Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Il cavaliere, l'arte e l'amore
Intervista a Fausto Amodei. Seconda parte

Ecco la seconda parte della lunga intervista a Fausto Amodei, realizzata a casa sua a Torino, nel febbraio del 2006. Era giusto il giorno dell'inaugurazione delle olimpiadi invernali, nemmeno tre mesi dopo i disordini anti-tav. Questo per inquadrare alcuni dei riferimenti ricorrenti qua e là, mentre io e il maestro percorrevamo, girando attorno al disco “Per fortuna c'è il cavaliere”, la sua lunga carriera e poi le idee, le speranze, le delusioni dei nostri anni.
La prima parte dell'intervista verteva soprattutto sul passato, sugli esordi di quella breve e straordinaria esperienza che prese il nome di Cantacronache: un gruppo di intellettuali (Amodei, Liberovici, Straniero, Calvino, Fortini, Jona, Margot, Pogliotti, Del Prete, ecc…) coalizzati alla costruzione di una canzone “altra”. Poi ancora del rapporto con la nascita e lo sviluppo della ricerca etnomusicologica e della riproposizione del canto popolare e di protesta.
Questa seconda parte si centra sulla scrittura stessa di Fausto, una scrittura unica dallo stile preciso e impietoso, caratterizzata da un uso di cristalline forme chiuse di versificazione, e di un contemporaneo spalancarsi alle distorsioni del linguaggio, al non detto, all'ironia e al sarcasmo più impietoso, il tutto in una rincorsa vertiginosa con un linguaggio armonico fra i più strutturati e caratteristici nella storia della canzone italiana. Di questo stile, sia al livello del testo che a livello musicale, “Per fortuna c'è il cavaliere” è una summa.
Ma con una persona (e non mai un personaggio) come Amodei non si può parlare solo del “prodotto”… il discorso scivola inevitabilmente sul politico.
Ora se è chiaro che io, come molti lettori di A, condivido i contro di Fausto, non altrettanto mi sento di dire dei pro, ma confrontarsi con un maestro e un artista di questa levatura, anche nelle differenze, è un'occasione da non lasciarsi sfuggire.

Alessio – Tu intanto attraversavi, non certo indenne, tutta la storia, prima di Cantacronache, poi del Nuovo canzoniere, nei suoi fasti e nella sua dispersione, conservando la tua specificità… poi trent'anni nel silenzio (discografico), fino a questa recentissima opera. Questa specificità è innanzi tutto la cifra di uno stile estremamente citazionistico, e intendo proprio al livello musicale, c'è una continua rielaborazione dei modi più polverosi della canzonetta, che diventano, già per il loro uso, una critica direi linguistica alla cultura borghese, o comunque a una cultura musicale deteriore.

Amodei – È un po' il mio pallino quello di fare una musica fra le virgolette, una musica sempre un po' citata, e non certo perché componga ad orecchio – anzi penso di costruire abbastanza la musica –; però nella stessa misura in cui faccio dei giochi di parole mi piace fare dei giochi musicali, dei giochi di note. In alcuni casi in modo proprio esplicito e sfacciato, pensa in quest'ultimo disco al tema dei tre porcellini, sviluppato in modo simile alla parodia.

Berlusconi con Bossi e con Fini
Fan la banda dei tre porcellini
Alle prese col lupo cattivo
Che fa agguati da dietro l'ulivo (...)
Evitati con abili mosse
Gli attentati delle toghe rosse,
Si allontanano i tre a poco a poco
Stagliandosi su un orizzonte di fuoco.

Ma attenzione benché s'incornicino
In un quadro di eroi disneyani
Hanno un puzzo di olio di ricino
Da far schifo o, a dir meglio, Schifani.


In certi casi parte stessa del linguaggio è una critica per rovesciamento. In uno dei Dischi del sole, dedicato al Vietnam, avevo fatto una canzone Certo che se non fosse, in cui adoperavo l'inno dei marines, parodiato da marcia in valzer. È una tecnica quasi cabarettistica… giochetti!

Beh nemmen tanto perché questo sistema, quando acquista la complessità di un linguaggio – Guy Debord ce l'ha insegnato col detournement, e Blob di Rai 3 lo applica regolarmente – è un mezzo di critica fenomenale.

