Rivista Anarchica Online


clandestini

Una storia di periferia
di Maria Matteo

 

Nonostante la patina di “sinistra” che si vuol dare a leggi razziste, i “clandestini” continuano a morire. Come a Torino...

 

Sassate contro l'indifferenza

Negli anni '70 si chiamava Fiat Ricambi, stava lì oltre la Stura e, di fronte, una rivendita di auto usate. Intorno sono cresciuti palazzoni uguali in tutte le periferie operaie. Di quelli che sei in Thailandia o a Torino e al primo colpo d'occhio non vedi la differenza.
Lì, sul corso che porta all'imbocco della Torino Milano, dove la Barriera è avanzata più lentamente, lasciando a lungo l'illusione della campagna, si sono consumate lotte e passioni, di cui oggi solo di rado si risente l'eco. Durante la vertenza per l'ultimo contratto gli operai della nuova generazione, di quelli stanchi di sentire i “vecchi” cianciare della sconfitta epocale dell'80, si sono messi di traverso e hanno bloccato l'autostrada, ma della passione che prendeva tutto il quartiere, tra i palazzi della Barriera operaia, non c'era più traccia. Quando le prendi, ci sono le volte che ti rialzi e sei più incazzato di prima, ci sono invece le volte che molli il colpo, specie se la mazzata decisiva te l'ha data quel sindacato le cui bandiere sono state appese ai cancelli per 35 giorni e notti di lotta, solidarietà, speranza.
Ci lavorava mio zio lì alla Ricambi e raccontava di quel brutto autunno dell'80 quando i padroni si sono ripresi la fabbrica e i loro capetti hanno rialzato la testa e hanno riattaccato a controllare i minuti. A dicembre, prima della pausa di fine anno, quelli rimasti dopo la ramazzata dei 23.000, si erano sentiti dire che alla linea dei camion in gennaio la produzione doveva passare da 14 a 27. Il doppio. “Tutti zitti o aria camminare” diceva mio zio. La paura era dura come le lamiere e tutti chinarono la testa. Mio zio, approfittando di un'ernia del disco, riuscì ad imboscarsi tra quelli delle pulizie. Non troppi anni dopo un cancro se lo portò via prima della pensione.
In quegli anni sui prati che resistevano lungo la Stura era difficile trovare qualcuno: il fiume era una discarica a cielo aperto e nessuno ci passava le domeniche: quelli che potevano scappavano fuori, gli altri se la trascinavano nella polvere dei giardinetti condominiali.
Eppure c'era stato un tempo non lontano che lungo la Stura trovavi la gente sulle spiaggette a prendere il sole d'estate, mentre intorno si spargeva l'afrore delle friggitorie di pesce di fiume. I palazzoni non c'erano ancora e neppure ci arrivavano i tram. La gente di barriera, quella che stava nelle case degli anni '20 rialzate dopo la guerra, nel cuore del quartiere operaio, ci arrivava a piedi con le coperte e il costume da bagno. Mio zio la chiamava “Stur le baignes sur mer”: era la spiaggia dei poveri, dove si andava a nuotare nelle acque a volte infide, a “mangé i pes” e a bere quel vino rosso dove mio nonno finì con l'annegare la vita. Mai capito perché mia nonna e sua madre ogni notte lo tirassero su dalle scale che la ciucca non gli faceva più salire per venirne ripagate a suon di botte. Ma questa è un'altra storia.
Oggi di quelle spiaggette, di quelle domeniche d'estate è spento fin il ricordo. Quelli che stanno nei palazzoni intorno la Stura l'han sempre vista così: acqua sporca lungo la Fabbrica che le si stende accanto per un paio di chilometri.
Oggi la Fabbrica si chiama IVECO e di quegli anni non sono rimasti che i palazzoni un po' ingrigiti. Oltre ai camion e agli autobus ci fanno anche i mezzi militari: li tengono in una specie di vetrinona sul Lungo Stura, un po' discosti, ma ben visibili.
Le rive della Stura, specie la domenica, sono nuovamente affollate di gente: specie d'estate ci passano la domenica intere famiglie di immigrati, che accendono i fuochi e cucinano, mentre i bambini giocano sulle sponde. I maghrebini un po' discosti, mentre sul fiume gli slavi fanno il bagno e prendono il sole. Ci sono anche rom, senegalesi e altra gente di tutti i dove. La spiaggia dei poveri ha ripreso, incredibilmente, vita.
Ci trovi poi giovani africani vestiti come i pusher dei film americani che stanno tra i prati e il ponte sulla Stura e fanno i pusher di Barriera. Le grandi pulizie della giunta di centrosinistra li hanno poco a poco sospinti qui, dove gli unici italiani che passano sono anziani che sfrecciano in bici, senza fermarsi.

