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Cafoni e anarchia

Da quando ho iniziato a segnalare ai lettori di “A” rivista anarchica le opere di narrativa recenti o passate nelle quali si parla, a vario titolo, dell'anarchismo, delle sue storie e dei suoi personaggi, mi accorgo sempre più che l'interesse per questo argomento è ben maggiore di quanto io stesso potessi immaginare. E noto anche con soddisfazione che raramente si ricorre alla scontata riproposizione di quegli stereotipi a cui si vorrebbe ridurre la ricchezza del pensiero e del movimento anarchico – tanto per capirci il feroce terrorista o il sognatore sempliciotto – mentre, al contrario, ci si imbatte spesso in lavori dotati di correttezza, competenza e cognizione di causa.
È anche il caso di Terra Nera (Giuse Alemanno, Terra Nera. Romanzo perfido e paradossale di cafoni e d'anarchia, Stampa Alternativa, 2005), un bel romanzo sanguigno, fatto di umori e di odori, concreti e materici come materica e concreta è la sostanza di cui tratta con uno stile avvincente e coinvolgente. Un racconto che riproduce, con la fedeltà di chi se ne sente erede e partecipe, un mondo ormai definitivamente perduto, ma che tuttavia ancora trasmette evidenti lasciti di ciò che è stato prima del suo lungo processo di trasformazione.
Ambientato in una atavica Puglia, contadina e “cafona”, a cavallo fra Otto e Novecento, Terra Nera racconta le vicissitudini di un giovane talmente determinato a uscire dalla penosa miseria a cui il suo censo l'ha destinato, da riuscire a diventare, utilizzando i mezzi più infami, il nuovo padrone del paese. Presentato nel risvolto di copertina, come l'inconsapevole ma coerente seguace di un nichilismo e di una volontà di potenza fatte risalire a Stirner ed ai suoi insegnamenti – e questo strumentale ricorso a Stirner è forse l'unico tratto di maniera e superficiale del racconto – il protagonista Nino, approfittando di una serie di circostanze e del terrigno fascino ammaliatore della madre Annina sui potenti del paese, non rifugge dal feroce assassinio del facoltoso amante della madre e dal tradimento dei compagni di fatica, pur di creare le condizioni che gli permettano di realizzare, violenza dopo violenza, il suo progetto: “La vita correva e io la domavo. Più forte del destino. Più forte della storia. Più forte della logica. Perché il mio era un gioco dove solo io potevo vincere. Perché io avevo stabilito le regole, io ne conoscevo la natura, io sapevo quando doveva finire. Perché il gioco ero io. Io, l'unico, il nulla creatore. Dal nulla della mia esistenza io avevo plasmato ogni cosa”.