Si parva licet componere magnis, era un po' quello che faceva Kurt Weill che adoperava i modi della musica borghese, deformandoli, per veicolare dei contenuti…anzi non solo per veicolare dei contenuti di testo antiborghese, ma proprio per comporre una musica antiborghese, una musica che si autodenunciava, come dire, che si autoinvalidava, con quelle straordinarie distorsioni armoniche.

E poi io ho ancora l'impressione, rafforzata vieppiù dal tuo ultimo disco, che ci sia questo tema, esplicito sin dal titolo: da una parte di partecipazione a un movimento forte, con una causa espressa chiaramente e per cui ci si impegna a fondo, fino al rischio personale di querela, mettendo in risalto nomi e cognomi…

Mancano giusto i codici fiscali!

Ma poi in realtà ci sia anche un tema sotteso continuamente che è il tema della scrittura stessa, di cui tutta la tua opera porta le tracce quasi fosse un diario letterario. Proprio la canzone Per fortuna c'è il cavaliere è giocata tutta su due fronti: uno è quello evidente, ma l'altro è il perché e il percome un artista abbia smesso di scrivere per tanti anni e poi sia tornato sulla breccia.

Io divento vecchio come penso accada a parecchi miei coetanei
E mi accorgo ormai di perdere per strada certi impulsi più spontanei (…)
Con una certa preoccupazione mi chiedo, non da adesso
Per quale causa, per che ragione ciò possa esser successo (…)
O è la vecchiaia che mi ha portato una saggezza anemica
Che ad un giudizio vieppiù pacato toglie ogni vis polemica (...)
Diventando vecchi come chiunque abbia gli anni miei sopra le spalle
Mi dan solo più fastidio anziché rabbia mascalzoni e rompipalle (…)
E non oso, a volte, dire pane al pane e neppure vino al vino
Ne chiamar bastardi, figli di puttane, né fascista un ex-missino (…)
Le incazzature nei tempi andate venivan naturali
Sopra argomenti con connotati politici e sociali (…)


E poi a ognuna di queste ragioni si controbatte nel refrain: per fortuna c'è il cavaliere che fa risorgere le antiche passioni anticapitaliste, antifasciste e, in generale, il gusto dell'improperio…
Oppure, per prendere un brano non politico, Mia bella signora, a un certo punto fai una scherzosa Ars poetica in due versi:


Sudai le fatidiche sette camicie cercando la rima inconsueta
Usar le assonanze per me non si addice a chi vuol fare il poeta


Oppure, per scavare dal tuo repertorio più antico, c'è quello che forse si può considerare il tuo pezzo più esplicitamente violento – Ballata autocritica, inserita in un disco del '73 – e anche in quella canzone, con una prodigiosa serie di funambolismi armonico-lessicali, strutturi tutta la prima strofa come un elenco dei ritmi musicali e metrici possibili.

Sono dieci anni suonati che suono
Questa chitarra e che canto di cuore
Canti di vario modello;
Già mille volte ho cambiato di tono
Dal do maggiore al do diesis minore
Dal valzer allo stornello;
Colla ciaccona, colla marcia turca
Col madrigale, la giga, il flamenco
La ciarda, la controdanza
Col tango, col samba e con la mazurka
Dei vari ritmi ho esaurito l'elenco
Ma ho mai cambiato sostanza.(…)
Un ritornello non serve per niente
Non c'è ballata che serva a qualcosa
Né un ritmo di monferrina
Per render soffice uno sfollagente
Per affrettare la morte gloriosa
Di un yankee nell'Indocina.

Forse occorre che questa chitarra a ciondoloni
Si trasformi in mitra e possa emettere altri suoni;
E che le sei corde per produrre altri rumori
Si trasformino di colpo in sei caricatori;
E che queste dita per produrre qualche effetto
Anziché grattare arpeggi premano un grilletto;
Forse può servire solo più la passacaglia
Che con la sua voce sa intonare la mitraglia.


Alla fine usi la parola da vero cesellatore, ma per arrivare a una conclusione in cui sostieni che è inutile la parola… è una conclusione terribile!

