quello di quei comunisti che, nelle biografie di Marx, cancellavano il fatto che avesse ingravidato la domestica. Mi si chiederebbe di fare altrettanto per poter mettere sull’altare Steiner ?
Punto quinto. Giuro, non l’ho scritta io.

Felice Accame
(Milano)

 

Attacco alle donne. E non solo

A chi usufruisce di certi diritti da sempre, questi diritti sembrano cosa ovvia e pertanto “ naturale”. Non ci si ferma a pensare che i diritti rispecchiano le forze in campo e non sempre è vero il detto che ai diritti corrispondano uguali doveri.
Guardando obiettivamente la situazione delle donne nel sociale si nota subito che sono subissate da doveri famigliari, di coppia, filiali ecc. ma non sono, nemmeno se oberate dai doveri, appieno cittadine (essendo di fatto ancora discriminate in molti contesti) ed è sempre osteggiata la loro autodeterminazione. Dell’ostracismo verso le donne, come di quello verso tutt* i divers* , chi è portatore da sempre di diritti può non accorgersi e può essere che non gliene importi nulla, semplicemente perché non intacca la qualità della sua vita. È su cose apparentemente scontate come queste che le chiese e i fondamentalismi giocano la loro partita.
Far apparire aberrante chi chiede condivisione di diritti e quindi di essere a tutto tondo portator* di cittadinanza. Si fomenta l’odio con un insieme di discorsi che si appellano al privilegio, mai chiamandolo privilegio, ma facendolo apparire una cosa tanto legittima da non potersi toccare, anche minimamente. La posta in gioco, ribadita attraverso un odio atavico ( e non vi è altro nome per le discriminazioni che scrivono e ratificano l’abuso in ogni forma) è almeno doppia:

  1. Il primo obiettivo è l’autodeterminazione delle donne. Mai accettata, è ora sottoposta a un attacco che mina la dignità umana del soggetto femminile. Le vengono anteposti anche i feti. Viene ribadito che per il femminile del mondo solo il sacrificio è un valore e dà valore.
    Siamo a una delle riedizioni moderne del satì (il rogo delle vedove) che è poi il chiedere di non esistere se non in funzione di quel vogliono gli altri per te.
  2. Il secondo obiettivo è naturalizzare la differenza uomo-donna in chiave antilesbica e gay. Quel che preme è ribadire che non c’è uscita dalla coppia uomo-donna. Chi lo fa è ne soffra. Quindi la famiglia eterosessuale normativa diventa un fatto voluto da Dio e niente può esserle equiparato, perché verrebbe messa in forse la certezza non solo dell’eterosessualità (con i suoi miti di complementarietà) , ma si evidenzierebbe la complessità della costruzione dei soggetti e quindi che non siamo un mero dato biologico e tanto meno un effetto “ naturale o meno naturale”. A questo si aggiunga che la biologia riconosce ormai l’esistenza di più di due sessi mentre le chiese su questo abilmente sorvolano.
    Pochi sanno dell’esistenza di persone intersessuali e l’accanimento medico per ridurre questi soggetti alla norma, ha qualcosa che ci porta alla mente l’uso nazista della medicina. Si riducono inoltre all’inesistenza tutt* i soggetti transgender e transessuali.
La posta in palio per le chiese e i poteri che queste supportano è alta. È il mantenimento del loro status privilegiato. I privilegi nascondono sempre oltre al primato simbolico di un sesso sugli altri sessi, come anche di una razza sulle altre, di una classe sulle altre, un interesse concreto sia economico che politico.
Le cose vanno insieme. Cose sapute e risapute, ma l’odio giocato in modo esemplare sulla stampa, nelle parrocchie, nelle associazioni ecc. occulta i dati di fatto. Semplificare tutto in questo modo, usando il naturale per rendere la complessità di tante vite superflua, è una cosa sporca. Sorprende solo in parte che cadano nella rete persone che si pongono come attente al sociale, ai suoi movimenti e idee.
Non sorprende la vile spregiudicatezza di chi dice di non volere la discriminazione di lesbiche e gay e poi parla per negare loro i più elementari diritti: diritto all’affetto, alla vicinanza, all’amore, alla partecipazione a una comunità condivisa che veda riconosciuti i suoi lutti, le sue nascite, i suoi figl*… e tutto quello che rende cittadin* e prima ancora esseri umani.

