Rivista Anarchica Online


politica

Socialisti sì, socialisti no
di Andrea Papi

 

Entrambe le correnti socialiste autoritarie, ispirate da Marx, hanno fallito pienamente l'obiettivo. L'una dichiarando fallimento totale, l'altra divenendo la garante del sistema che doveva trasformare e superare.

Dal 22 agosto 2006 con l'articolo Che cosa vuol dire definirsi socialisti John Lloyd, noto storico inglese, sul quotidiano “La Repubblica” ha dato inizio a un intenso dibattito, che fino a metà settembre ha visto scendere in campo diversi teorici e professionisti della politica, coinvolti ovviamente nella questione sollevata. Da Giuliano Amato, attuale ministro agli interni, ad Anthony Giddens, direttore della London School of Economics, ad Alain Touraine, noto sociologo francese fondatore nel 1981 del Centre d'Analyse et d'Intervention Sociologiques (Cadis), a Veltroni, attuale sindaco DS di Roma, a Fassino, attuale segretario nazionale dei DS, a Bertinotti, rifondazionista attuale presidente della Camera dei Deputati italiani, a Giorgio Ruffolo, militante della sinistra socialista lombardiana e fondatore nel 1986 della rivista “Micromega”. Per citare i più noti.
Se “socialista” vuol dire qualcosa, infatti, il PSE non può continuare a definirsi tale. Si tratta di altra cosa, di qualcosa di ragionevolmente diverso da un partito di destra, ma non socialista. Sarebbe auspicabile che la politica europea lo capisse.
Con questo concetto di fondo praticamente Lloyd esordisce nel suo intervento, sostenendo che se non ha senso continuare a definirsi socialisti può però averne riconoscersi di sinistra e praticare una politica riconoscibile di sinistra. Evidentemente ha colto nel segno, e non credo l'abbia fatto per mera provocazione, perché il suo è stato seguito, come abbiamo visto, da una miriade, non so se prevista o no, di interventi. Pochi a favore di ciò che sostiene, molti altri infervorati a tentar di dimostrare che, invece, dirsi “socialisti” oggi continua ad averne ancora tanto di senso.
L'impressione che ne ho avuto leggendoli, è che questi intellettuali d'alto rango abbiano sentito il bisogno di continuare a sentirsi in qualche modo socialisti, pur essendosi ormai imbarcati su un naviglio politico che col socialismo, almeno quello delle origini, ha ben poco a che fare. Ma al contempo fanno fatica ad avere le idee un minimo chiare di dove possano oggi collocarsi, visto che le ragioni principali per cui il socialismo si impose sulla scena, anche a sentir loro, non ci sono più. E per ragioni non intendo i motivi, diciamo oggettivi, dello stato sociale generale che a suo tempo ne giustificarono la nascita. Intendo altresì le dichiarazioni di realizzazione utopica, cioè che cosa e quale tipo di società, il socialismo avrebbe dovuto e dovrebbe mettere in piedi.