Ma per la verità non vedo in quel pezzo questa carica così violenta. In fondo proprio quel lavoro sul linguaggio che citi tu, sta lì a sdrammatizzare parecchio. Insomma non credo che l'assunto di quella canzone sia “Non cantare. Spara!”, anzi io ci vedo una specie di discorso disarmante: io canto, canto, ma non serve a un cazzo di niente. Quasi un discorso rinunciatario, o quanto meno ambiguo, ecco, direi che avevo accettato un'ambiguità di fondo, perché la situazione stessa era ambigua e non vi ci si poteva accostare che così.

In ogni caso, anche laddove fai riferimento a mitragliatrici e caricatori, non rinunci a portare avanti questo parallelo discorso sul linguaggio. Ecco io vedo come una delle più interessanti caratteristiche del tuo lavoro proprio quest'ambivalenza: da una parte la tematica politica, assunta con fervore ottocentesco, se non proprio illuminista…

Qualcuno dice che è il mio tratto savoiardo!

…e dall'altra parte una corrente sotterranea, molto novecentesca, che è appunto questa riflessione sul linguaggio stesso e sulle sue possibilità. Tu usi, quasi a schernirti, la parola ironia, ma l'ironia è un cardine della cultura mitteleuropea, e alla fine borghese.

Certo da Musil, Roth,… Ma, in verità, nelle mie canzoni non ho mai supposto di fare della cultura proletaria. O forse in un caso o due, come metodologia ho tentato di applicare una metodologia che derivava dalla canzone propriamente popolare. Erano appunto dei casi in cui mi erano state commissionate delle canzoni dai delegati FIAT che facevano capo alla federazione del PSIUP, delegati di reparto molto attivi, molto incazzati e molto bravi. M'hanno dato loro tutti gli argomenti da trattare e io li ho messi in rima, in ritmo e ho costruito una musica molto cantabile, anche in coro senza accompagnamento; poi in un altro caso simile, c'erano stati degli scioperi di tessili, che come categoria era già allora sfigata non avendo la forza dei metalmeccanici, poi molte erano donne qui nel chierese, quasi senza copertura sindacale…e allora anche lì i compagni del sindacato mi avevano spinto e io, sulla medesima aria, avevo composto una canzone riferita ai tessili di Alba, un'altra ai tessili di Chieri… ma insomma sono stati gli unici tentativi di quel genere.

A tal proposito si può citare la tua Per i morti di Reggio Emilia, uno di quei rari casi in cui la canzone ha una diffusione tale che se ne dimentica il nome dell'autore, quasi fosse un canto anonimo della folla…

Ed è una bella soddisfazione!
Ecco nei casi delle canzoni sindacali il tentativo era un po' quello, anche se non in chiave drammatica perché la situazione non era drammatica ma di rivendicazione. Però il mio filone principale è sempre stato quello di scrivere canzoni più letterarie… diciamo brassensiane.

Ti faccio una domanda, che è anche una delle cose a cui penso più spesso come autore, io stesso, di canti che ambiscono a essere di protesta. Il timore è sempre quello di fare alla fine, magari cantando di un fatto grave di repressione, opera di catarsi piuttosto che di riflessione e di rilancio della lotta.
Non sarà che proprio con questo lavoro sul linguaggio stratificato si immette un germe, un pungolo che spinga appunto a pensare e a non appagarsi del lato consolatorio che l'arte ha?

Sì, sì, sì…
L'altro giorno recensivo il disco che ha curato Leoncarlo Settimelli sui canti del lager, e proprio Settimelli poi m'ha scritto dicendo che, mentre io facevo delle canzoni più rivolte al cervello, lui faceva canzoni più de core, basandosi più sull'emotività che sulla riflessione. E infatti io questo pallino l'ho sempre avuto, tanto che sono arrivato a intitolare un mio disco Canzoni didascaliche, fors'anche per un travisamento del concetto di straniamento brechtiano. Il fatto di non buttarmi digrignando i denti, mi ha sempre consentito di non perdere il filo stilistico, pur parlando dell'attualità. Raccontiamo pure tutte le rabbie che ci agitano, ma attraverso un filo organizzativo ben messo, altrimenti vien fuori un pasticcio!