Nadia Agustoni
(Bergamo)

 

Perché quella prefazione?

Purtroppo, o per fortuna, quasi mai si leggono le prefazioni.
A causa della firma,a me invece è balzata subito agli occhi quella del fumetto “Gaetano Bresci, un tessitore anarchico” di Fabio Santin, di cui avete pubblicato la segnalazione di Alessio Lega e alcune tavole su “A” 324 (marzo 2007).
Come? Non è possibile! Umberto Cecchi!? Sarà certo un caso di omonimia. Non si può essere certo il direttore teo-con del populista, razzista, destrorso fogliaccio di disinformazione fiorentino “La Nazione”. Quell’immonda accozzaglia di pennivendoli che nei prini anni ’70 del secolo scorso ci faceva sfilare cantando lo slogan “Telegrafo, Nazione, la stampa del padrone”.
E invece no, cazzo (verrebbe da dire a noi personcine ammodino), è proprio lui! E chi altro poteva essere se non lo sviscerato ammiratore, l’eseget incessante, l’orfano inconsolabile della mai troppo vituperata Oriana Fallaci? E forse non poteva non cogliere, cotale epigono, una così ghiotta occasione quale è stata la richiesta di prefarre un fumetto su un anarchico disegnato da un anarchico?
Non fia mai!
E così, se l’Oriana islamofoba suscitò la giusta incazzatura del caro Alfonso Nicolazzi quando citò inesistenti di lei “amici anarchici carrarini”, che ben volentieri le avrebbero procurato la dinamite per far saltare in aria l’erigenda moschea di Colle Valdelsa, il “nostro” a Umberto la fa ancora più grossa: veste Gaetano Bresci dei panni (scusami, Umberto, volevi forse dire dovosa?) dello sbirro e ce lo trasforma in sapartore in faccia ai “terroristi” di piazza Alimonda.
Se c’è qualcuno che pensa che io esageri sul Cecchi-pensiero e ritenga fuori misura questa equiparazione, si rilegga gli editoriali a firma U. Cecchi comparsi su “La Nazione” del luglio 2001.
Beh, che dire di più? Ho già forse detto troppo? Chiedo scusa, ma proprio non me la sentivo di sottacere questa spiacevolissima presentazione di un così squallido individuo che va ad infangare il lavoro di un compagno certamente solo a causa di incolpevole disinformazione.
Se non disegnassi ancor peggio di come scrivo, ben volentieri omaggerei io stesso il Cecchi di un paio di vignette di quelle che certo la sua mente deviata apprezzerebbe, che ne so? Potrebbe andare un Sante Caserio che pugnala un “eco-terrorista” prima che quest’ultimo distrugga la funivia dell’Abetone? O, meglio ancora, un Passannante che, pistola in pugno e sguardo fiero, affronta un presunto simpatizzante delle C.O.R.?
Troppo forte? Mah!

