Rivista Anarchica Online


anarchismo/2

Il non-governo anarchico
di Andrea Papi

 

Passata la sarabanda elettorale, qualche riflessione sull'alternativa libertaria.

 

I riti e i rituali con cui vengono appioppati gli incarichi e le cariche per definire l'assetto istituzionale dell'intero parlamento, al di là della forma, che si propone come mera applicazione di procedure rigide e regole consolidate, non sono altro che il metodo ritualizzato per l'assestamento del potere nella collocazione dei rapporti di forza tra le parti (gerarchiche/dirigenziali) che si assumono il compito di governarci. I cittadini elettori ne sono completamente esclusi, accuratamente messi da parte, ridotti a meri spettatori dello spettacolo, oggi mediatico, del palcoscenico istituzionale, cui invece hanno contribuito con l'espletamento del rito elettorale. Nella sostanza il tutto si risolve nell'insediamento di un potere separato. Loro dicono “voluto” dall'insieme del popolo votante. Noi diciamo accettato e più o meno consapevolmente subito.
Ne abbiamo avuto un eloquente saggio e una chiara dimostrazione con l'installazione nelle cariche istituzionali e governative da parte dei rappresentanti del centrosinistra, maggioranza uscente dall'ultima tornata elettorale, teatralmente contestati dagli sconfitti del centrodestra quali legittimi vincitori. Nel loro modo d'insediarsi, fra polemiche e lotte intestine più o meno alla luce del sole e aggressioni verbali dell'opposizione, per quanti sforzi si faccia è difficile individuare delle differenze rispetto a come lo facevano gli antenati democristiani e socialisti e a come l'ha fatto il berlusconismo quando era maggioranza nella scorsa legislatura. La reiterata applicazione, quasi canonica, del a parole vituperato “manuale Cencelli” sembra essere la regola irrinunciabile nel soppesare e distribuire i poteri di lor signori. A sottolineare che in questo sistema di potere i modi di occuparne le poltrone non possono che avere quella qualità, indipendentemente da chi opera e contrastando le illusioni, dure a morire, dei fan di turno.
Le domande immediate che sorgono spontanee sono: «Dov'è la tanto decantata partecipazione? In quale luogo recondito si trova la continuamente evocata “volontà popolare”, unica ufficialmente titolata all'esercizio della sovranità?». La risposta non è poi così misteriosa: «Si è volatilizzata nella rappresentazione, senza poter intervenire, senza poter essere protagonista, perché accuratamente è stata esclusa». In fondo il popolo, anche se ufficialmente è il vero titolare del potere, non lo può e non lo deve esercitare. Si deve limitare ad accondiscendere a subirlo, accontentandosi di vivere nella propria intimità l'emozione che prova, condividendo o meno, e ad assistere a ciò che lor signori fanno in nome suo, senza di lui, sopra di lui, frequentemente contro di lui. Questa e non altra è la vera sostanza della democrazia rappresentativa.
In fin dei conti è tutta roba ormai trita e ritrita da decenni, che si ripropone con sistematica e squallida scadenza. Per chi ci legge e ascolta, si presume interessato, diventa invece importante mettersi a nudo e rispondere fuori dai denti a una domanda che potrebbe aleggiare, proprio spinta dalla curiosità, e che sarebbe sbagliato eludere: «Ma voi anarchici, cosa fareste se foste al loro posto? È facile stare sempre al sicuro dalla parte in cui si può solo criticare!».

