Rivista Anarchica Online


(in)giustizia

Se voi foste...
di Carlo Oliva

 

Dietro la vicenda di quel cittadino condannato innocente a quindici anni di galera per un omicidio mai commesso. Appunto, se voi foste il giudice…

 

“Se voi foste il giudice” era, anni fa, il titolo di una popolare rubrica della “Settimana enigmistica”. Vi si esponevano in forma di breve racconto certi bizzarri problemi di convivenze difficili, rivalità pregresse, supposte soperchierie e incidenti controversi e si invitava il lettore a pronunciarsi in merito, calandosi, per una volta, nei panni del magistrato. Nulla che richiedesse una preparazione giuridica formale, beninteso, perché erano tutte questioni che si poteva cercare di dirimere applicando solo con un po' di buon senso, ma qui stava il bello, perché sappiamo tutti che il buon senso, nei tribunali, non è merce che più di ogni altra alligni.
Così, se voi foste il giudice (o, più precisamente, il PM) che ha fatto condannare per omicidio un cittadino incensurato, risultato poi innocente dopo quindici anni quindici di galera, non dovreste avere difficoltà a dare delle risposte sensate a eventuali intervistatori desiderosi di un vostro commento in merito. Direste, probabilmente, che vi dispiace moltissimo, ma tutti possono sbagliare, che avete agito in buonafede perché le cose, quella volta, si erano proprio messe in modo di trarvi in inganno e che quello che conta, dopo tutto, è che l'ingiustizia sia stata sia pur tardivamente corretta. Auspichereste che il disgraziato ottenga, se non altro, l'adeguato risarcimento che ha chiesto e (forse) fareste notare come questi episodi, pur deplorevoli che siano, hanno se non altro la funzione di richiamarci tutti al dovere di anteporre a ogni altra istanza giuridica il rispetto assoluto delle garanzie che la legge e la costituzione stabiliscono a difesa del cittadino imputato. È la sua figura, e non altre, che in qualsiasi grado di giudizio deve essere tutelata ed è sempre meglio avere un plotone di colpevoli in libertà che un solo innocente in galera.

Per non aver commesso il fatto

Ho detto “voi”. Perché voi, senza dubbio, direste così, ma nel concreto può capitare di imbattersi in punti di vista affatto diversi. Per esempio, si può leggere (sul “Corriere della Sera” dello scorso 25 aprile) l'intervista a un pubblico ministero che è stato coinvolto in un episodio del genere, nel senso che l'imputato che in primo grado aveva fatto condannare a ventun anni è stato riconosciuto innocente dopo averne scontato appunto quindici: una storia, va detto, assai complicata perché la condanna, ribadita per ben due volte dai giudici di merito dei diversi gradi, era stata era stata annullata due volte in cassazione, ma confermata, in seguito, da una terza delibera della suprema corte, che tuttavia, anni dopo, aveva accolto una istanza di revisione, dopo la quale la corte d'appello competente ha pronunciato l'assoluzione per non aver commesso il fatto. Bene, i commenti espressi in quella sede sono piuttosto diversi. L'imputato – leggiamo – si era sempre dichiarato innocente, ma “lo fanno tutti” e come tutti è stato trattato. Si capisce che adesso un po' si lamenti, ma “deve stare attento a ciò che dice”, perché “per questa storia che magistrati e poliziotti abbiano ordito un complotto contro di lui è stato già condannato per calunnie”. È vero che i testimoni a carico hanno ritrattato (anzi, li hanno condannati per falsa testimonianza), ma questo “riguarda le fasi successive, non il primo grado”, quando “a sostegno di quella imputazione non mancava nulla” ed “è stato fatto un processo come si deve”. La prima prova del guanto di paraffina – quella che credo serva a capire se uno abbia sparato o meno – era risultata incerta, ma “la seconda, una decina di mesi dopo, risultò positiva” e l'esame è stato condotto da persona assai competente. I difensori sostengono che il processo, quanto a prove, faceva acqua da tutte le parti, ma “gli avvocati prendono i loro bravi compensi, mentre il pm non va a caccia di taglie” e “il suo interesse a portare a giudizio un innocente è zero.” Ci furono, è vero, due pentiti che scagionarono l'imputato e il magistrato, in effetti, li sentì, ma non toccava a lui riaprire le indagini, per cui fece il suo dovere trasmettendo “gli atti ai giudici competenti”. E quando il giornalista, per concludere, gli chiede se non è contento, dopotutto, che quel poveraccio se la sia cavata, l'intervistato non se la sente ancora di dire di sì. L'assoluzione non è definitiva, il Procuratore Generale della Corte d'Appello potrebbe ancora impugnare la sentenza ed è meglio aspettare che il processo si chiuda del tutto.
Niente di scandaloso o di deplorevole, naturalmente. Chiunque è libero di difendere il proprio agire professionale e di chiamare chi crede a condividere (o assumersi) le responsabilità del caso. Lo avreste fatto, probabilmente, anche voi. Ma non vi sembra, per dirla così, alla buona, che quell'intervista – al di là, naturalmente, delle intenzioni – sarebbe un ottimo argomento a convalida delle note tesi berlusconiane sulle peculiarità della magistratura? Che vi si respiri un'aria, come dire, di astrattezza giuridica, per cui tutte le cautele sono da una parte sola e, mentre sull'innocenza di un cittadino ormai assolto è meglio non pronunciarsi, sulla ineccepibilità del processo che l'ha condannato non si nutre il minimo dubbio?

Condanne esemplari

I PM, si sa, fanno il loro mestiere e non è loro compito difendere in primis il presupposto della innocenza presunta fino alla condanna definitiva, ma il problema, in fondo, sta tutto qui. Lasciamo pure perdere il caso specifico, su cui, a parte l'articolo che vi ho citato, non ho informazioni particolari, ma è difficile sfuggire all'impressione che, su un piano più generale, quel principio non sia esattamente la norma più popolare della Costituzione italiana. Lo si è invocato, negli anni scorsi, quasi solo a livello politico e quasi solo quando lo si poteva (o doveva) applicare a questo o quel pezzo grosso nei guai, agli uomini del regime, ai sodali del capo e affini, e le reazioni, di solito, sono state più di fastidio che no. L'opinione pubblica – ahimè – vuole condanne esemplari e non sono certo mancate le voci che, dall'interno della magistratura, chiedevano norme che facilitassero l'opera. Di un autorevole candidato al Ministero di Grazia e Giustizia si è detto, in questi giorni, che ne sconsigliava la nomina il fatto che fosse troppo garantista. E cosa altro dovrebbe essere, santiddio, un avvocato, un giudice o un ministro in un paese moderno? Sempre che si possa considerare tale, naturalmente, il paese in cui la difesa delle garanzie del singolo imputato è lasciata, colpevolmente, nelle mani di una destra che se ne serve solo quando le fa comodo e in cui l'ipotesi che un poveraccio si sia fatto quindici anni di galera a gratis è vista con tanta giuridica imperturbabilità.

Carlo Oliva