Numerose e curiose sono le figure che si presentano al nostro sguardo, e che animano, con varia consapevolezza, quella eterna caccia del gatto al topo di cui parla questo libro. Tutte figure concrete e verosimili, in quella loro animalesca fisicità legata alla terra e alle tradizioni di un mondo rurale fatto di superstizioni, credenze e pregiudizi. E in questa piccola folla che vede muoversi scaltri possidenti, intellettuali frustrati, ipocriti sepolcri imbiancati e umili cafoni sempre meno rassegnati, emerge e risalta lo Zio Peppe, complessa e bizzarra figura a metà strada fra l'imbroglione, il mago, il guaritore e il puttaniere. Scaltro e opportunista, pronto a sfruttare la primitiva credulità dei suoi compaesani per soddisfare le proprie brame e raggiungere i propri interessi, diventa, per il giovane Nino che non si sottrae al suo ambiguo fascino, un prezioso maestro di bassezze, anche se la sua spregiudicatezza non è che uno strumento per sopravvivere in una società che, a ben guardare, ha davvero poco da offrire.
Come si diceva, non c'è solo la Puglia dei docili cafoni analfabeti in questo romanzo, ma anche un'altra Puglia, meno conosciuta ma non per questo meno reale, quella che, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ha vissuto una ininterrotta vicenda di progresso ed emancipazione che ne ha segnato in profondità la compagine sociale, e della quale ancora scorgiamo le tracce in tante realtà disseminate nel territorio a macchia di leopardo. Protagonisti del racconto, infatti, non sono solo le drammatiche figure rassegnate a secolare arretratezza, ma anche quelle che una volta si era soliti definire “avanguardie del proletariato cosciente”, gli antesignani delle masse popolari che cominceranno, in quegli anni lontani, a intravedere e a costruire la prospettiva di un mondo nuovo. Un mondo che, anche se non sarebbe diventato nuovo, avrebbe comunque vissuto profonde trasformazioni sociali, promosse dalla parola e dall'azione degli “apostoli dell'ideale”, dei propagandisti di quell'universale concetto di emancipazione e fratellanza che tanta presa avrebbe avuto sulle masse contadine del sud, sugli ultimi degli ultimi, sui dannati di una terra sassosa e avara di frutti, sui precursori di quelle lotte che avrebbero modificato irreversibilmente i rapporti fra sfruttati e sfruttatori.
Ecco dunque che a parlare ai braccianti, a risvegliarne la dignità e il desiderio di riscatto, troviamo, in una riunione clandestina a casa di tale Senzaddio, il famoso e temibile anarchico Bruttacapa, fatto arrivare di nascosto nel paese da Cosimino, il più sveglio dei compagni di lavoro di Nino. E, in quelle che sono sicuramente fra le pagine più significative del romanzo, lo vediamo arringare con convincente efficacia non solo i contadini analfabeti che paiono abbeverarsi alle sue labbra e che trovano nelle sue parole il sogno di una futura libertà, ma anche il Professore e altri borghesi, i quali, mossi dalla curiosità di conoscere il “terribile malfattore”, tentano inutilmente di opporre i loro convincimenti “legalitari” e pallidamente riformisti agli argomenti del rivoluzionario.
Come si è detto, in ultima di copertina si parla della contrapposizione fra l'anarchismo solidale e sociale di Bruttacapa-Malatesta e quello individualistico, definito stirneriano, di Nino, individuando nel suo crudele arrivismo null'altro che la realizzazione del postulato “unicistico” del filosofo tedesco. Non mi pare che debba essere così, anche se nelle intenzioni dell'autore è ben presente tale contrapposizione, e Alemanno è troppo buon conoscitore dell'anarchismo e delle sue sfumature, perché gli sia consentito tagliare con un'accetta così grossolana la dialettica fra individualismo e socialismo. Piuttosto la dialettica è fra Nino e Zio Peppe, fra un farabuttismo ancorato alla cultura ancestrale di costumi antichi e quello che fa propria la nuova mentalità “capitalistica” che lentamente si fa strada. E Bruttacapa-Malatesta resta l'unica forma di resistenza al dilagante individualismo, violento e prevaricatore, che contrassegnerà, laddove manchi l'affermarsi di una cultura sociale e solidaristica, lo svilupparsi e il “moderno” trasformarsi della società. Il trionfo di Nino, che vedrà premiate le sue cattive azioni, la bassezza, il tradimento, è il trionfo di una cultura dello sfruttamento che può essere contrastata solo dalle proposte socialistiche degli anarchici.
Come detto in precedenza, la realtà che traspare è quella che abbiamo conosciuto ancora pochi anni orsono, quando in una cittadina come Canosa di Puglia, la Carrara del sud, si potevano contare numerosi gruppi anarchici attivi fra le masse proletarie e diseredate del paese. Canosa, infatti, è un po' l'esempio in positivo del complesso rapporto – o assente o totale – fra l'anarchismo, e più in generale il socialismo, e il sud. L'esempio di una comunità in cui l'adesione all'ideale di emancipazione diventa fenomeno di massa, dove la cultura anarchica si fa parte integrante della cultura paesana, dove fra gente erede di un retaggio assonante con il suo vino più sincero, il “primitivo”, si afferma l'idea che sia possibile costruire qualcosa di diverso e di migliore nonostante la parola del prete, del proprietario, del carabiniere. Ed è per contrastare tale capacità di sovvertire l'ordine costituito e l'abitudine all'obbedienza, che la repressione cerca di colpire, dapprima inutilmente, Bruttacapa, poi, con una vicenda narrata pensando a Giuseppe Pinelli, Cosimino, fatto volare da una stanza della torre dell'acqua, durante un interrogatorio condotto da un carabiniere detto il Calabrese. Ma il cafone sottomesso e analfabeta, il bracciante destinato a vendere a giornata la propria forza lavoro per una manciata di soldi e una montagna di umiliazioni, capisce che solo facendo proprie le parole dell'anarchico potrà costruire un'esistenza vissuta con dignità.
Che è esattamente quanto fecero, e lungamente hanno fatto, i compagni di Canosa che per decenni hanno contribuito, con la loro presenza, la loro azione e il loro desiderio di riscatto, a rendere più accettabili e umane le condizioni di vita loro e dei loro compaesani. Tutti ritratti in piedi, dunque, come si conviene a chi ha saputo percorrere, nonostante il peso di una subcultura secolare che li voleva oppressi, la strada per la libertà e l'emancipazione. Una strada percorsa insieme a un “malfattore” di nome Bruttacapa-Malatesta.