Le ruspe e la ramazza

Ma la ramazza dei Chiampa Boys è arrivata sino a qui. La “pulizia” avanza allo stesso ritmo delle ruspe del sindaco.
Qui hanno fatto la metropolitana leggera, prolungando di un chilometro la linea 4 e mettendo le corsie preferenziali, spaccando in due il corso. Ci hanno anche fatto un albergo di lusso, il Novotel, e il Polo della Moda, un centro di eccellenza appena dopo l'uscita dell'autostrada, uno dei tanti pezzi del più ampio progetto di riqualificazione urbana, di trasformazione della città, che sta cambiando il volto di Torino. La Città Fabbrica per eccellenza si sta tramutando in una sorta di Luna park, centro di scambi e luogo di Eventi (rigorosamente con la Maiuscola), con una vocazione turistica inventata a tavolino con le olimpiadi invernali e rinverdita con mondiali di scacchi e di scherma, mostre, fiere e continui spettacoli.
E così le famiglie che fanno i pic-nic domenicali, i rom che cagano nei radi cespugli, i pusher con la loro clientela di tossici da strada han cominciato a dare fastidio. Sulla linea del 4, in certe ore ci trovi quelli dell'albergo e quelli del centro moda accanto ai pezzenti africani, zingari, marocchini, rumeni. Operai e pusher, signori incravattati e madame figanti, tutti insieme sulla stessa vettura e poi lì a pochi metri tra i traffici e gli escrementi del lungo Stura e le vetrine lustre e il lusso dell'albergo e del centro moda.
Così in un venerdì come tanti di settembre sono arrivati i carabinieri per una retata in grande stile. I ragazzi vestiti come pusher americani sono scappati via lungo le sponde del fiume e, poi, pressati dalla carica dei militari hanno cercato di raggiungere una sorta di isolotto in mezzo alla Stura. Una catena umana per aiutarsi a reggere la violenza dell'acqua che lì scende ripida, violenta. Due di loro non ce l'hanno fatta. Il fiume li ha travolti, uccidendoli. Il cadavere di uno è stato recuperato dai suoi compagni, mentre l'altro è stato ingoiato dalle acque limacciose.
Intanto i militari hanno portato a termine la loro operazione, arrestando quattro persone: uno condotto in carcere, gli altri verso il CPT di Milano, per la deportazione in Senegal.
Gli altri, di fronte al cinismo di chi nulla stava facendo per recuperare il corpo del ragazzo scomparso, hanno trovato la forza di rivendicare, di fronte alla morte, quella dignità che era stata negata in vita a ciascuno di loro. Sassi contro i carabinieri e il blocco della strada sono stati la risposta immediata di chi chiedeva solo un po' di rispetto. Ancora per giorni hanno continuato a presidiare il ponte in attesa che i vigili del fuoco tirassero fuori il corpo del loro amico. Intorno polizia, DIGOS, e pochi manifestanti giunti per solidarietà. I giornali riferiscono della rabbia dei residenti contro i pusher, dell'odio che, anche in questa periferia un tempo solidale, cresce tra chi, pure, non troppi anni prima era arrivato assaggiando di persona l'amaro sapore del razzismo, della discriminazione, della diffidenza.