Gian Paolo Verdecchia
(Firenze)

Non volevo replicare, ma poi…

Sembra che non sia solo Capaneo a peccare di Ubris e, purtroppo, a punire il nostro Verdecchia non c’è più il buon vecchio Giove dalla saetta facile che avrebbe sistemato la faccenda in un battibaleno…evitando così di rubare spazio a questa rivista.
Rispondo volentieri, a questo punto al Verdecchia, anche se all’inizio avevo risposto a Paolo che ne avrei fatto a meno.
GULP! … mi sarei aspettato una “critica costruttiva”, come avrebbe detto l’ossuto Elwood Blues, fratellino di Jack alias Belushi, nel film “Blues brothers” di John Landis.
Invece leggo una lettera che ha più il taglio del tiro al bersaglio umano sulla capoccia del prefattore Umberto Cecchi che ha chiosato il nostro libro-fumetto su Gaetano Bresci.
Forse il Verdecchia non ha letto bene il contenuto della prefazione del Cecchi, ex direttore del quotidiano fiorentino “La Nazione”. Forse il solo leggere la firma dell’autore del testo lo ha fatto sobbalzare dalla seggiola… CRASH!
Tempo fa chiesi al Cecchi di farci la prefazione, accettò, e poi l’abbiamo pubblicata sul libro … GASP!
Non sapevo che il giornalista Umberto fallaciano avesse a Firenze degli anti-fansSOBSIGH …ma non è che il nome Umberto ispiri qualche reazione incontrollata del miocardio? BOH? MAH?
Credo però che il Verdecchia abbia “pisciato fuor dal vaso”, come diciamo noi toscani un po’ fumini e che, invece di portare degli spunti per un eventuale dibattito, abbia invece letteralmente sputato sul Cecchi come persona e non per ciò che ha scritto nella prefazione…e per di più alle spalle. BANG! TUNF!
Chiederò a Paolo Finzi se anche l’esegeta fallaciano Cecchi possa avere l’opportunità di replicare alla lettera del quasi conterraneo Cecchi. Che ne sappia il Cecchi è pratese e c’è una bella differenza!
Invito, pertanto, il Verdecchia a leggere o a rileggere la prefazione del libro-fumetto che non fa male, ma non vorrei che la firma del Cecchi potesse causare chissà quale altro contraccolpo emotivo … EH EH EH

Fine dell’episodio!

Marco Riccomini
(Prato)

 