In realtà io credo che vi siano vocazioni stilistiche adatte all'emotività e altre adatte alla riflessione…pensa solo alla violenza interpretativa di Brel a confronto con l'imperturbabilità di Brassens.

No, no, no… Ho appena detto questo che mi viene in mente più d'una canzone di Bandelli, assolutamente de core, ma commovente nella sua semplicità essenziale. Non è che una cosa mi dispiaccia solo perché mi commuove!
Però un assioma che spesso mi ritorna, tanto da sentirlo come mio, e che non so se sia di Flaubert o di Stendhal dice “Io ho pianto di fronte a delle opere da quattro soldi, e invece, di fronte ai capolavori, ho pianto solo d'ammirazione!”.
Ora, ridimensioniamo…ma che io come architetto senta il gusto dell'opera ben fatta è fuor di questione. Un buon architetto non deve fare delle architetture che commuovano, ma delle architetture che funzionino bene, che si leghino col paesaggio, che assolvano i compiti che gli sono stati assegnati: che siano calde quando fa freddo, che siano fresche quando fa caldo, silenziose quando c'è rumore… quindi può darsi che io mi porti dietro questa forma mentis legata ai miei trentasei anni di militanza nell'architettura. Ho fatto l'architetto educato da una scuola che non ha niente a che vedere con l'architettura attuale, in cui invece l'apparenza…
La mia era tutta una scuola formata sugli assiomi del funzionalismo o dell'organicismo: Le Corbusier o Mies Van der Rohe o Frank Lloyd Wright, in cui il bello dell'architettura non era la magniloquenza, lo stupire il cliente o il pubblico, ma piuttosto entrare nel problema sviscerarlo e risolverlo.

Non il palazzo di giustizia di Milano!

Ma è fin troppo facile pigliarsela col palazzaccio. Adesso bisogna pigliarsela con un mucchio di queste robe per le olimpiadi che sono il trionfo della fiera di strapaese! Magari firmate da grandi nomi…magari anche funzionanti alla fine, ma dove un differenziale di soldi spesi son spesi per lo stupore, non per legare meglio con l'ambiente.

A destra Fausto Amodei

Le canzoni di questo disco direi che sono tutte concepite con una struttura architettonica. Ancora una volta ne troviamo di piuttosto lunghe.

…fino a otto minuti! Credo siano insopportabili!

Io ho addirittura notizia di un tuo più sostanzioso inedito… una cantata, pare.

Ah!… quella! Resterà per sempre inedito!

Raccontaci cosa ci perdiamo.

Guarda ero partito dall'idea di fare una cantata epica dopo aver sentito Santa Maria de Iquique fatta dai Quilapayùn. Mi aveva entusiasmato l'idea di adoperare dei moduli popolari, coltivati e costruiti da una persona di conservatorio. L'avevo trovata proprio bellissima con questi recitativi e questi moduli, sempre popolari, che mi pare si chiamino decimas. “Devo far qualcosa del genere”, mi son detto. Allora avevo chiesto in giro: cos'è qualche libretto, qualche diario di vicende di lotta partigiana o altro a cui si potrebbe attingere? E poi è successo che nel '74, mentre andavo a cantare per un Festival dell'Unità, c'era stato un incidente, un incidente ferroviario in cui mi ero rotto la gamba…avevo sei morti vicino, quindi a me era andata bene, però son dovuto rimanere ingessato da agosto al marzo successivo. In quel periodo stavo leggendo il Diario di trent'anni, della militante comunista Camilla Ravera, e allora ho deciso che la cantata la facevo su quello. Ho riempito pagine e pagine, e ho fatto 'sta cantata per quattro voci e sei strumenti.

E questo per dire come, da questa cantata lunghissima alle tue canzoni, il progetto e la costruzione siano sempre un motore primario della tua scrittura.

Molte delle mie canzoni che senti, anche in questo disco, sono parte di un qualche progetto più ampio, per esempio L'inno del C.D.A… è addirittura l'ouverture di un musical sul capitalismo, in cui non sono mai andato più in là del primo atto.

