Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Un discorso personale: Sotto il pavé la spiaggia
Il mio nuovo disco in cui canto Brassens, Brel, Ferré, Leprest, Renaud

Per usare una locuzione in voga in questi anni ora ho un conflitto d’interessi!
Nel senso che il disco su cui soffermerò la vostra attenzione per qualche tempo l’ho fatto io. Non da solo, certo (anzi in questo caso meno da solo del solito), cionondimeno porta (anche) il mio nome in copertina.

Sul palco c’è il silenzio ch’è vestito di nero
Sul palco c’è una troia con i suoi occhi astratti
Sul palco c’è il vento che m’invade il pensiero
Sul palco c’è la paura che si muove a scatti
Sul palco c’è la voce che mi viene dalle onde
Ed il palco è il tuo ventre dove muoio ogni sera
Sul palco c’è il tuo stile che si muove e confonde
Sul palco c’è l’amore fatto alla mia maniera.


Il problema che mi posi già all’uscita di Resistenza e amore (il mio primo disco) un paio d’anni fa, parlandone con Paolo Finzi, era che sarebbe stato surreale ignorare – in virtù di un nobile understatement – proprio un lavoro che dal movimento e dalla cultura libertaria si ritiene fortemente ispirato (e anzi spero che ne sia degno) e che vuole dialogare – non solo, ma in primo luogo – con tutti i compagni e i simpatizzanti.
Mi capita tanto di girare, da quasi dieci anni, per circoli, spazi sociali, feste, manifestazioni, piazze, presidi e quant’altro e, senza voler fare torto ai lettori e ascoltatori che non conosco, sono certe belle facce di Torino, di Jesi, di Milano, di Napoli, di Ragusa, di Firenze, di Mestre, di Imola, di Reggio Emilia, ecc…ecc… che mi figuro innanzi quando scrivo queste righe o qualche verso da cantare.
Per dirla tutta… ci sarebbero Marco Pandin e Mauro Macario (gli altri due che trattano di musica quassù) cui affidarmi, ma a loro mi lega non solo profonda stima, ma proprio un affetto sconfinato, e do per scontato che non parlerebbero male di un mio disco, se non altro per non ferirmi.
Allora – come già un paio d’anni fa – vista l’impossibilità della recensione, mi provo a raccontarvi direttamente io di questo lavoro, pensando che sia interessante per me e per voi ragionare su un punto di vista personale, senza finzioni.

Sul palco c’è il tuo slip che si accende al mio fuoco
Sul palco c’è il mio stipendio già speso il ventotto.
Sul palco ci son vele che si gonfian per gioco
Sul palco le canzoni hanno il fiato ben corto
Sul palco c’è il pavé che ricopre la spiaggia
Sul palco c’è il falso che si prende per vero
Sul palco c’è la luna in sciopero selvaggio
Sul palco c’è un tipo che si trucca davvero.


Sotto il pavé la spiaggia – questo il titolo – nasce tutt’uno con la rubrica E compagnia cantante, ne è un completamento, un estratto, un’estensione.
Tanto per cominciare l’autore delle canzoni non sono io, gli autori sono: Léo Ferré, Jacques Brel, Georges Brassens – i tre giganti della canzone francese – più due cantautori già classici ma ancora in piena attività, Renaud e Allain Leprest. Sono nomi spesso ricorrenti su queste pagine, a tutti loro ho dedicato per lo meno un articolo.

Nei miei spettacoli ne propongo spesso le canzoni che ho adattato in italiano, il disco è appunto una raccolta di queste canzoni.
Per me è sempre stato impossibile ascoltare e amare una canzone senza desiderare di viverla, di parlarne di comunicarla. Credo che la fruizione di un’opera d’arte sia un atto creativo non meno che la composizione o l’esecuzione o l’esegesi della stessa.
Queste pagine, il palcoscenico, il CD color alluminio, un sito, un blog, un file mp3 in condivisione, sono mezzi per esprimere un concetto dell’arte che non vuole tenere l’artista su un piedistallo (o peggio in vendita in qualche vetrina) e il pubblico più sotto, seduto ad ammirare e ad applaudire (o fischiare). L’ascolto non è un dato passivo, men che meno per una canzone. La canzone è un fatto ibrido, dalle provenienze popolari fonde e scure come il mare, spesso insondabili. La canzone è un fatto collettivo e individuale assieme, non ha confini è difficile da rinchiudere e da proteggere nel bene e nel male: non puoi proibirla, che tutti già la canticchiano. Forse per questo è la colonna sonora delle rivolte e degli amori.

Sul palco c’è Bene che ti recita il male
Sopra il palco Molière fa il malato e poi muore
Sul palco c’è Karl Marx che spiega il capitale
A Wall Street, alla borsa, a chi ha l’oro nel cuore
Sul palco c’è Sole che d’estate s’impicca
Sul palco l’autunno ci conquista ogni sera
Sul palco c’è l’inverno che ci gela e in ripicca
Sul palco c’è il Chiapas che aspetta la primavera.


Certo la storia della canzone può essere illuminata da sensibilità particolari, da qualche straordinario catalizzatore. In questo senso i cinque catalizzatori che ho scelto per il mio disco sono fra i più grandi. Fare da ponte fra loro e un pubblico che a loro, per motivi linguistici, storici o logistici, non può arrivare è una specie di missione laica e anche un piacere che mi permette di invitare i miei padri putativi, i miei Super Io, al tavolo della festa e presentarli ai miei ospiti.
Eccoli uno per uno:

Léo Ferré – Il cantore dell’immaginario che si era conquistato la palma di un esilio perpetuo dalla terra spagnola (finché Franco viveva), l’uomo che ha cantato il maggio ’68 con le parole dei poeti maledetti che lo avevano visto e lo avevano scritto un secolo prima che accadesse. L’iconoclasta, il direttore d’orchestra, il poeta che ha portato la musica nelle strade. L’uomo che ha vissuto trent’anni in Toscana e che il nostro becero paese ha circondato di un silenzio che è doveroso contribuire a spezzare.

