Rivista Anarchica Online


antropologia

Vivere senza padroni
di Stefano Boni

 

È nel vissuto che si costruisce l'antagonismo, non nei grandi eventi mediatici del movimento. Lo sostiene l'autore di un nuovo libro di Elèuthera. Eccone una sua presentazione.

 

L’anarchia può essere intesa come una teoria politica, un discorso, una riflessione su una società in cui il potere viene drasticamente trasformato, distribuendolo diffusamente tra tutti e tutte in modo – per quanto possibile – egualitario. La teoria anarchica può insistere sull'approfondimento di ricostruzioni storiche, può suscitare dibattiti dottrinali, può dar vita a convegni e pubblicazioni. Un diverso fenomeno è la prassi libertaria ovvero la messa in opera quotidiana di valori, modi di vita che cercano di ridurre il potere che ci troviamo ad affrontare quotidianamente. Vivere senza padroni è un testo che racconta come un certo circuito di persone nel vissuto di tutti i giorni combatte forme di dominio e costruisce spazi di socialità egualitaria.
Ho pensato che il modo migliore di presentare il testo fosse offrire brevi estratti – frammenti estrapolati da discorsi più ampi – per far capire la forma narrativa che propongo. Ogni capitolo segue uno stesso filo logico. Parto dal fatto che le rappresentazioni mass-mediatiche di questo circuito (sia quelle conservatrici sia quelle movimentiste) ne occultano l'esistenza o sono tendenzialmente mistificanti. L'attenzione dei professionisti dell'informazione viene invariabilmente rivolta a espressioni eclatanti, estreme, spettacolari: manifestazioni, scontri, grandi raduni, espropri o danneggiamenti. Ci si limita alla cronaca giornalistica mentre quello che mi appare più rilevante è proprio ciò che è misconosciuto: l'esistenza di una configurazione culturale, intesa come un ambiente in cui certi valori d'ispirazione libertaria sono quotidianamente tradotti in vissuto. Il passaggio cruciale che propongo è quello dall'eclatante all'ordinario, dalla retorica dei partiti alle assemblee di piccoli gruppi, dalle grandi manifestazioni alla quotidianità, dalle posizioni di principio ai valori effettivamente messi in opera, dai leader alle persone dimenticate dalla televisione.

La condivisione: reti di convivenza e dono

Il circuito che descrivo aspira a, e mette in pratica per quanto possibile, un ideale di individuo, come in buona parte dell'ideologia occidentale contemporanea, libero da costrizioni e limitazioni. La libertà, però, non è intesa né come tutela di una sicurezza messa a repentaglio da pericoli più o meno immaginari – il terrorismo, l'immigrato, il ladro, il tossicodipendente – né in senso economicista, legata alla sacralità dell'imprenditorialità e alla salvaguardia della proprietà privata. La libertà è invece concepita come libera formazione di una personalità singolare, in un contesto di egualitarismo nella diversità. In questo ambiente una condivisione spontanea, non autoritaria, esterna alle istituzioni, priva di strutture gerarchiche è un valore centrale. La condivisione è un tentativo di superare l'individualismo, di aprirsi all'altro e di ripensare il rapporto tra persona e collettività. L'armonizzazione delle diversità è concepita e gestita all'interno di un vissuto che cerca di minimizzare il potere. Di conseguenza, è la sintonia, la volontà individuale collettivizzata, che permette di costruire relazioni egualitarie. “La curiosità è la migliore amica comune” dice Michela.
Alcune comuni, associazioni, gruppi, adottano forme di confronto comunitario (la riunione, il cerchio, l'assemblea) a cui viene riconosciuta l'autorità di stabilire decisioni vincolanti per i partecipanti. Questi momenti, a volte esplicitamente ispirati alle varie tecniche della comunicazione di gruppo consapevole o ‘ecologica', vorrebbero essere fortemente egualitari, dando a tutti la possibilità di esprimersi liberamente.
Non esistono figure di autorità se non – raramente – qualcuno che, negli incontri più allargati, facilita il dialogo. Raramente vengono fissati limiti temporali per gli interventi e si cerca, al contempo, di stimolare un coinvolgimento attivo di tutti i presenti.
Ci può essere una programmazione delle tematiche da affrontare che è comunque aperta ai desideri dei partecipanti. Le decisioni prese in questi momenti di confronto comunitario, se non completamente rispondenti alla volontà di ognuno, dovrebbero essere, per lo meno, un compromesso considerato accettabile. Non si tratta di discorsi astratti: la riunione spesso delibera sull'assegnazione dei compiti ai singoli, sulla distribuzione dei fondi collettivi, sulla gestione degli spazi comuni, sulla pianificazione di lavori e investimenti.

