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Uno sguardo libertario

A proposito di identità e differenze: come superare sia il relativismo estremo che l’astratta universalità.
L’importanza di uno sguardo davvero libertario sul mondo.


L’argomento introdotto da Francesco Codello sullo scorso numero di marzo di “A” (trattato anche da diverse angolazioni da Marc Tibaldi e Marco Gastoni) affronta un tema molto importante: l’identità. Un tema che definirei fondamentale, (un problema che l’umanità è ancora ben lontana dall’avere risolto), sul quale è giusto e doveroso continuare a riflettere insieme.
Sull’uguaglianza e sui diritti, come tutti sappiamo, sono stati stesi fiumi di inchiostro, dall’Illuminismo in poi. In tempi più recenti, con il “restringersi” del mondo, poi con la massiccia immigrazione, si sono spese altrettante parole sulle differenze culturali, sull’identità, a favore o contro il relativismo (relativisti, non relativisti, contro-contro relativisti si sono affrontati in modi e toni diversi, sullo sfondo di un assolutismo che non accenna a dissolversi).
Pochi riescono però ad arrivare al vero “nocciolo” della questione, e a quella che dovrebbe essere la soluzione al problema. Qualcuno ci si è avvicinato in teoria. Possiamo citare ad esempio le osservazioni di Amartya Sen sull’uguaglianza e l’importanza della diversità umana (La diseguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna 1994). Ma come portare tutto questo nella pratica del vivere quotidiano? Come trasformare profondamente e sul serio il nostro punto di vista sugli altri, su noi stessi e sul mondo?
Il problema essenziale è all’interno di quale epistemologia si ragiona e quindi ci si muove: se ci si pone cioè da un punto di vista libertario o da un punto di vista autoritario, come aveva ben spiegato Bookchin in L’ecologia della libertà.
Differenza e uguaglianza non sono termini antitetici. Si situano entrambi all’interno della visione corretta che dovremmo avere del reale. La vera antitesi è un’altra, ed è come dicevo prima, nel nostro modo di sentire e di pensare.
L’unica, vera uguaglianza, non può che essere quella che riconosce, accoglie, valorizza e compensa le differenze. (Ma enunciarlo non basta, e i fallimenti e i problemi sono sotto gli occhi di tutti). Quindi non un’idea astratta di uguaglianza, che lascia presumere o stabilisce che tutti si debba essere o diventare uguali, e si impone perciò con violenza. Ma neppure un relativismo spinto agli eccessi, che assume un volto autoritario nel momento in cui sancisce differenze, contrapposizioni e sovrapposizioni, e quando attribuisce giudizi di valore su presunte superiorità o inferiorità, basandosi quindi sull’autoritarismo, sul dominio, sull’oppressione, anche se soltanto da un punto di vista culturale o ideologico. Se la violenza ha un senso quando rimane l’ultima arma di autodifesa possibile, o l’unico strumento di lotta contro l’ingiustizia, lo sfruttamento e l’oppressione, non può più averne alcuno se viene messa al servizio di una falsa tolleranza. Qualsiasi “relativista” o qualsiasi fautore dell’astratta uguaglianza dei diritti e dei doveri, se fa uso della violenza, consapevolmente o meno, serve la causa contraria, la causa della diseguaglianza e della negazione della libertà, la causa autoritaria al posto di quella libertaria.
Come sappiamo, i dogmi sanno assumere i volti più diversi. E l’ambiguità dei termini uguaglianza e libertà così come sono stati sempre usati fino ad oggi non dovrebbe sfuggire tanto facilmente come invece di solito avviene.
Non può non colpire la violenza che oggi si usa nell’imporre la propria identità nei confronti degli altri, o nell’imporre ad altri quella che dovrebbe essere la loro identità, o addirittura, all’interno della stessa identità, con quanta violenza si arriva a negare la possibilità di una ricerca un po’ più approfondita delle sue componenti e delle sue radici. (Un esempio lampante è il caso del libro di Ariel Toaff e le reazioni che ha suscitato).
Come modificare profondamente il nostro atteggiamento e il nostro pensiero, come trasformare la nostra sensibilità, come riuscire a far inclinare il pensiero, la ragione, la scienza, l’arte, la politica (ogni aspetto del vivere comune) verso l’epistemologia libertaria?
Kropotkin sosteneva che nessun cambiamento, nessuna rivoluzione, pacifica o violenta, può avere luogo, se non si arriva davvero in profondità, se non si svegliano tutte le coscienze, anche e soprattutto quelle delle classi privilegiate dalla storia (se coloro che hanno accesso alla cultura, al sapere scientifico, non mettono a disposizione le loro potenzialità). Lo stesso Bookchin, più recentemente, invitava a un capovolgimento di prospettiva in tutti i campi del pensiero. Così la recente riflessione sul ruolo delle scienze umane e dell’antropologia (Graeber).
Vorrei ricordare a questo punto un interessante e stimolante dibattito comparso su «Volontà» nel settembre del 1994, Tutto è relativo. O no?, e in particolare il contributo di John Clark, che suggeriva il superamento dell’opposizione tra universalismo e relativismo attraverso il naturalismo dialettico, ovvero una teoria naturalistica del valore, una terza via ecologica e olistica da sostituire al binomio dimensione assoluta e particolare. Il metodo naturalista dialettico può trascendere, secondo Clark, la falsa opposizione tra astratta universalità e astratta particolarità basandosi su una universalità concreta, che può essere compresa soltanto nelle sue svariate manifestazioni, in tutta la ricchezza e la complessità delle sue forme ed espressioni. Una grande unità nella diversità. Invitava ogni ideologia o forma di pensiero a confrontarsi con la variegata posizione culturale e naturale dell’umanità prima di autodefinirsi in qualsiasi modo (universale, liberatrice, rivoluzionaria, anarchica..), e soprattutto invitava ad impostare qualsiasi azione pratica, che sia la democrazia di base, o l’autogestione, o qualsiasi altra cosa, senza mai perdere di vista la realtà concreta e tangibile con cui dobbiamo misurarci. (La megalopoli, la vita di paese, le popolazioni relegate ai margini di un’economia neocoloniale…). Non servono oggi astratti ideali morali: anche gli ideali migliori, i più libertari, per diventare possibilità etico-pratiche devono dedicare la loro attenzione più profonda (un’attenzione non solo della mente, ma anche del cuore) alle singole realtà storico-culturali. Per una “sintesi” senz’altro ardua, ma imprescindibile.

Silvia Ferbri
(Genova)

 

 

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