Salto di qualità

La domanda aleggiante è oltremodo sensata, dal momento che in fondo le società si sono costruite e consolidate nel tempo storico vissuto avendo continuamente sulla testa la tutela di forme di dominio potenti, le quali si sono sempre imposte in svariate maniere. Hanno regolato, e persistono a farlo in modo pesante, le relazioni, il lavoro, le scelte collettive, l'esistenza di ognuno insomma, accuratamente propense a far sì che psicologicamente, culturalmente ed esistenzialmente non si potesse fare a meno di loro. In altre parole hanno creato l'abitudine e ci hanno portato ad interiorizzarla come necessità, pur se indotta, di cui difficilmente si riesce a fare a meno, immagino soprattutto per problemi di sicurezza, sia psicologica sia di controllo gerarchico. Se siamo permanentemente abituati ad avere qualcuno, l'eteronomia del potere vigente, che pensa per noi e ci imposta la vita, difficilmente accetteremo da un giorno all'altro di vivere e trovarci nelle condizioni di farne a meno, proprio perché ci siamo costruiti e impostati con questa tutela (potere/tutore).
Per riuscire a liberarcene, nei momenti in cui ci piacerebbe perché reattivamente ne siamo soffocati, dovremmo riuscire a fare il salto di qualità di cambiare radicalmente l'immaginario di riferimento, perché se non riusciremo ad immaginare, quindi a desiderare, una situazione realmente e concretamente diversa, difficilissimamente entreremo nell'ordine d'idee di farne a meno. Anche quando c'è un rifiuto psicologico il potere ci serve. Simbolicamente e concretamente rappresenta la stampella di sostegno che ci permette di sostentarci senza piombare nel buio dell'incertezza. Al massimo in genere si arriva a contrastare il presente, o trasgredendo alle sue leggi (micro e macro criminalità), o chiedendo che sia gestito da persone diverse (cambio di coalizione al governo), ma si continua comunque ad essere spinti da uno spirito di conservazione del senso di ciò che c'è. Dal momento che pensiamo di averne bisogno, non ci poniamo nella condizione di eliminarlo o di sostituirlo, perché non riusciamo ad identificare null'altro che sia in grado di essere al suo posto.
Per portare alla trasformazione radicale del sistema vigente diventa così importante stimolare la costruzione di un nuovo immaginario, che, nei suoi presupposti e nella progettualità di sostanza, sia in grado di prefigurare il nuovo che dovrebbe soppiantare il presente, affinché questo divenga vecchio e quello si attualizzi effettivamente come nuovo che prende forma. Ma affinché prenda piede, con la gradualità necessaria, un nuovo immaginario capace di portare a desiderare il cambiamento, bisogna proporne il senso e i progetti che lo rendano immaginabile e auspicabile.
Per rispondere alla domanda che cosa farebbero gli anarchici, supercriticoni, al posto dei politici di professione eletti, rispondo con certezza che non potrebbero fare nulla di ciò che questi fanno per il semplice motivo che si rifiutano di trovarsi in quelle condizioni. Siccome se si trovassero là, paradossalmente, non potrebbero fare che come più o meno fanno tutti, evitano di andarci, non presentandosi per essere eletti e non eleggendo nessuno perché non vogliono che nessuno sia eletto. Essi sanno che quella situazione istituzionale porta di per sé a comportarsi come effettivamente avviene, dal momento che è composta da una serie di posti di prestigio per la gestione del potere.
Al posto del governo, com'è adesso, gli anarchici propongono la non esistenza di qualsiasi forma di potere centralizzato e gerarchico, perché pensano che la società non debba essere governata dall'alto, né da nessun re o dittatore, ma neppure da nessuna oligarchia. Semplicemente la società non dev'essere governata, mentre dovrebbe organizzarsi autonomamente per governarsi da sé stessa, senza delegare a nessuno nessuna forma di potere dall'alto. Gli anarchici sono convinti e irriducibili antiautoritari: non riconoscono obbedienza e sottomissione a nessuna autorità costituita. Pensano invece che la giustizia, l'equità e la pace, come il rispetto e la valorizzazione delle diversità, si possano realizzare soltanto accordandosi tutti insieme su un piano di parità e permettendo a tutti di usufruire della ricchezza comune.
«Ma – sento già porre un'altra domanda aleggiante – se non c'è un governo centrale che abbia l'autorità di disciplinare il corso delle cose, come possono pensare di governare col concorso di tutti senza incorrere in un caos ingestibile?» Rispondo con fermezza che la paura del caos, non il caos, è la giustificazione fondamentale che ogni potere impositivo e coattivo dà per giustificare la propria supremazia sul resto della società. È infatti la paura della perdita di sicurezza che fa affermare all'assolutismo contrattualista (Leviatano di Hobbes) la necessità di un comando centralizzato che abbia il massimo potere d'imposizione e d'interdizione sui sudditi, oggi divenuti cittadini.