L'evasione: il lavoro e il consumo

“Evasione” potrebbe essere il concetto che meglio sintetizza il rapporto dell'ambiente che descrivo rispetto al ciclo produzione-consumo. Un'evasione parziale, nella maggior parte dei casi, ma radicale se raffrontata al regime lavorativo prevalente. La ricetta dell'ideologia prevalente prevede il denaro come principale regolatore del ciclo (lavoro-soldi-guadagno-soldi-pago-soldi-pretendo) e un “io” – fortemente individualizzato – come soggetto agente. Invece, nel circuito che descrivo i rapporti economici non sempre vengono monetarizzati e non è sempre il singolo al centro delle dinamiche: la riduzione del lavoro e del consumo richiedono infatti l'attivazione di reti allargate di relazioni personali.
Pochi lavorano in fabbrica e quei pochi non trovano punti di riferimento nel sindacato confederale. La necessità spinge Paolo ad accettare un posto in catena di montaggio. “Nelle grandi assemblee sentivi i delegati che ti spiegavano che aumentando la produttività del 4,7% si aumentava il premio di produzione dello 3,5%, eccetera, eccetera. Bevevo una birra e alla seconda iniziavo ad assopirmi”.
Presto l'organizzazione della produzione e i principi di Paolo entrano in un conflitto irrisolvibile. Paolo ricorda l'entrata della fabbrica e la sequenza di cartelli che dirigono, vietano, ordinano, impongono come vivere quel luogo. Alla prima manifestazione “con ‘il manifesto' e ‘Liberazione' in tasca” trova solo delegati burocratizzati; questi organizzano – per lo sconcerto di Paolo – gli scioperi in modo tale da non interrompere la catena produttiva: chi sciopera per il quarto d'ora stipulato, viene sostituito da un altro lavoratore che aveva già concluso il suo sciopero. Dopo due contratti da nove mesi viene licenziato per “incompatibilità con il regime di fabbrica”; Paolo commenta la motivazione aziendale: “il più grande attestato di stima nei miei confronti”.
Uno dei problemi principali con i contratti lavorativi prevalenti è la durata e, conseguentemente, la scarsità di spazio che lascia per altre attività. Il rapporto con lo scorrere del tempo rivela la distanza ideologica tra chi vuole vivere seguendo le proprie esigenze corporee, di socialità, di svago, di scoperta e un tempo disciplinato dagli orari di entrata e di uscita dall'impiego. Il tempo in questo ambiente è spesso indefinito a priori: non esistono routine ripetute settimanalmente su un ciclo annuale; si minimizzano sveglie fissate alla stessa ora ogni giorno.
L'attività produttiva è inserita – per quanto possibile – in giornate caratterizzate da una variabilità, una creatività, un'imprevedibilità: il lavoro non determina la distribuzione del tempo ma ne è una parte che deve essere armonizzata con le altre. L'uscita dal lavoro rende l'uscita dal consumo sia necessaria che possibile.
Si esce dall'acquisto anche accettando gli scarti. L'usato è la norma anche se si tratta di prodotti che garantiscono una scarsa affidabilità. Daniele, inizia a vivere in una comune, e scrive delle indicazioni sull'utilizzo della sua Twingo che prevede verrà adoperata anche da altri abitanti. “Lo stop dx e sx non funzionano. Non esiste specchietto retrovisore. Tenere d'occhio olio e acqua, costantemente. La leva del tergicristallo è delicatissima: usare molta precauzione. Non preoccuparsi del rumore del motore: batte sulla testa, tutto sotto controllo. Quando piove non tiene la strada. La porta dx si apre solo dall'interno (cancellato) Ora si apre! La batteria è quasi allo stremo. Ma è sotto controllo, basta non dimenticare fari accessi o altro. Non mettere le cassette nella radio: si incastrano!”
Il rapporto con gli oggetti è strumentale, basato sul loro valore d'uso. La critica e l'evasione dai canoni diffusi di rispettabilità dei prodotti, definiti dalla cultura egemonica, permette di estendere il campo dell'utilizzabilità. Attività comuni sono la continua riconversione di utensili abbandonati e la raccolta e la riattivazione di attrezzi dormienti. Si consuma ciò che è già stato consumato: oggetti la cui vita produttiva l'opinione prevalente considera ormai, irrimediabilmente, giunta al termine. All'accusa, espressa in modo più o meno esplicito dalla normalità, che gli utensili usati sono inadeguati rispetto ai canoni prevalenti, si risponde con uno spensierato menefreghismo.
La sottrazione completa dal modello economico prevalente è rara ma emergono dei tentativi che mirano a massimizzare la coerenza dell'evasione. Le forme più riuscite di autogestione della produzione e del consumo sono, in genere, imprese comunitarie, spesso frutto di occupazioni di immobili e terreni in luoghi abbandonati dal processo produttivo contemporaneo. Si consuma principalmente ciò che si produce dalla terra. La circolazione di soldi è ridotta. Il ciclo del lavoro è regolato dai bisogni. Ci si sottrae al mondo dominante non solo economicamente ma anche fisicamente, allontanandosi verso aree marginali. In pochi riescono ad avvicinarsi a forme di vita centrate sull'autosussistenza. La completa sottrazione dall'ingranaggio produttivista è però un valore condiviso: un vissuto per pochi, un progetto per alcuni, un sogno per molti.

