Rivista Anarchica Online


arte

Il grande blasfemo
di Alfonso Amendola

 

Antonin Artaud, il sacro.
Dalle avanguardie alla contemporaneità.


“Io, Antonin Artaud, nato a Marsiglia il 4 settembre 1896, cinquant’anni, autore di cinque o sei libri di poesie, attore di cinema e regista [...] ho perso ogni potere di disporre della mia vita, del mio corpo, internato d’ufficio e costretto in manicomio per 9 anni, oggetto nelle mani dell’autorità, e sottomesso a leggi crudeli ed alienanti che mi resero irrimediabilmente altro per sempre”.

Antonin Artaud

Eccolo Antonin Artaud nella sua fantasmagorica e voracemente anarchica scrittura che fonde psiche e corpo, in un incessante duello con il pensiero sacro. Eccolo il grande blasfemo, il teorico della crudeltà, l’eretico, il bestemmiatore. Eccolo il magister della scena che volle vedere nelle pratiche teatrali la grande possibilità di “far affluire i propri demoni” ed è inutile dire che il contributo centrale di Artaud è sicuramente nel teatro (vero corpo sacrale) (1). Successivamente la dimensione scenica di Artaud si aprirà verso la frantumazione totale dell’io, l’irruzione delle pulsionalità più violente e voraci, lo spazio del demoniaco e il rimosso. E quindi prima della metafisica artaudiana c’è accanto (e dentro) il teatro: e poi la letteratura, la radiofonia, la poesia, la pittura, i Miti e il cinema (il cinema è un grande capitolo per il nostro, cinema “fosforo” dell’esistenza) (2). E poi insieme alle pratiche artistiche: le culture orientali, il Messico, la magia e persino la durezza della fuga dell’io (che molti chiamano pazzia). Eccolo Antonin Artaud con le sue parole violente, velenose e al contempo, tutte dentro una visione del negativo della religione. Una religiosità fortemente cercata come strumento di redenzione ma, per Artaud, assolutamente incapace di “mantenere le sue promesse”. E qui l’invettiva, l’abiura, il rifiuto, il demoniaco, la continua profanazione prenderanno sempre più voce ed eco nel mondo (nei mondi) di Antonin Artaud (fino a fargli lancinante compagnia nei suoi anni di reclusione manicomiale, dove gli elettrochoc e la totale dissipazione di sé lo porteranno ad una graduale morte avvenuta il 4 marzo del 1948).

Antonin Artaud in una fotografia di Man Ray

Artaud più volte affronterà con parole durissime la sua idea di sacro e lo farà sempre con lucido delirio. A partire dal 1945 Artaud si dissocia “dallo spirito dell’inizio rappresentato dallo spirito cristiano” e questo tentativo di fuga lo porterà alla sua mistica di volersi angelo sterminatore abitato da quel “corpo senz’organi” che aveva già teorizzato. Contro l’origine, contro la fine e in particolare contro la figura di Cristo (“l’unto” nella provocatoria lettura artaudiana) che per lui rappresenta il male del mondo. Quella di Artaud è una ricerca capovolta del sacro (per Giovanni Testori la bestemmia è una preghiera all’incontrario), della spiritualità, del divino. Una sorta di estremo credere nel rifiuto, una ricerca ossessiva, bruciante, carnevalesca, totale, delirante e spietatamente solitaria a partire sempre dalla negazione. E sono proprio questi i temi portanti della visione artaudiana della spiritualità. Un assalto selvaggio (e lucidissimo) a qualsiasi credo, nel desiderio (totale) di ripensarla in blocco la spiritualità e gli saranno necessari, nel tempo, il pejote, Lewis Carrol, la catastrofe dell’io, il “bardo-poeta” che si sostituisce a Dio, l’intero annichilimento dell’universo e la percezione di un divenire (caro a Deleuze, Derrida). Tutto per mirare alla Nouvelle révélation de l'Être: “i problemi intorno ai quali ruota il mio testo e le nozioni che cerca di evocare sono tutto ciò che è contenuto nelle parole: Inconscio, Infinito, Eterno”. Artaud è grande rinascita del pensiero sacro (3). È grande volontà di una ricerca delirante e pienissima, è ansiosissima e tragica visione della purezza. La sua scrittura genesiaca è continua riflessione sull’incarnazione di Cristo, il suo odio (odio che lo porterà a scrivere capitoli violentissimi come “Io sputo sul cristo innato” oppure “Essere cristo non significa essere Cristo”) è il desiderio di definire la propria matrice d’esistenza sacra a principiare dal proprio corpo. Il corpo… quella dimensione di corpo che nel tempo sarà dentro le pieghe composite di artisti dell’avanguardia che uniscono alle fatali pratiche della contemporaneità il pensiero carnale di Artaud come grandiosa (ed attualissima) matrice di riferimento: a cominciare dal Living Theatre e poi le performance di Mauro dal Fior e Laura Facci, il teatro tra body art e sperimentazione video della Societas Raffaello Sanzio, i video militanti di Giacomo Verde, i video di Kazou Ohno e ancora Lydia Lunch, Psychic TV, gli Ultrash, La fura del Baus e tantissimi altri sperimentatori che gravitano nell’ambito della comunicazione video, della net art e della creatività visiva più avanzata che in diverse occasioni hanno lavorato e lavorano (attraverso opere, citazioni, riferimenti, scritture, rimandi) nel segno di un autore potente e solitario di nome Antonin Artaud. Il maestro del Novecento che ha saputo leggere nel divenire dell’esistenza e nel rifiuto del divino (come attento ripensamento) le anticipazioni prospettiche di tanta sperimentazione che oggi più che mai ritroviamo nei paesaggi compositi della sperimentazione più avanzata. Artaud (come Craig, nella lettura di Abruzzese) aveva già colto le grandi possibilità del Novecento: “Buona parte del progetto di Artaud si inseriva nel clima di cosmogonie tecnologiche allora correnti nelle culture diffuse dei mercati internazionali dell’immaginario collettivo, nelle diverse forme della sua inclinazione religiosa e sacrale” (4). Dentro queste “diverse forme della sua inclinazione” c’è la possibilità d’essere Dio, o meglio, durante la sua reclusione manicomiale egli “afferma di essere non Dio ma un uomo di cui si è fatto un capro espiatorio per trarne Dio. Di conseguenza ha il diritto di presentarsi come questo corpo unico/ da cui tutto/ anche dio, fu estratto” (5).
Artaud corpo sacrificale,
Artaud come piega ulteriore del sacro.
Artaud o del furor anarchico come rinascita.
Un invito, infine, rileggere ancora (sempre di più) Antonin Artaud, ricominciando, magari, dallo struggente e profondo profilo che ne fa André Breton per ricordarlo nella commemorazione funebre: “Era da poco che Antonin Artaud si era unito a noi, ma nessuno più spontaneamente di lui aveva messo al servizio della causa surrealista tutti i propri mezzi, e questi mezzi erano grandi (…). Forse era in conflitto con la vita assai più di tutti noi. Molto bello, come era allora, quando si spostava, portava con sé un paesaggio da romanzo nero, tutto trafitto da lampi. Era posseduto da una specie di furore che non risparmiava, per così dire, nessuna delle istituzioni umane, ma che poteva talora risolversi in una risata in cui passava tutta la sfida della giovinezza”.
Rifiuto come marcata esaltazione della spiritualità. E quindi furore, ateismo, bellezza, lampi, dolore, solitudine, risate, eternizzazione della giovinezza… cardini che vogliamo sempre ritrovare negli slanci creativi (e perché no anche teorici) del nostro tempo presente e che vogliamo ritrovare nello straziante destino di chi ha voluto ripensare il sacro.