Ancora sul ’77

Cara redazione,
ho visto che avete avviato una riflessione sul ’77 e dintorni (Enzo Macaluso, Quel “lontano” ’77, “A” 326, maggio 2007) e mi fa piacere comunicarvi qualche esperienza e riflessione.
Vi scrivo in forma di lettera perché sono esperienze ed interpretazioni, personali, che non vogliono essere esaustive per non storicizzare e quindi definire una complessità esclusivamente da un punto di vista.
Siamo a Roma. Gli anni precedenti al ’77 sono stati per noi (Zelinda, Roberto, io e molti atri compagni) di grande importanza. Il movimento, intendendo con questo termine l’insieme delle opposizioni extraparlamentari di sinistra, era piuttosto presente con azioni di sensibilizzazione e di gestione diretta: occupazioni di abitazioni, gestioni di luoghi di aggregazione, autoriduzione degli affitti, delle bollette, dei trasporti pubblici, presenza politica nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri. Molte iniziative, a dimostrare una capacità di confronto con le abitudini ed i poteri consolidati abbastanza vivace.
A noi appariva però una profonda vena autoritaria in gran parte dei gruppi; vena che nel caso migliore si risolveva nella gestione leaderistica delle attività fino ad arrivare a delle organizzazioni verticistiche in cui la base era solamente esecutrice. Ci sembrava che si fosse consolidata una incapacità ad elaborare idee e ragionamenti, al contrario di quanto aveva caratterizzato la fine degli anni sessanta ed i primi anni settanta. Questa incapacità aveva portato ad una sclerotizzazione spaventosa degli oggetti dell’operare (lotta di quartiere, fabbriche), delle modalità di esprimersi (il famoso “porcodiocazzocompagnicioè” che ci ha tormentato) e degli interessi sempre più ridotti ad un confronto di forza, diretto e fisico con la controparte di turno: la dialettica era ridotta a grugnito
E sempre più parti del movimento si autodefinivano avanguardie che interpretando (sic) le necessità e le richieste del popolo attuavano azioni autonome e slegate da chiunque altro non appartenesse a quella specifica avanguardia. Una strategia colpevole e autoritaria.
Insomma comunismo a tutto spiano.
Contemporaneamente avevamo l’impressione che parte del movimento si fosse chiusa nelle sedi dove parlando con terminologie astratte di teorie estranee, trovava difficoltà a divenire operativo.
In relazione a questa situazione ritenemmo che il problema principale fosse culturale e che dovessimo praticare relazioni con la società, seppure critiche, serene che agevolassero il confronto e la nascita di un senso critico nei confronti del modello e che tale senso critico si promuovesse attraverso lo stimolo nella capacità creativa.
Così nel ’75 fondammo il GARE (gruppo anarchico ricerca espressiva) e per due anni ci dedicammo, spesso con il Dioniso, ad attività di animazione e provocazione culturale.
Nel ’77 ci fu un ravvivamento del movimento; non ricordo il motivo scatenante: mi pare il ferimento di due giovani a Piazza Indipendenza ma non ne sono sicuro. Comunque le situazioni di conflittualità che negli anni precedenti erano rimaste locali si consolidarono, estesero e coordinarono e molte più persone parteciparono alle assemblee ed alle manifestazioni.
Operavo oltre che con il Gare anche nell’università ad architettura e mi ricordo che occupammo la facoltà con scarso esito di partecipazione e di soddisfazione: infinite riunioni con “professionisti della politica” gente che parlava per ore, di cavilli e di nulla e che decideva non appena aveva una situazione di voto favorevole (ora dei pasti). Una noia mortale.
Ci telefonò Michele, in quei tempi molto attento alle dinamiche sociali, e ci disse quasi testualmente: “che state a perdere tempo li, qui (alla centrale) ci sono gruppi che fanno le stesse cose che fate voi”. Erano gli indiani metropolitani. Una aggregazione di comportamenti in cui la creatività aveva un maggiore peso rispetto a quello del movimento organizzato. Gli individui partecipavano con una propria riconoscibilità, utilizzando parole che non erano slogan e che si ponevano antitetiche alla rigidità dei processi e dei contenuti del movimento.