Georges Brassens – Noto e citato come l’unico maestro riconosciuto da De Andrè, icona ignorata, nonostante le splendide versioni milanesi di Nanni Svampa. Un libertario capace di far godere di versi tanto perfetti quanto non sottomessi alle regole, tanto equilibrati formalmente quanto irridenti; il maestro senza cattedra e senza lezioni, senza lavagna dei buoni e cattivi, e forse per questo il maestro per antonomasia. Il maestro del pacifismo, della tollerante rivolta. Il maestro che ha insegnato come essere liberi dai maestri.

Jacques Brel – Fuoco e argento vivo, la canzone che non sembra scritta, che si compone solo di emozione, che è gesto, che è urlo e furore, che non può star ferma nemmeno sul vinile. I marinai di Amsterdam come gli dei caduti di un uomo troppo umano. L’urlo del bambino che piange la trappola degli anni, del dover diventare grandi. E allora la fuga, il vortice della musica, la passione della lotta che sul bordo della stupidità della morte troverà ancora in piedi Jacques, l’amante che ebbe il talento di non diventar vecchio e di non essere adulto.

Renaud – Il Vasco Rossi francese con la coscienza politica di Che Guevara. Nato sulle barricate del maggio 68, nutrito dalla canzoni belle époque che narravano le gesta dei banditi anarchici, anarchico lui stesso, Renaud è riuscito nell’incredibile scopo di portare le posizioni più radicali a un pubblico di milioni di fan. Poeta degli emarginati, delle moderne periferie in lotta, con una tenerezza priva di pietismi, dipinge ormai da trent’anni un affresco sociale che della cronaca coglie sempre il lato universale, che dalla disperazione continua a distillare il senso del riscatto.

Allain Leprest è invece un outsider riverito e stimato dai colleghi come grande poeta della canzone, anche se poco noto al pubblico; ha scritto per Juliette Greco, per Romain Didier, per Enzo Enzo… Folgorante, visionario, abilissimo è il continuatore della scuola del surrealismo impegnato, quella di Luis Aragon, di Desnos, di Prévert. Potente nell’uso della parola, dissacrante, violento e fragile, è sulla scena roco e dilaniato, umanissimo. È quello che i francesi chiamano un écorché vif: un uomo senza pelle, uno della grande famiglia di Piero Ciampi e di Rimbaud.

Sul palco c’è la speranza che trascina la vita
Sul palco c’è la tristezza che ti urta sui denti
Sul palco c’è un toro che non ha via d’uscita
Alla corrida folle dell’incrocio dei venti
Sul palco c’è il mio cuore che mi batte compagno
La mia donna che dietro le quinte sorride
Sul palco il successo lo si merita pugni
Sul palco c’è Michael Jackson che mi guarda e poi ride.


Se la scelta dei tre mostri sacri è ben storicizzata e inattaccabile (chi s’è occupato di canzone francese si è sempre occupato innanzi tutto di questi tre), evidentemente per quanto riguarda gli altri due è di gran lunga più arbitraria. E tale è giusto che sia. Probabilmente Gainsbourg, Perret, Barbara, Moustaki, Nougaro e poi Le Forestier o Bashung e qualche altro anche più giovane, avrebbe potuto più che degnamente, insieme a Renaud e Leprest, rappresentare la continua evoluzione della canzone francofona.
I due scelti da me erano però paradigmatici di un preciso modo d’essere testimoni e poeti di un linguaggio in evoluzione, di essere eccelsi da due posizioni agli antipodi: popolarissimo Renaud la rockstar, stimato ma schivo Leprest il poeta maledetto.
Inoltre c’è un particolare ancor più arbitrario ma centrale. Tradurre canzoni è un atto di ispirazione, non meno (forse più) che scriverle; che una canzone mi piaccia da morire è condizione necessaria ma non sufficiente perché io riesca a tradurla, deve anche solleticarmi qualche imponderabile desiderio, devo potermi immaginare di averla scritta io stesso. Con Renaud e Leprest, in periodi diversi, il gioco m’è venuto più facile e continuativo che con altri e dunque avevo a disposizione un buon numero di ottimi pezzi già in partenza.
Siccome però mi piace complicarmi la vita ci ho tenuto a prendere, anche dai mostri sacri, brani inediti (per quanto ne so) in versione italiana, in modo da proporre al pubblico un repertorio totalmente nuovo.

Sul palco c’è la mia gioia rivestita di note
Sul palco c’è il mio lavoro quello vero, il migliore
Sul palco c’è Milano, senza pula, pulita
Sul palco c’è il mio gatto che strilla il suo calore
Sul palco c’è l’ombra che nasconde quel viso
Sul palco c’è un amico che m’inietta del vetro
Sul palco c’è l’applauso e tutto batte diviso
Giù dal palco la gente...e quello è il vero teatro.

Questo testo – Sur la scène di Léo Ferré – che ha inframmezzato il mio discorso apre da alcuni anni i miei concerti. Così si apre il disco. Con questa conclusione – giù dal palco la gente… e quello è il vero teatro – vi saluto, invitandovi ad ascoltare (badate bene non ho detto comprare: oggi comprare un disco equivale a fare una sottoscrizione all’autore per permettergli di andare avanti, ma quanto ad ascoltarlo ci sono mille altri modi…) questo Sotto il pavé la spiaggia.
A proposito qualcuno ha idea del perché l’ho chiamato così?

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it