Thomas Hobbes

Invertire il paradigma

Poi soprattutto ribadisco che è indispensabile superare la logica del governare, che fa si che un singolo o una minoranza oligarchica assumano nelle proprie esclusive mani il potere di decidere per tutti gli altri, com'è nella concezione degli stati in auge, siano essi monarchici o dittatoriali o ancora democratico-rappresentativi. “Governo” deriva dal latino gubernum, che è il timone della nave. È evidente che chi manipola il timone decide la direzione della nave, quindi la dirige, come pure è intuitivo che ogni nave dev'essere fornita di timone, quindi diretta, perché sennò si troverebbe in balia dei flutti ed affonderebbe. È una metafora efficace e mostra con chiarezza che il problema risiede nel prendere in mano il timone. Non sta scritto da nessuna parte però che debba essere per forza una concentrazione in poche mani. La nave metaforica, in questo caso l'insieme della società, può accettare di continuare a subire un unico timoniere o un manipolo, ma al contrario potrebbe anche benissimo scegliere di trasferire questa guida da chi la comanda a se stessa, cioè all'insieme di tutti i cittadini, che smetterebbero così di essere sudditi per diventare protagonisti del proprio destino concordemente e paritariamente.
Perché ciò possa realizzarsi bisogna invertire il paradigma di riferimento. Il centro di potere che decide e impone le sue decisioni a tutti e a tutto ciò che è sottoposto alla sua giurisdizione è oggi l'elemento paradigmatico imperante. Nell'immaginario alternativo il centro decisore non esiste, mentre la considerazione principale si concentra sulle singole componenti, tutte in relazione tra loro come in una rete, nella valorizzazione delle differenti autonomie. La struttura reticolare, con le sue caratteristiche di fluidità e non rigidità, rappresenta senza dubbio l'architettura più confacente e coerente per rendere possibile una metodologia decisionale non verticale e non gerarchica.
Comitati, collettivi, consigli, organismi di base e qualsiasi altro momento spontaneo e autonomo di confronto sono gli strumenti che le comunità dovrebbero scegliersi per dibattere e decidere, per mantenere viva e presente la comunità nel suo insieme. La ricerca di metodo per eliminare ruoli gerarchici e conduzione autoritaria dall'alto non può che fondarsi su situazioni in cui è possibile la relazione diretta e lo scambio reciproco. Invece di un'unità verticale e piramidale con un centro direttivo, com'è adesso, avremmo un'unità olistica di parti federate tra loro. Unità nella diversità, senza centri unidirezionali e policentrica, dove però ogni centro di riferimento non ha funzione dirigente ma di coordinamento. Sarebbe così annullato il principio della concentrazione di un potere separato imposto al resto della società, mentre lo stesso potere, ridotto a semplice possibilità del fare, si troverebbe equamente distribuito fino ad annullare ogni comando gerarchico.
Nell'immaginario imperante una simile complessa architettura reticolare non è ipotizzabile e neppure immaginabile, perché a priori è considerata un'utopia utopistica, non realizzabile. Indotta da poteri culturali forti e potenti legati agli interessi dominanti, domina una spinta ad ipotizzare e immaginare soltanto cose che in qualsiasi modo ripropongano e comunque conservino l'impronta e il senso soltanto di ciò che c'è. Il nuovo, continuamente sbandierato e, dal momento che le cose funzionano male e non soddisfano, all'apparenza richiesto, appositamente non è mai veramente innovativo, mentre è sempre all'insegna del supposto miglioramento e dell'aumento di efficienza del presente stato di cose, che si vuole mantenere ad ogni costo, costi quel che costi.
Ciò che viene continuamente addotto è che c'è necessità di efficienza, di riuscire a stare al passo coi tempi, di velocizzare le pratiche e le procedure, di riuscire ad essere competitivi e bla!bla!bla!... Queste presunte necessità giustificano l'aumento (“efficientistico” però!) della gerarchizzazione dei ruoli operativi, la velocità delle decisioni, che, dicono, non possono che essere affidate ai pochi specialisti educati ad hoc, come pure considerazione e valorizzazione sempre più spiccate di elite intellettuali e professionali, alle quali, dicono “per il bene comune”, va demandato e delegato l'insieme degli incarichi, mentre a tutti gli altri, normali e non elite e non specialisti, è commissionato d'obbligo il compito/dovere di eseguire e rendere efficiente questa macchina elitaria e di comando, che secondo loro agirebbe per tutti noi e che, se si vuole funzionante, non può essere né sabotata né rallentata. In tutto questo non si sottolinea mai che chi viene rivestito di responsabilità e autorità è gratificato con succulente remunerazioni e privilegiato senza risparmio nei suoi movimenti, mentre la maggioranza dei “normali”, che deve eseguire e non sabotare, è tenuta in condizioni di pura sopravvivenza.
A ben riflettere tali giustificazioni trovano senso soltanto come supporto della permanenza dei privilegi imperanti. Ma chi lo dice che il sistema ha bisogno di diventare più efficiente? Non altri che chi ne ricava proficui guadagni, prestigio e potere, cioè la classe dirigente in economia e in politica, che, guarda caso, è l'unica che ha spazio di esprimersi pienamente attraverso i media. Perché ci sarebbe bisogno di correre sempre di più ed essere sempre più competitivi? Per aumentare le speculazioni finanziarie e lo sfruttamento delle risorse, che, guarda caso, sono controllate da una ristrettissima minoranza, unica a beneficiarne. Tutti gli altri, i tantissimi altri noi esclusi dalla corsa e dai suoi risultati, si troverebbero semplicemente con qualche soldo in più, quindi con un po' più di disponibilità a spendere e a consumare, di fatto utili (idioti!) a rimpinguare i pescecani che ne traggono il massimo di benefici. È questo il reale concreto benessere diffuso che ci promettono. Cosa serve continuare a produrre e investire e costruire e conquistare mercati se non a perpetuare il consolidarsi di un sistema votato allo sfruttamento, alle disuguaglianze, al condizionamento delle libertà e alla concentrazione dei poteri militari e di comando?

