Rivista Anarchica Online


internazionale

L’assillante problema della governabilità
di Andrea Papi

 

Le elezioni sono una designazione di comando, non un mandato rappresentante le istanze di chi vota.

 

È un po’ di tempo (non saprei quantificare) che ho la sensazione, mista a percezione, che stiamo entrando in una diversa fase dell’immaginario politico, che mi auguro prima o poi invada pure l’immaginario sociale. Con istintuale immediatezza mi si propone anche un’immagine presa in prestito dal famoso quadro L’urlo di Munch, capace di mostrare con cruda efficacia un grido disperato che emana una potente energia attorno al corpo di chi lo emana, ma che non viene sentito, né colto, dagli altri esseri umani che stanno attorno.
Il fatto che all’apparenza ci troviamo ogni giorno di più sommersi da un aumento di confusione nella comprensione dei messaggi dell’ambito politico imperante, ai miei occhi paradossalmente è una conferma di ciò che sto tentando di comunicare. Perché la confusione invasiva che ci avvolge denota e mostra che il sistema di consenso al sistema vigente, nel suo complesso, fa sempre più acqua e sistematicamente perde punti in ogni direzione. Nella lettura che ne faccio non si tratta né di destra né di sinistra, ma, appunto, del sistema per come si è storicamente determinato fino a questo punto del divenire delle cose.
Ne è conferma, ne sono convinto, l’ultima caduta del governo Prodi in seguito alla bocciatura al senato in febbraio della strategia di D’Alema per la politica estera nazionale. Che cos’è accaduto? È successo che le maschere mistificanti dei politici che pretendono di governarci hanno cominciato a scoprire i volti che coprono. Ha cominciato ad apparire evidente che ciò che si può fare al governo, se lor signori vogliono conservare le poltrone, è cosa ben diversa dalle dichiarazioni di comodo per conservare il consenso, ma soprattutto dalle aspettative vere, quelle che provengono dai sentimenti profondi del cuore, le ragioni di fondo per cui gli elettori hanno scelto nell’urna di votare in un senso o nell’altro.

Classica truffa elettorale

Vi ricordate? Uno dei messaggi principali di distinzione del centrosinistra durante l’ultima campagna elettorale è stato la sistematica affermazione di mettere in pratica, quando sarebbero stati al governo, scelte che inequivocabilmente fossero all’insegna di una politica ritenuta pacifista, come la rimessa in discussione della presenza in Afghanistan e il ridimensionamento delle logiche e delle presenze militari. Almeno questo è quello che una parte consistente di elettori, legati ai movimenti pacifisti e antiglobalisti, erano convinti che fosse sufficientemente chiaro, senza essere in alcun modo smentiti. All’apparenza tutte le forze della coalizione erano d’accordo. In fondo siamo nella tradizione più classica della truffa elettorale. Non si possono non fare promesse prima di ricevere il voto! Si rischia di deludere le anime belle e di perdere le elezioni.
Una volta arrivati lassù, sotto la spinta di tali candide aspettative, finalmente insediati sulle agognate poltrone del comando, cos’hanno invece fatto i nostri beneamati eroi neoriformisti? Ci hanno fatto vedere, con cruda chiarezza, che il governo non lo si prende mica per governare come ci piacerebbe o come desidererebbero i poveri illusi di sempre. Per tenere in mano il governo bisogna saper dimostrare, non agli elettori che li hanno legittimati (sia chiaro!), ma ai potenti di ogni parte del mondo, alle forze imprenditoriali (una volta li chiamavamo padroni), alle varie lobbies che premono per la garanzia degli interessi dei loro gestiti, a tutte le forze insomma che sono da sempre garanti del perpetuarsi di questo sistema, che si è in grado di garantire la continuità pur cercando di innovare, si spera con una certa eleganza, mi raccomando però sempre all’insegna di conservare il senso e la forza di ciò che già c’è. Si rassegnino gli angioletti ancora imbevuti del mantra occidentale il nuovo mondo è possibile. No! Per lor signori, il nuovo non può che essere un lifting ben assestato al vecchio che deve continuare ad avvolgerci. Bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima! Sacrosante parole del grande Tomasi di Lampedusa.
Si è così aperto un varco potenziale nella percezione politica del rapporto tra i mandati lassù e chi li ha delegati, gli elettori. Comincia ad esser chiaro che l’elezione è una designazione di comando, non un mandato rappresentante le istanze di chi vota. Comincia ad esser chiaro che le campagne elettorali sono mere campagne di imbonimento mediatico, condotte col fine di estorcere consensi per acquisire la designazione di potere necessaria a governare. Comincia ad esser chiaro che la gestione del governo, l’organo istituzionale titolato a decidere per tutti e su tutti, è indipendente dalle ragioni e dalle speranze di chi, col proprio voto, contribuisce a renderlo operante, mentre segue percorsi, stimoli e motivazioni separati da quella che una volta eufemisticamente veniva definita “volontà popolare”, che in realtà non si è mai saputo bene cosa sia, se non lo schermo dietro il quale si sono sempre parati i politici di turno per giustificare il non sempre giustificabile.