Lo scontro: forme di resistenza istituzioni repressive

In contrasto con le rappresentazioni degli organi che controllano l'informazione, nella quotidianità non ci si scontra con le istituzioni ma si subisce quella che viene letta come una repressione. Si ritiene che la violenza, le provocazioni e l'invadenza degli apparati statali si dispiega con incessante regolarità: è legale, piuttosto che criminale; quotidiana, piuttosto che eccezionale; burocratica, piuttosto che coercitiva.
Durante cena, si parla della legislazione che stabilisce l'obbligo di far vaccinare i bambini. La discussione è breve ma si sofferma sugli interessi delle grandi aziende farmaceutiche e sull'assurdità di certi vaccini. C'è qui una critica diversa dall'astratta affermazione di un ideale libertario. C'è una sovversione degli organi istituzionali resi non più credibili non tanto da un generico ‘essere Stato' ma dalla concreta e sistematica imposizione di normative autoritarie, alcune con il chiaro interesse di favorire i grandi gruppi industriali e finanziari. Il quotidiano, ovvero la traduzione in prassi dell'ideale libertario, lo trascende, lo adatta al contesto, lo contamina.
La tenacia della repressione condotta contro i singoli e i gruppi è essenzialmente proporzionale alla percezione della loro pericolosità, intesa in senso non solo politico ma anche culturale e sociale. Viene colpito dal sistema giudiziario soprattutto chi mostra la capacità di generare attivismo, di porsi come punto di riferimento, di innalzare la conflittualità, di portare avanti pratiche di devianza generalizzata, di proporre convivialità e solidarietà.
La legge è infatti applicata in maniera selettiva: la macchina burocratica-repressiva va a cercare l'infrazione lì dove percepisce un fastidio. Le operazioni che portano alla scoperta della “prova” giudiziaria, che legittima la repressione, sono infatti decise dai dirigenti di polizia e carabinieri tenendo conto della collocazione politica dell'indagato.