Benessere vero e diffuso

Noi pensiamo che sarebbe ora di invertire il senso e di desiderare ben altro. Troviamo molto più allettante immaginare una società che si preoccupi più della condizione e del benessere di tutti i propri cittadini che dell'accaparramento delle finanze e delle risorse disponibili e molto più sensato agire per edificarla. Una società che quando è il momento di decidere faccia realmente partecipi tutti gli interessati, ponderando bene che cosa scegliere e perché, rendendo consapevole e informando adeguatamente ogni suo componente, senza aver la preoccupazione nevrotica di dover inseguire mete faraoniche per dimostrare la propria potenza. Una società che sappia scegliere la qualità di un benessere vero, diffuso ed esteso a tutti. Una società che per raggiungere le mete che si propone scelga di non farlo sfruttando, opprimendo, controllando i sottoposti attraverso gerarchie di ruoli, reprimendo per mezzo di apparati militari che, con la scusa di mantenere l'ordine pubblico, in realtà garantiscono il comando di capi che non sopportano il dissenso.
Poi perché non dovrebbe essere possibile istituire forme funzionanti di democrazia diretta, escludenti prevalenze di capi ed interessi privatistici? Certo non è possibile di punto in bianco, da un giorno all'altro. Ogni trasformazione ed ogni passaggio radicale richiedono il tempo necessario a prendere piede. Ma per renderlo possibile bisogna cominciare a convincersi di agire in tal senso, assumendo la prospettiva della costruzione del nuovo, che non potrà che essere rivoluzionario perché mira a soppiantare e sostituire il vecchio ora vigente. Per farlo occorre stimolare e ipotizzare il nuovo immaginario che lo renda credibile e appetibile e contemporaneamente sperimentare fin da ora il come, attraverso la molteplicità di tutte le forme coerenti e congruenti che si è in grado di mettere in campo, sorretti dalla capacità critica della riflessione e dell'autocorrezione.

Andrea Papi