Edvard Munch – L’urlo (1893)

Miscela esplosiva

Naturalmente, nell’accadere di un avvenimento non concorre mai un solo fattore, ma una miriade di concomitanze che, esplodendo tutte insieme, generano il patatrac. Mettiamo così insieme la maggioranza risicata al massimo al senato, l’obbligo di far parte della continuità degli equilibri internazionali per un “governo che si rispetti”, le promesse elettorali della coalizione di maggioranza di pacifismo garantito, la appena avvenuta con grande successo manifestazione di Vicenza contro la costruzione della base americana, le tensioni di aspettative per un cambiamento di rotta rispetto alle partecipazioni militari all’estero e, com’è nei fatti avvenuto, abbiamo una miscela altamente esplosiva.
E allora abbiamo assistito ad alcune gag di sapore teatrale, non proprio gustose. Il ministro degli esteri D’Alema, pur avendo dimostrato nel discorso fatto al senato un’abilità da gesuita consumato, è stato bocciato perché non è riuscito a convincere tutti i suoi. Il governo ha dovuto dar le dimissioni e in tutta l’area di centrosinistra ha aleggiato un sapore di tremebonda sconfitta. I due reprobi, Rossi e Turigliatto, allo stesso tempo rei di non aver serrato le fila disubbidendo agli ordini e unici due ad aver rispettato il mandato conferito loro da chi li aveva eletti, sono stati messi alla gogna, espulsi dal partito per indisciplina, o giù di lì, e additati all’opinione pubblica di sinistra come ”infami traditori”. In realtà sono stati gli unici due onesti individui ad aver ingenuamente creduto che la loro elezione comportasse anche un mandato di rappresentanza vera.
Ma le cose non sono finite qui. Siccome l’assunto vero è: «Le cose che si devono fare non le deve fare Berlusconi, ma le vogliamo fare noi!» (unica ragione di senso che tiene unita la coalizione al governo, per cui chi se ne frega se corrispondono o no al senso di ciò che hanno strombazzato), subito dopo aver dato le dimissioni formali, con una malcelata arrabbiatura in corpo, il leader Prodi ha radunato i suoi, li ha sottoposti ad un’adeguata reprimenda e li ha praticamente obbligati ad accettare i famosi dodici punti che attualmente, non si sa per quanto ancora, sorreggono il governo.
E qui si registra una svolta nell’impatto d’immagine, sottolineata dai due ultimi punti del patto di ferro, che in sostanza danno piena autorità al premier di decidere per tutti incondizionatamente in caso di divergenze. Di fronte a tale chiarezza autoritativa fa tenerezza la timida richiesta di Giordano di mantenere la collegialità, negata dal patto stesso. È il trionfo della governabilità, bisogno continuamente sbandierato a destra e a manca da diversi decenni di repubblica, sulle illusioni della pluralità che, a parole, dovrebbe contraddistinguere la democrazia. Gli eletti trasformati in soldati del generale premier, completamente esautorati dal compito contrabbandato di essere invece rappresentanti di chi li elegge. A questo punto vien da chiedersi: «Perché mandare tanta gente lassù, con quello che costa? Basterebbe eleggere i due o tre che rappresentano i pochi punti di vista diversi, che così se la fanno tra loro e decidono in fretta senza tante beghe formali che costano tempo e denaro.». In fondo con questa logica militare tutti debbono solo obbedire al capo.
La tendenza in atto mi sembra chiara: i pochi rimasugli di rappresentatività, pur se sempre mascherata e vilipesa, stanno scomparendo de facto. Sta passando la logica che il voto serve solo a designare il leader e il suo esercito di bravi soldatini, perché possono permettersi sempre meno di seguire le farneticazioni dal basso, i deliri di questo popolo che non vuol capire che ci sono decisioni (e sono sempre di più) che non possono tener conto dei bisogni dei cittadini. L’alta politica non si può permettere di perdere tempo con le “fregole” di protagonismo partecipativo. È ora che i cittadini comincino a capire che devono votarli e poi obbedire e stare zitti, perché lor signori sanno bene cosa fare per il bene di tutti, anche se sempre più spesso non sembra.