La politica: quotidianità e rappresentazione

Caratterizzare l'attivismo politico del “noi” esclusivamente per le sue manifestazioni “politiche” istituzionali e più eclatanti è fuorviante e riduttivo. Fuorviante perché riduce l'ambito del politico a certe sue specifiche manifestazioni e tende così a ricondurlo a schemi partitici e associativi. Riduttivo perché le forme di agire politico di questo ambiente sono molteplici e non si esauriscono nelle modalità riconosciute come “politiche” dalla società e dai leader del movimento.
Il circuito che descrivo si mostra indisponibile a una adesione acritica a organismi spesso poco trasparenti, verticisti e dogmatici. Inoltre partiti, sindacati, associazioni e sigle movimentiste sono fortemente influenzate dalle logiche della rispettabilità dominante, dell'azione prevalentemente istituzionale, del legalismo a tutti i costi, del responso elettorale, dai benefici che derivano da posizioni ambigue. La prassi di vita ridefinisce, più o meno esplicitamente, cosa debba essere considerato “politico”. Politica è, innanzitutto, una presa di distanza dalla politica ufficiale.
Politiche sono anche tutte le espressioni, variegate e contestuali, che ripropongono i valori di uguaglianza e solidarietà combinati a una critica radicale dell'esistente: spettacoli teatrali, volantinaggi, assemblee, azioni dirette, iniziative di sensibilizzazione, danneggiamenti, cene di auto-finanziamento, poesie, forme di autosussistenza, disegni, scritte sui muri, attivazione di circuiti di mutuo soccorso.
Spesso lo stimolo a pensare il potere in modo critico nasce da un disagio esistenziale sulle direzioni che sta prendendo il mondo. È una frustrazione vissuta quotidianamente negli infiniti divieti, nella burocratizzazione dell'esistenza, nelle leggi repressive che limitano la comunicazione orizzontale, nel ricatto del lavoro salariato, negli affitti inaccessibili, nel dilagare della paura, nell'arroganza del datore di lavoro o del poliziotto, nell'indifferenza per la sofferenza altrui.
Questo disagio diventa una fonte di politicizzazione dell'esperienza. Da fenomeno individuale, attraverso un processo di confronto sui vissuti personali, il malessere viene socializzato, si fa collante. I singoli che s'incontrano, riconoscono un'empatia emotiva, una sintonia analitica, e una comunanza nelle risposte a queste frustrazioni. Il turbamento individuale condiviso genera pratiche distintive: si fa cultura. Una cultura che nasce dal disagio al conformismo è necessariamente sovversiva, anche se gli strumenti di opposizione si dimostrano deboli e sono dubbie le prospettive di un allargamento dell'ambiente in cui ci si riconosce.
L'ortodossia che prometteva un futuro prossimo rasserenato dal comunismo e indicava, con logica ineluttabile, i mezzi e le fasi della sua costruzione è semplicemente svanita, sepolta tra le atrocità dello comunismo reale e il corrotto riformismo, carico di autorità ma logoro di ideali, dei partiti italiani eredi del P.C.I. Liberata dai dogmi marxisti, la comunicazione si fa creativa, lontana dalle certezze, dagli slogan, dalle parole d'ordine e dalle facili formule propagandistiche.
Non c'è il tentativo di teorizzare una soluzione realistica finalizzata a una nuova umanità perché attualmente sono palesemente assenti le premesse di qualunque trasformazione radicale. Marino non ha certezze né sulle – tanto attese – albe rivoluzionarie, né sulle forme che prenderà la società futura: “Oggi quello che puoi fare è vivere. Indichi una strada, e un vago, ma vago, progetto per il futuro”. L'azione politica non è lotta per il potere, è lotta contro il potere. Il fare, il vissuto è importante non perché vada imposto ma perché rappresenta un concreto sovvertimento dell'esistente.
Molti non riconoscono una valenza politica a questo modo di impostare il proprio vissuto. Vivere secondo i criteri qui descritti sarebbe, in quest'ottica, una scelta soggettiva, che può essere più o meno condivisibile ma che non riguarda comunque “la politica”. In questo ambiente esiste invece una convinzione diffusa che il coinvolgimento nell'attuale sistema di democrazia rappresentativa non è il modo più adatto – o perlomeno non è l'unica opzione – per portare avanti una trasformazione nella gestione del potere. Oggi la politica istituzionale erige dei confini estremamente limitanti a ciò che è pensabile e possibile. Appare palese l'inefficacia delle manifestazioni di piazza (anche di quelle oceaniche), delle petizioni, degli appelli, dei tavoli di negoziazione, dei politici critici. Il sistema li accetta (e si mostra democratico), li ingloba (e ne svuota l'impeto rivoluzionario), cede le briciole (in cambio della neutralizzazione del conflitto), e continua a macinare, indisturbato, i suoi interessi. I militanti fanno il tifo per una sigla o per l'altra e si convincono che stanno cambiando il mondo. Chi non accetta di muoversi all'interno di steccati così rigidi, cerca, per forza, altre strade. Svolge un'azione “politica” chi accetta le regole di un gioco che si dichiara “politico” ma che è sempre più imposizione sulla cittadinanza degli interessi delle cordate aziendali-finanziarie-partitiche o chi cerca di sovvertire, nella propria vita, l'ordine esistente?
In questo ambiente, la politica non è più solo discorso. Si crede che un cambiamento reale e sostanziale passi necessariamente dalla diffusione di vissuti che sovvertono l'esistente e costruiscono – nella faticosa sperimentazione di prassi quotidiane – un'alternativa. Nel fare si interviene sulla società, generando così un cambiamento che non è frutto di previsioni o modelli: i vissuti lasciano tracce, queste proiettano nel futuro dei valori che prenderanno, con lo scorrere del tempo, forme imprevedibili.
È nei rapporti personali orizzontali che si intuisce la strada per il superamento del verticismo partitico. È nella solidarietà quotidiana che si trovano i germi di una modalità partecipativa per minare lo sterile dominio del mercato. È nella espressione, rivendicazione e diffusione di una diversità praticata che si crede di offrire un modello reale di alternativa. Nel momento in cui si delegano, i semi della trasformazione si seccano. La prospettiva di un allargamento in prassi diffusa di uno stile di vita per ora limitato a un circuito ristretto, è, allo stesso tempo, più accessibile e più impegnativa. Si tratta di esprimere, moltiplicare, diffondere un vissuto e di portare avanti quella che è stata chiamata “una rivoluzione per osmosi”.