Senza carte sei un delinquente

Gli opinionisti de “La Stampa” si sono scatenati contro i “mercanti di morte”, contro gli spacciatori. Lorenzo Mondo non ha lasciato spazio neppure all'umana pietà per i morti. Feccia da spazzare via. Punto. Non un dubbio, non una domanda, da parte di chi, agendo con la penna, avrebbe la responsabilità di capire, per meglio informare, per consentire la riflessione, per facilitare la comprensione. Eppure in questi ultimi due anni le operazioni di polizia e carabinieri contro gli “immigrati che delinquono” si sono chiuse in più di un'occasione in modo tragico. Un paio d'anni fa una ragazza marocchina di 19 anni era scivolata dal tetto da cui tentava di sfuggire ad un controllo, perché non avrebbe potuto esibire i documenti che, come una barriera impenetrabile, separano i giusti dagli ingiusti, i cittadini dai clandestini, i dannati della terra dai privilegiati di tutti i nord. Nella scorsa primavera un ragazzo di 23 anni, originario del Marocco, era annegato nel Po, nel vano tentativo di sfuggire gli inseguitori in divisa che lo braccavano. Anche lui non aveva i documenti “in regola”. E poi c'è stato l'africano sparato per sbaglio ad un posto di blocco. Già, per sbaglio. Perché la polizia, quando ti ammazza e non riesce a farti passare per delinquente, si copre dietro all'errore. Peccato che le armi in dotazione delle forze del disordine statale abbiano una doppia sicura e, quindi, per “sbagliare” occorra metterci dell'impegno. Mentre la primavera volgeva all'estate è stata la volta di un giovane nigeriano, caduto dalla finestra dell'abitazione del fratello, dove si era “appeso” nel disperato tentativo di sfuggire all'ennesimo controllo. Senza documenti, i clandestini, devono vivere nell'ombra, subendo i ricatti continui di padroni e padroncini, sottoponendosi alle condizioni più bestiali. In silenzio. Senza carte non ci sei, senza carte sei un delinquente anche se lavori, senza carte rischi di morire perché la disperazione getta a fiume o su un cornicione chi viene dall'inferno e non vuole tornarci. Se poi sei un pusher di periferia vestito come un gagà per te neppure una parola di pietà, neppure lo sforzo di ripescarti dal fiume che si è mangiato la tua vita. La gente mormora che te lo sei cercato e meritato. Peccato che se in tasca avessi i documenti con scritto “cittadino italiano” non ti getteresti certo a fiume, ma ti limiteresti a buttarci la mercanzia illegale. Chi sa perché chi vende alcolici o sigarette non viene chiamato “mercante di morte”, nonostante gli ospedali siano pieni di chi si è bruciato polmoni, fegato o cervello a forza di fumare o bere. Il confine tra un “mercante di morte” ed un “mercante” è in una legge proibizionista, che vieta il consumo e la vendita di certe sostanze. Così come il confine tra il cittadino ed il clandestino è una legge razzista.

La doppia galera

Il ministro dell'Interno Amato ha annunciato di volerci mettere mano a questa legge, per rendere più razionale lo sfruttamento, più semplice il reclutamento della manodopera che serve e l'espulsione di quella in eccesso. Poi, per dare una patina di “sinistra” al tutto le galere amministrative per immigrati saranno di due tipi: quelle per i “delinquenti” e quelle per la prima accoglienza. Immaginate cosa accadrebbe se un italiano, uscito di galera dopo aver scontato una condanna, venisse preso di peso e rinchiuso in un'altra galera in attesa di essere deportato altrove. Fantascienza? Orrenda distopia totalitaria? Già. Peccato che uomini e donne, colpevoli di essere nati nei posti sbagliati, quest'incubo totalitario lo vivano quotidianamente. Lì accanto a noi, senza che alto si levi il grido di indignazione di fronte alla violazione di quella presa per il culo che chiamano “diritti umani”.
Nelle campagne della Capitanata, dove generazioni di braccianti italiani, hanno sudato e lottato, scrivendo pagine belle della storia dei senza nome che prendono in mano il loro futuro, sono scomparsi 130 cittadini polacchi. Partiti per la “stagione” non sono più tornati a casa. Forse li hanno ammazzati di botte. Un po' se ne è parlato grazie alla bella inchiesta estiva di Fabrizio Gatti, un giornalista che da anni descrive la condizione migrante con l'occhio di chi la vede incisa nella propria pelle. Lo scorso anno si era fatto ripescare a mare e rinchiudere nel CPT di Lampedusa, quest'estate ha raccontato, sperimentandola in prima persona, la vita del bracciante immigrato, lo sfruttamento bestiale, la violenza, il ricatto, la connivenza di troppi che sanno e che vedono ma tacciono. Ogni giorno c'è gente che muore di lavoro, che muore di negazione dei diritti, che muore in silenzio come in silenzio è vissuta.
A Torino, tra la Stura e l'hotel di lusso, nel grigio di una periferia dimentica di sé, della storia che ne segnato l'identità, un gruppo di pusher vestiti come gagà, neri e senza carte, di fronte all'assurdo di un'ennesima morte clandestina hanno gridato e tirato pietre, si sono messi in strada ed hanno fermato le macchine. Hanno reclamato per un morto la dignità che era negata a tutti loro ogni giorno.
Chi li ha sentiti e non li ha ascoltati sappia che un domani, in questo lungo tramonto degli orizzonti della libertà e dell'uguaglianza, potrebbe capitare a ciascuno di noi di urlare nel silenzio.

Maria Matteo