Centrosinistra, centrodestra ma il senso non cambia

Finora abbiamo fatto riferimento al centrosinistra perché è al governo, maggioranza attuale. Ma il senso delle cose non cambierebbe di molto se, sempre con maggioranza risicata, fosse al suo posto il centrodestra. Già in questi pochi giorni di crisi di governo, per ora superata, l’attuale opposizione ha mostrato divisioni interne forse ancora più laceranti di quelle della vigente maggioranza, sulla legge elettorale, sulle prospettive, sulla visione delle cose. Con loro di nuovo al governo il problema della governabilità si ripresenterebbe pari pari, con qualche probabilità di essere maggiore. Ma verrebbe scatenato da altre cose, non di minore importanza. Certo, per il centrodestra, berlusconiano per giunta, il rapporto coi suoi elettori non potrebbe avere la qualità comico-drammatica che ha per il centrosinistra. Culturalmente la destra è contro le tensioni di uguaglianza sociale e, per elezione, tende a cercare l’aristocrazia dei presunti migliori, facendo in modo storicamente di favorire con gran facilità leadership troppo spesso vicine a vere e proprie dittature.
Ecco allora che entrambe le coalizioni, pur con timbri sensibilità e problematiche diverse, si trovano accomunate a dover risolvere il problema della governabilità, tentando di mantenere, sempre più a stento, la parvenza della decantata democrazia, perché comunque continuano a soffiare sul consenso, ormai più che altro a carattere di induzione mediatica. Al contempo i dodici punti prodiani, imposti per mantenere a cuccia i recalcitranti, pongono e segnano una sostanza che converge molto con l’idea di leadership da padre padrone cui aspira il berlusconismo, o comunque una destra classica. Proprio perché è innanzitutto un problema di sistema, quello vigente, che rende sempre più simili destra e sinistra.
Ma al di là delle alchimie di palazzo, dove i giochi si consumano in prospettive di comando, mascherati da “gestione per il bene del paese”, i problemi restano e si manifestano, e sono gli stessi con gli uni e con gli altri. Il problema della TAV c’era con Berlusconi e rimane con Prodi, quello di Vicenza anche, come pure tutte le contestazioni agli inceneritori e alle soluzioni sull’energia prospettate dai poteri costituiti. E via di questo passo… Possono avere caratteristiche di facciata diverse, ma le opposizioni dal basso contro l’autorità centrale, o di centro o di destra o di sinistra, non possono che avere la tendenza a crescere. Proprio perché è il rapporto politico tra gestione dall’alto, sia essa rappresentativa o dittatoriale, e gli esseri umani che la subiscono che sta vivendo una fase di rottura, noi ci auguriamo insanabile. Il sistema è sempre meno in grado di attuare le soluzioni che promette, perché non può che agire sulla testa dei suoi sudditi, il più delle volte contro di loro. È conseguente che i sudditi, che non accettano di esser tali, prima o poi si ribellino.
Ecco perché si sta aprendo un varco di nuova consapevolezza, anche se ora è in una fase di grande confusione. E qui dovremmo entrare in gioco noi, fanatici della libertà senza autorità costituita. Ma facciamo grande fatica, arranchiamo. Siamo nelle situazioni, ma con una timidezza che sa di masochismo. Cosa aspettiamo a trovare il modo di proporre con efficacia e determinazione il tipo di società cui aspiriamo e, soprattutto, il metodo dell’autogestione come sistema di vita collettivo, capace di mandare all’aria tutti gli equilibrismi allucinanti per la governabilità del potere sulle nostre teste? Cosa aspettiamo a spingere verso la trasformazione libertaria dei rapporti sociali?

Andrea Papi