Un circuito antagonista

Un singolo fattore non sarebbe sufficiente a caratterizzare questo ambiente: solo nella loro totalità i vari aspetti descritti sopra compongono, come frammenti di un mosaico, un'identità dotata di senso.
Esiste un circuito culturale anche se raramente è riconosciuto come tale da chi lo vive, anche se è privo di denominazioni. C'è la comune consapevolezza delle difficoltà a rapportarsi con i canoni normali ma mancano criteri di delimitazione, tratti essenziali, momenti d'identificazione cruciali e vincolanti. Si propone un'identità volutamente fluttuante e aperta, che cerca di esistere nella sua scarsa strutturazione identitaria.
Un'ottica critica rispetto alle invadenze del potere aiuta ma non sono richiesti credi assoluti; avere tempo da dedicare alla costruzione di rapporti è importante ma non sono necessari riti di passaggio; essere disposti a vivere ambienti al di fuori dei canoni dominanti di ordine e igiene è fondamentale ma non viene imposta l'ostentazione di simboli. Partecipa chi sceglie di condividere una prassi.
Non esiste una linea di separazione né estetica, né simbolica che possa stabilire chi appartiene a questo circuito. È un ambiente indefinibile a priori, che si costituisce attorno a delle caratteristiche comuni, di sentire, di agire, di credere: non è pensabile al di fuori della pratica. Per questo ambiente la sfida sembra essere quella di non limitarsi a essere un'identità tra le altre.
Il circuito mantiene una sua dimensione politica quando non si riduce a moda o a simbolo ma quando rafforza e moltiplica vissuti eversivi, quando il quotidiano dispiegarsi delle vite riesce a uscire – anche parzialmente – dall'egemonia della normalità produttivista e riesce a generare momenti in cui sperimentare l'orizzontalità e l'autogestione, non come teoria ma come prassi sovversiva.

Stefano Boni

  Elèuthera Editrice (collana Caienna)

Stefano Boni

Vivere senza padroni
Antropologia della sovversione quotidiana

144 pagine - 12,00 euro

Stefano Boni, nato nel 1970, laureato a Siena e dottorato a Oxford, ha svolto ricerche sul campo per due anni in Ghana. Insegna Antropologia politica e Antropologia sociale nell'Università di Modena, dove è attualmente ricercatore. Ha pubblicato saggi in antologie e riviste specialistiche ed è autore di Le strutture della disuguaglianza (Franco Angeli, 2003).

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