Molti limiti ma sicuramente uno spirito libertario che maggiormente si adattava alla nostro animo. Dall’altro un movimento che si mostrava sempre più cupo, sempre più estremo (e non tanto nelle azioni quanto nello spirito con cui si interpretavano le cose). Infecondamente estremo perché tutto interno a se stesso, escludendo la pratica di una vita coerente ai propri principi e rimandando la soddisfazione a chi sa quali momenti successivi. A noi sembravano autoritari, violenti, ottusi. I “duri e puri” ci apparivano nocivi nei confronti di un percorso rivoluzionario da noi auspicato: semplice, soddisfacente, coerente. Quale mondo auspicavano coloro i quali non riuscivano a praticare che rapporti di forza ma non tra il movimento e l’”esterno” ma proprio dentro il movimento stesso.
La cupezza si concretizzava in sospetti, verifiche, nell’uniformazione ad un solo comportamento, nella non pariteticità delle donne, nell’esclusione di ogni ragionamento che non fosse affine all’impostazione da essi fornita. Dogmatismo, autoritarismo, militarismo erano i sentimenti che dominavano il movimento e questo per noi risultava insostenibile.
Un ebbrezza del confronto fisico, quasi come i giovani guerrieri lakota, misurato sull’atto e sulle emozioni che esso comporta più che sulla congruità del gesto. Ma mentre per i lakota era inserito all’interno di una ritualità e di una pratica sociale nel ’77 era gratuito socialmente e politicamente.
La tensione verso una trasformazione sociale era divenuta la rabbia verso la situazione esistente e nessuna idea può garantire la congruità di un atteggiamento di questo genere.
Più tempo passava e più questa condizione si peggiorava; le avanguardie imponevano dove potevano i loro criteri: dall’occupazione della testa del corteo, alla pratica di partecipare a cortei e da essi protetti uscire per imporre atti non definiti insieme al resto del corteo ed ad esso imposti. Anche se fossero stati imposti ad uno solo sarebbe stato un atto autoritario.
Confusione, alimentata da una continua e irrefrenabile crescita della tensione che vedeva spesso l’intero movimento subire azioni di repressione durissima e la chiusura di ogni possibilità di percorsi diversi. Trascinati in un campo di azione estraneo era difficile riprendere le fila delle relazioni sociali esterne ed interne al movimento era difficile operare politicamente nella società. Da un lato, all’interno, il dominio demagogico accennato, d’altro lato, all’esterno, un paese che guardava con diffidenza il movimento in relazione al posizionamento dei partiti di riferimento e della loro demagogia.
Una struttura relazionare da tifo. Il dibattito era così semplificato che gli slogan erano divenuti da strumento contenuto (e l’ironia degli indiani l’aveva colto). Questa involuzione è stata così profonda che nei “meravigliosi anni ’80” parte dei praticanti di questo tipo di opposizione si dimostrò fortemente interessata alle vicende calcistiche consolidando quella commistione tra tifo e politica già praticata dalla destra che artatamente condotta per diversi anni avrebbe costituito una valvola di sfogo alle tensioni sociali.
Infine un accenno ad una altra tendenza che interessava il movimento: l’ipotesi che i fuorilegge non politici fossero di fatto degli oppositori del sistema non comprendendo come essere fuori da questo sistema non corrisponda ad operare per soluzioni sociali qualificanti, e ignorando la coerenza tra enunciati ed azioni, aprì un ulteriore cammino teoricamente e praticamente confuso che non portò a nulla di buono.
Questo, in brevi note, alcuni dei caratteri del ’77 e dintorni che ci sono rimasti in memoria. Per richiamare queste sensazioni a noi basta rileggere un qualunque documento politico prodotto in quegli anni: terminologie e contenuti a noi aprono un baratro, ci rammentano situazioni che abbiamo vissuto e che nostro avviso hanno inciso negativamente sulle potenzialità di modificare questo mondo e di cui abbiamo inteso il reale superamento solo alcuni decenni dopo.