Alfonso Amendola

Note
  1. Del teatro ricordiamo in particolare l’esperienza del Teatro Alfred Jarry il cui obiettivo centrale è quello di “liberare il teatro dall’influenza negativa della letteratura” puntando ad una scrittura scenica autenticamente drammatica ed estremamente vissuta attraverso due componenti necessarie: la dinamica alogica dell’inconscio e la frammentazione del corpo. La sua esperienza teatrale è condensata in un testo di grande tensione e complessità scritto nel 1838, Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968.
  2. I contributi di Artaud verso il cinema avvengono dopo la sua uscita dal Movimento Surrealista. Ma del movimento Surrealista permangono tantissimi elementi di tensione e visionarietà che ritroviamo nella sua idea di cinema – che si sviluppa principalmente attraverso la realizzazione di scenari, scritti teorici e lettere. Il suo unico film realizzato ha come centralità, inutile dirlo, un prete vittima di ossessioni erotiche, il film è: La conchiglia e il prete diretto da Germaine Dulac nel 1927, opera che successivamente sarà rinnegata dallo stesso Artaud (spalleggiato dall’intero movimento surrealista che definirà senza mezzi termini la regista come “una gran vacca”). Il film, infatti, ha una particolare vicissitudine (documentata da numerosi scritti e lettere) e ad opera conclusa Artaud sentirà profondamente tradita la sua idea di fondo, non lo riconoscerà mai come suo film e sarà anche la causa del suo definitivo abbandono del cinema dopo gli anni Trenta. Ma per tutti gli anni Venti Artaud lavora al cinema e realizza una serie di “scenari” (ricordo alcuni titoli: “I diciotto secondi”; “Due nazioni ai confini della Mongolia”; “Voli”; “Le 32”; “L’aereo solare”; “Il signore di Ballantrae” tratto da Stevenson; “La rivolta del macellaio”) e scrive numerose lettere di grande attenzione verso il linguaggio cinematografico. Cfr. Antonin Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, a cura di G. Fofi, minimum fax, 2001.
  3. Vasta la bibliografia su Artaud e la sua opera (nonostante la grande attenzione verso il poeta marsigliese, i lavori artaudiani sono tuttora parzialmente tradotti in italiano, rispetto ai XXVI tomi delle sue Œuvres complètes, edite da Gallimard). Per quanto riguarda le sue attenzioni verso il sacro, tutta la sua vasta produzione ne è segnata, attraversata. Nello specifico del nostro discorso rimandiamo almeno a quei testi scritti in gran parte durante gli ultimi suoi anni di vita: cfr. Antonin Artaud, La vera storia di Gesù Cristo, a cura di R. D’Este, Nautilus, 1992; Id, Per farla finita con il giudizio di Dio, a cura di M. Dotti, Edizioni Nuovi Equilibri, 2000; Id., Io sono Gesù Cristo. Scritti eretici e blasfemi, a cura di P. Di Palma, Edizioni Nuovi Equilibri, 2003; Id, Lettere del grande Monarca, a cura di P. Di Palma, Edizioni L’Obliquo, 2004. Ma si veda anche per la sua idea di misticismo tribale, almeno Id., Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di H. J.Maxwell e C. Rugafiori, Adelphi, 1966.
  4. A. Abruzzese, Lo splendore della TV. Origine e destino del linguaggio audiovisivo, Costa & Nolan, 1995, p. 138.
  5. C. Dumoulié, Antonin Artaud, Costa & Nolan, 1998, p. 137.