Per tornare dalla forma al contenuto, tu in questo disco ritorni a cantare, non solo contro Berlusconi, ma anche a favore della parte politica in cui ti riconosci, il centrosinistra. Ora io ricordo una tua canzone, che ha cantato Settimelli in un vecchio disco, fortemente segnata da una certa vena di antiparlamentarismo

Il Parlamento

Tutti in doppio petto scuro, tutti quanti con cravatta grigio-perla,
L'assemblea dei deputati, vi assicuro, val la pena di vederla;
Ciascheduno c'ha alle spalle il quorum di cinquantacinquemila voti
Che li spinge a celebrare i riti democratici da sacerdoti.

Non esiste il mondo esterno, non ci sono più quei trentasei milioni
Con i quali si parlava di riforme oppure di rivoluzioni;
Ci son solo più le giunte, con le commissioni e gli ordini del giorno
Come in una gabbia d'oro che non si osa aprire per guardarsi intorno.

Ma c'è il paese reale,
Fuori da quest'aria fritta,
Che senza delega orale
E senza delega scritta
Combatte in prima persona,
Perché si sente ormai pronto
A cambiar per proprio conto
I rapporti di proprietà.

Quando accade in una fabbrica che un operaio viene licenziato
Perché ha fatto propaganda presso i suoi compagni o perché ha scioperato,
Chi sta dentro il Parlamento può magari fare un'interrogazione,
Anziché dargli una mano a dare un calcio nel sedere del padrone.
Quando c'è la polizia che mena manganelli in testa agli studenti,
Poi c'è la magistratura che te li condanna come delinquenti,
Si fa su un'interpellanza ai sensi delle norme già ratificate,
Anziché scendere in piazza e stare al loro fianco sulle barricate.

Però studenti e operai,
Ignari del protocollo,
Senza redigere mai
Domande in carta da bollo,
Lottano in prima persona
Sui posti di lavoro,
Per cambiar per conto loro
I rapporti di proprietà.

La democrazia borghese ha un vecchio trucco, che consiste essenzialmente
Nel chiamare democratiche solo le norme che non cambian niente
E nel consentire al popolo di usare solo quelle istituzioni
Che rafforzano di nascosto, o almeno non infastidiscono i padroni.

Se il lavoratore crede di disporre di una fetta di potere,
Pago di quest'illusione se la piglia tutto calmo nel sedere;
Ma se inventa gli strumenta per fare sul serio la democrazia,
Viene chiamato sovversivo e deve fare i conti con la polizia.

Ma è ormai comune opinione
Che, se si vuol cambiare,
Non basta più l'elezione
Di qualche parlamentare,
Ma occorre che sian le masse,
Senza aspettar mediatori,
A cercar di fare fuori
I rapporti di proprietà.

Non per cambiar Parlamento
Ma tutta la società.


È una canzone che non ho mai inciso, perché nel periodo in cui l'ho scritta ero appunto parlamentare, e, pur pensando quelle cose, mi sarebbe sembrato come sputare nel piatto in cui mangiavo.

Però, senza voler prendere in mano la sfera di cristallo, credo che le critiche che allora rivolgevi al sistema rappresentativo della democrazia borghese saranno ancora tutte valide anche nel caso di un governo di centrosinistra. Come fai convivere la critica da una parte e l'impegno a favore del centrosinistra dall'altro?