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Parte di un sistema vigente

Quasi tutti gli interventi, pur con sfumature di differenze anche notevoli, sembrano muoversi all'unisono all'interno della stessa unità di misura politica: l'essere parte inscindibile di un sistema, quello vigente, che né può essere modificato alle radici né ha senso il farlo. Al di là delle intenzioni, che comunque non sono dichiarate, il capitalismo globale viene presentato, quindi fatto percepire, come accettabile nella sostanza, identificata nella logica di mercato. Il loro ragionare ruota all'interno di una dimensione teorica secondo cui il sistema attuale non può e non dev'essere sovvertito, mentre può e dev'essere modificato e regolato, in un certo qual senso reso più efficiente.
Si ha quasi la netta sensazione che, secondo la loro chiave ermeneutica di lettura, per come si è sdipanata la storia del socialismo fino ad ora, abbia ingenerato nelle loro coscienze la paura di ogni sovvertimento un minimo rivoluzionario. Tutte le esperienze e tutti gli aspetti del socialismo che storicamente sono stati volti a un reale abbattimento del sistema capitalista, ora li percepiscono addirittura pericolosi, non solo impraticabili. Di qui la considerazione e le proposizioni di non combattere più il sistema in quanto tale, che anzi più d'una volta si ha la sensazione che debba essere salvaguardato, se non addirittura preservato. Ciò che invece secondo loro ha senso fare è regolarizzarlo e tentare di mettergli le briglie, col fine di trovare la maniera di guidarlo nel modo più consono ai valori lati del socialismo, in qualche modo ritenuti ancora validi. Valori molto lati in verità, talmente lati ormai da risultare molto sfumati nell'essenza. Da ciò che esprimono non è neppure detto che siano intoccabili.
A dir il vero l'intervento di Bertinotti, e in modo più sfumato quello di Ruffolo, si discostano da questa linea canonica di dibattito, perché in qualche modo sembrano mettere in discussione il senso del sistema. Seguendo un classico d'ispirazione marxista, Bertinotti sposta l'oggetto della questione sul modo di produzione, intendendolo come l'interpretazione della società come sistema. Nel denunciare l'attuale modo di produzione globalizzato sottolinea che ritorna una tentazione del capitalismo a ricondurre tutto dentro di sé, ritorna una sua vocazione totalizzante. Questo impedisce una possibilità di uguaglianza in senso socialista, tanto è vero che nei sistemi attuali le ingiustizie e le disuguaglianze…sono divenute così profonde e strutturate da essere parte integrante del sistema stesso, fino a rappresentare ormai un momento di insostenibilità per il futuro della democrazia e della civiltà. Purtroppo nel capire che cosa fare vagheggia del formarsi…di soggetti protagonisti della storia futura…, di costruzione di una volontà politica capace di cogliere la natura più profonda della contesa…, demandando il tutto alla grande politica, come compito primario per la trasformazione ritenuta necessaria.
Il panorama teorico complessivo che ne salta fuori è che il socialismo di oggi, abbandonata de facto e di necessità ogni velleità di abbattere il sistema capitalista, ragione di fondo per la quale a suo tempo è stato pensato e concepito, non possa che aspirare a diventare ed essere il suo regolatore attraverso la gestione statale, con la capacità di livellarne le spinte oltranziste di aumento delle disuguaglianze, di limitarne i livelli di sfruttamento, di attenuarne le ingiustizie. Per usare una metafora si potrebbe dire che ha indossato le vesti e assunto le aspirazioni del nemico per condizionarne i comportamenti ributtanti e renderlo più accettabile.