Adriano Paolella
(Roma)

 

Rom in Lombardia

Ad un anno circa dall’elezione del nuovo sindaco di Milano e ad una settimana appena dalla vittoria del centro destra in molti dei Comuni del Nord, il tema della presenza dei “Rom” continua a tenere banco sui giornali e nei commenti di chi, durante le elezioni, si è sbilanciato in promesse di ogni genere circa la loro possibile “cacciata” in caso di vittoria del proprio schieramento.
Come stiano in realtà le cose, non da un anno a questa parte, ma ormai da oltre un decennio, da quando cioè una salda coalizione di centro destra governa la città, o come questa problematica sia stata gestita dal Governatore Formigoni in Regione, ormai al suo terzo mandato, è sotto gli occhi di tutti, o almeno lo sono gli effetti prodotti, in buona misura disastrosi.
Pur continuando a rappresentare una piccola minoranza di persone, circa 5.000 a Milano, forse 10.000 o poco più in tutta la Provincia, e nonostante moltissime delle comunità rom e sinte siano composte da cittadini italiani, cioè non distinguibili né discriminabili di fronte alla legge per la loro appartenenza “etnica”, il tema, come si diceva, suscita scalpore e tensioni, su un fronte politico e sull’altro, per l’impossibilità di piegarlo ad una semplice risoluzione. Quella di “cacciarli”.
Certamente non ha giovato l’intervento del Ministro degli Interni Amato che ha offerto un pacchetto di misure per aumentare la sicurezza nelle aree metropolitane, indicando proprio i Rom come uno dei principali problemi di ordine pubblico da affrontare.
O ancora, nel cortile di casa, il commento del Sindaco di Sesto, Oldrini (DS), uno tra i pochi rieletti al primo turno nel centro sinistra, che ha rivendicato con orgoglio gli interventi di sgombero dei Rom da quel territorio.
Ma che dire di Veltroni a Roma e della sua idea, quasi impronunciabile per quanto inverosimile, di realizzare 4 nuovi campi nomadi, spostando alcune migliaia di rom dal centro urbano alla desolazione del raccordo anulare?
Mi ha colpito, tra le tante o poche manifestazioni di dissenso, quella di alcuni cittadini ebrei romani che hanno rivendicato la propria posizione contraria a questo progetto che sarà finanziato dal Governo, rievocando il proprio passato “storico” carico di discriminazioni e sofferenze. A quando un analogo gesto di solidarietà da parte della comunità ebraica milanese?
Maggiore fortuna sembrano viceversa aver riportato quelle forze politiche (Lega Nord e AN in testa, ma non è certamente da meno Forza Italia) da sempre ostili ad ogni misura di buon governo del territorio, che fino a prova contraria ha sempre favorito una migliore convivenza tra le comunità locali e quelle rom anziché peggiorarla.
Ma i cittadini, o almeno la maggioranza di quelli che vanno a votare, sembrano pensarla allo stesso modo.
A Rho, comune dove il centro sinistra si è a lungo arenato sulla questione del “campo nomadi”, realizzandolo un mese prima della elezioni (…) e perdendole, tra i nuovi venuti c’è chi ha trovato il modo di dire: “adesso cacciamoli” (e ridaglie), ma poi ha aggiunto: “e già che ci siamo, cacciamo anche tutti quei ragazzini (54) che frequentano le scuola materna, elementare e media”. Compagni di banco dei loro figli.
Per usare un linguaggio a me inusuale, si potrebbe dire che la “parabola” avviata con indubbia efficacia manageriale attraverso il sodalizio Moratti – Moioli / Don Colmegna – Casa della Carità un anno fa a Milano, è giunta ad una svolta e ha fatto scuola (loro lo chiamano Patto, modello ecc.).
Alla costruzione dell’immagine del “Rom”, un po’ straccione e un po’ accattone, da associare prontamente a quella del deviante da redimere e reprimere, si aggiunge ora, con il concorso morale e politico di chi dovrebbe costituire sulla carta un’alternativa politica e culturale, il centro sinistra, quella del “fastidio” da cui liberarsi prima possibile, meglio se in prossimità delle elezioni o per decreto.
Ma chi può contestare tutto ciò, visto anche l’inopinabile appoggio al “pensiero unico”offerto dagli organi di stampa?

Maurizio Pagani
(Vicepresidente Opera Nomadi Milano)

 

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Attilio A. Aleotti (Pavullo nel Frignano – Mo) 20,00; Lucio Brunetti (Campobasso) 20,00; Aldo Curziotti (Sant’Andrea Bagni – Pr) 10,00; Circolo “Il nome della rosa” (Giulianova) 50,00; Alfredo Mazzucchelli (Carrara) ricordando mio padre Ugo, 250,00; Agostino Perrini (Brescia) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Peter Sheldon (Sidney – Australia) 250,00; Mirko Baratto (Bigolino – Tv); Roberto Altobelli (Canale Monterano – Rm) 50,00; Federico Vercellino (Milano), 30,00; Daniele Vergari (Auditore – Pu) 17,52; Patrizia Diamante (Firenze) un mazzo di fiori rossi ricordando Horst Fantazzi, 55,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 30,00; Aldo Staglianò (Lamezia Terme) 5,00. Totale euro 1.577,52.

Abbonamenti sostenitori.
(quando non altrimenti specificato, trattasi di 100,00 euro). Federico Castanga (Breno – Bs); Mirko Rizzi (Lodi). Totale euro 200,00.