Oggi sono assolutamente convinto che, proprio a livello funzionale, sia necessario il bipolarismo, e di conseguenza una coalizione. Accetto la sfida di rimanere in un'alleanza strategica con forze borghesi in cui poter portare, non dico un pensiero anticapitalista, ma per lo meno la capacità di controllare il meccanismo di sviluppo della società senza accettare i peana al mercato.
Io credo che nessuno oggi possa pensare di buttare all'aria il capitalismo attraverso la dittatura del proletariato: gli esperimenti in questo senso mi paiono dei disastri abbastanza categorici. Però un po' puntare i piedi bisogna!
Nel senso: la realtà così com'è non va. Il mondo va cambiato.
Va cambiato tenendo anche conto che sono diverse le ideologie di coloro che, assieme, vogliono cambiare il mondo. Quindi, coalizzarsi con tutte le forze che, da prospettive diverse, vogliono cambiare il mondo è necessario proprio per cambiarlo.
A livello letterario e musicale è importante continuare ad affermare le proprie posizioni quotidianamente, ben sapendo che spesso non saranno d'accordo con la coalizione tutta, ma proprio affermarle è un modo di farle entrare nella verifica generale delle posizioni che continuano a vivere, pur coalizzate.
Poi un altro mio pensiero, che viene molto fuori da questo disco, è che anche le posizioni più rivoluzionarie non possono più aver gioco nel campo dell'illegalità. L'illegalità è un fatto di destra, punto e basta.
Abbiamo visto come proprio la destra, che storicamente si presentava come paladina della legalità, è invece capace delle illegalità più mostruose: la destra si allea con la mafia, la destra si allea con gli evasori fiscali, quindi la sinistra dev'essere legale.
Se essere legale vuol dire a un certo punto rifiutare le occupazioni – lo dico rimescolandomi dentro! – ma, può darsi…

Sai bene che su questo non sono affatto d'accordo.
Per la loro storia recente, in Italia e altrove, le occupazioni restano una straordinaria esperienza ed un grande laboratorio politico che contribuisce a mantenere vive e attive molte speranze, colpevolmente abbandonate, dalla sinistra istituzionale.
E questo lo dico con particolare convinzione proprio qui a due passi dalla Valle di Susa, dove l'occupazione degli spazi per protestare contro la TAV, forse non saranno legali, ma, nel paese della resistenza, sono tanto più sacrosante.


Beh, sulla questione TAV io ho parecchi dubbi anche sulla questione di merito. E non solo di natura ambientale, ma proprio di natura geopolitica.

A maggior ragione!

Ma non mi chiedere di farci su un disco…

Però, viste le pagine cui è destinata quest'intervista, una domanda è d'obbligo. Per tua ammissione, da sempre tu ti senti un allievo di Brassens.
Pur nel suo assoluto disinteresse per i fatti dell'attualità, al suo modo culturale e ottocentesco, Brassens resta una delle icone libertarie del '900. Mi piacerebbe sapere come il pensiero libertario di Brassens ti ha attraversato e cosa ti ha lasciato dentro. Brassens è stato un anarchico sui generis, per certi versi tolstojano, vicino ai principi del cristianesimo sociale e d'altronde irriducibilmente mangiapreti…


Mangiapreti lo sono anch'io! Soprattutto adesso.
Non so se sia per pigrizia, ma la mia visione del pensiero libertario è molto ottocentesca. A parte questo il termine libertario m'è sempre sconfinferato parecchio, il pericolo che la prevalenza delle istituzioni sulla società provocasse burocrazie e irrigidimenti l'ho sempre considerato reale. Le mie canzoni non le ho mai pensate riferite ai ministeri. Le mie canzoni le scrivo pensando al mio pubblico di nicchia che – soprattutto oggi – è nei circoli ARCI, nelle associazioni della società civile che sono il sale della terra!

A proposito non ti pare che il movimento No global, con cui la società civile riesce a rapportarsi molto meglio che i partiti, si porti dentro tante nuove pulsioni che aggiornano anche il pensiero libertario? A me sembra evidentissimo, mi ci sento talmente immerso…

Direi di sì. Queste forze, secondo me, sono ben più di un semplice “No” alla globalizzazione. Il movimento non vuole lasciare la globalizzazione alle multinazionali e lo fa adottando dei contenuti fortemente attuali: si rifà a dei discorsi di natura economica, ecologica, ambientale che sono senz'altro post-marxiani. E poi ha anche il pregio di non essere eurocentrico, ma nemmeno terzomondista come quello del '68. Questo attuale riferirsi al sud del mondo mi pare una cosa molto ricca. Una bella speranza.

Allora consigli un antidoto libertario da portarsi nella bisaccia di questa bella speranza?

Lo consiglio eccome, non solo a chi voglia far politica, ma proprio a chi voglia stare bene di fegato. Altrimenti ci tocca trangugiare tanta di quella merda!

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

La prima parte è stata pubblicata sullo scorso numero.