Coniugare il peggio del peggio

Certo, viene affermata più volte l'indissolubilità di eguaglianza e libertà, ritenuta con fermezza il vero carattere distintivo del socialismo d'oggi e del futuro, sostenuta addirittura con orgoglio da Amato. Detta così sembra quasi un'affermazione anarchica. Nel farlo però c'è la mera volontà di coniugare socialismo e liberalismo, rispolverando tematiche che a suo tempo furono bellamente emarginate dal frontismo. Magari si trattasse del vecchio socialismo-liberale del Rosselli di GL, che, a differenza di questo, è stato perlomeno molto meno centralista e tendenzialmente federalista, come aveva giustamente intuito Berneri. No! Qui si coniuga il peggio del peggio. Si accetta in pieno la filosofia del mercato capitalista e il suo dilagare e straripare a livello globale, giustificandolo come dato di fatto, mentre lo si vuol solo correggere e addolcire con un imbellettamento liberalisteggiante, assegnandogli come sede lo statalismo e come strumento l'aumento del controllo e della burocrazia statali, vissuti come campioni potenziali di garanzia di giustizia e libertà.
Questi intellettuali evitano di ricordarsi la storia del pensiero e dei dibattiti che stanno all'origine del senso del socialismo. I primi a porre con forza l'indissolubilità di uguaglianza e libertà furono gli anarchici all'interno della Prima Internazionale. In una prospettiva però del tutto rivoluzionaria, che la vedeva realizzata solo in un superamento totale del capitalismo, come modo di produzione e come logica di mercato dediti e motivati esclusivamente dal profitto, e con la gestione collettiva dal basso attraverso libere autonomie locali federate tra loro, che avrebbe dovuto sostituire la centralizzazione statale quale mezzo di gestione della società. L'uguaglianza era intesa come abbattimento dei privilegi e delle differenze di classe e la libertà come rinuncia al comando centralizzato e all'uso politico di strumenti coercitivi e d'imposizione.
La rivendicazione e la sovversione anarchiche erano eminentemente economiche, in vista di un auspicabile abbattimento delle strutture autoritarie. Si contrapponevano alla visione autoritaria di Marx, che invece auspicava una rivoluzione eminentemente politica attraverso la presa del potere statale. Secondo Marx la gestione dell'autorità dello stato era irrinunciabile come momento transitorio verso il decadimento completo della divisione della società in classi, ritenuto spontaneo e inscritto nella determinazione storica delle cose. In questa fase transitoria, che Lenin definì socialista, la classe proletaria avrebbe dovuto mantenere il potere, che Lenin identificò nella dittatura, per garantire l'estinzione, ritenuta automatica, delle classi. Questa, e non altra, è stata la visione socialista autoritaria dentro la Prima Internazionale, contrapposta a quella libertaria.
Da questo dualismo “strategico”, che fin da subito fu contrapposizione politica e organizzativa tra le due posizioni, prese forma la pluralità delle teorie e delle visioni socialiste, strettamente collegate al sorgere delle organizzazioni del movimento operaio.
A sua volta la componente autoritaria, che fra l'altro nella Prima Internazionale era minoritaria, generò due tronconi: uno rivoluzionario, che assunse le vesti del bolscevismo leninista ai primi del novecento, l'altro socialdemocratico, che ipotizzò l'uso della democrazia per addivenire allo stato socialista attraverso un insieme di riforme capaci di trasformare il sistema borghese dall'interno. Il primo preconizzava l'abbattimento dello stato capitalista con la rivoluzione violenta, per prendere il potere e instaurare la dittatura proletaria di classe. Il secondo rifiutava la rivoluzione insurrezionale e preconizzava la conquista dello stato attraverso gli strumenti democratici, cercando di sfruttare le contraddizioni che supponeva insite nel sistema borghese. Il primo impose effettivamente la dittatura, che però invece di essere di classe è stata solo di partito, e generò una nuova classe burocratica di sfruttatori e oppressori, che si è dimostrata permanente invece di essere, come supponeva lo scientismo della dottrina marx-leninista, una transizione verso la fine della divisione in classi. Il secondo, per un lungo periodo storico, soprattutto in Germania e nei paesi scandinavi, è riuscito effettivamente ad avere in mano lo stato con la via elettoralistica, ma invece di portarlo ad una lenta e inesorabile trasformazione verso il socialismo, ne è divenuto velocemente un garante prezioso della sua continuità, contraddicendo i presupposti su cui si è fondato.

Obiettivo fallito

Ciò che è importante sottolineare è che entrambe le strade sorte in seno alla componente autoritaria, sia quella rivoluzionaria sia quella socialdemocratica, pur divergendo sul piano strategico, preconizzavano e avevano comunque lo stesso obiettivo finalistico, di superare cioè il sistema capitalista e borghese per pervenire ad uno stato socialista. Gli uni con l'abbattimento insurrezionale e la dittatura, gli altri con la conquista attraverso libere elezioni e le riforme. Non penso che si debbano spendere molte parole per sostenere che entrambi i partiti autoritari indotti da Marx hanno fallito pienamente l'obbiettivo. L'uno dichiarando fallimento totale, l'altro divenendo il garante del sistema che doveva trasformare e superare.
Oggi, all'inizio del terzo millennio, come mostra bene il dibattito su “La Repubblica”, il socialismo istituzionale ufficiale, che storicamente deriva dall'ala autoritaria della Prima Internazionale, non si pone più il problema di affondare il capitalismo. Lo ha addirittura assunto come legittimo sistema insostituibile e si propone di diventarne a tutti gli effetti il governatore e il regolatore. Dall'angolatura che identifica il principio istituente della sua legittimità teorica e realizzativa non può dunque che aver ragione Lloyd.
Ma il problema di considerare inscindibili uguaglianza e libertà per un'autentica emancipazione sociale rimane intatto in tutta la sua forza, perché l'ingiustizia nel mondo continua ad aumentare. Né l'una né l'altra si potranno però raggiungere veramente finché sussisteranno capitalismo e democrazia rappresentativa, che oggi sono i pilastri degli eredi del socialismo storico. Gli anarchici perciò hanno avuto ragione fin dall'inizio nel sostenere che non si può che scegliere la via libertaria.

Andrea Papi