Massimo Ortalli

Il “demonio” Bruttacapa
di Giuse Alemanno

“Giovane, chi ti manda?”.
“Mimino, quello che fatica alle terre dei Fucciano”.
“Quello che sta sempre malato?”.
“Sì, sì, proprio quello”.
“E che vuole?”.
“Vuole che vieni al paese che c'è uno che sta male”.
“E perché non va dal dottore?”.
“Perché la cosa deve rimanere segreta e Mimino pensa che tu sei un cristiano segreto”.
Zio Peppe a queste mie parole si fece una risata, sparò uno sputacchio contro una corteccia d'albero e rimase soprappensiero a osservare la saliva verdastra colare.
“Chi è che sta male?”.
“Bruttacapa, il parlatore mezzonapoletano”.
“Bruttacapa proprio?”.
“Lui proprio è”.
“E dove sta?”.
“Nascosto nella stalla del Senzaddio”.
“E sta così male?”.
“Mimino si credeva che moriva!”.
“Quello non capisce niente”, Zio Peppe fece una lunga pausa. Rifletteva. Poi riprese a parlare.
“Tu come ti chiami?”.
“Nino mi chiamo”.
“E a chi appartieni?”.
Gli spiegai chi era stato mio padre e chi era mia madre, gli dissi delle famiglie di provenienza e quale era il soprannome con cui eravamo conosciuti in paese. Zio Peppe ascoltò tenendo il sigàrro in bocca senza accenderlo.
Quando capì chi era mia madre gli si accesero gli occhi.
“Nino”, mi interruppe, “ma tu lo sai chi è Bruttacapa?”.
“Mimino mi ha detto che è uno che parla di cose di politica, di cose di compromettenza”.
“Bruttacapa è la più brutta specie di politicante, uno che non crede in nessuna cosa, un pericoloso tentatore che è capace di far intendere che cristo non è cristo a quei cafoni ignoranti, Bruttacapa è una specie di demonio mezzonapoletano: Bruttacapa è un anarchico!”.
E che significava quella parola? Io mai l'avevo sentita, ma a come ne parlava Zio Peppe doveva essere una cosa brutta assai.
“Zio Pe', e io mò che devo fare? Me ne devo andare? E a quelli che gli dico, che non avevi voglia di venire? Che gli devo dire: che Bruttacapa non lo vuoi curare?”.
Zio Peppe spostò tutto il peso del corpo sulla gamba sana lasciando l'altra sollevata e atteggiando il viso come compisse uno sforzo supremo che, evidentemente, non sortì alcun effetto visto che riprovò, questa volta spostando il peso sulla gamba matta e sul bastone, rimanendo in precario equilibrio e sforzandosi fino a diventar paonazzo con le vene del collo gonfie come nerbi di bue. Poi, dopo qualche secondo d'attesa, fece un sospiro disperato e si sgonfiò portandosi le mani al ventre.
“Niente, niente, sono tre giorni e mi sento crepare.
Quando sembra che sta arrivando il momento giusto ecco che l'intestino si chiude come un gomitolo pazzo che uno ci prende un capo e tira, tira e tutto si imbroglia e si stringe, e non c'è santi per poterlo sbrogliare. Nino, qua io sono un mezzo dottore che non sa curare neanche se stesso.
E mi sento crepare. Però tengo una coscienza, tengo un cuore. Anarchico o bandito, picozzo o carabiniere, miscredente o magistrato, nessuno potrà mai dire che Zio Peppe non ha messo a disposizione la sua scienza e la sua esperienza. Ateo, anarchista, avverso ai governi, a Dio e all'ordine costituito, comunque anche Bruttacapa è un uomo e io, Zio Peppe, come uomo lo devo curare. Vaglielo a dire a quelli che ti stanno aspettando. E digli pure che quando tornerò al bosco non devo tornare a mani vuote”.

Due momenti dell'insurrezione tentata dagli internazionalisti a Castel del Monte nel 1874 (disegni di Fabio Santin)

 

“…società senza governo”
di Giuse Alemanno

Entrai nella stalla del Senzaddio. Una lampada a petrolio illuminava male la stalla creando delle grandi zone d'ombra che incupivano la scena. L'acutissimo puzzo di ammoniaca mi fece indietreggiare ma, dopo un iniziale sbandamento, non ci feci troppo caso e presi posto tra gli uomini che erano lì ad ascoltare Bruttacapa. Erano una decina, tutti cafoni. Alcuni seduti in terra, alcuni accoccolati, altri appoggiati alle pareti, altri seduti sulle balle di fieno. Certi con uno zeppo si stuzzicavano i denti, altri lo tenevano in bocca penzoloni. Alcuni a capo scoperto e alcuni no. L'unico dato comune erano gli occhi torvi. Qualcuno lo conoscevo, altri non li avevo mai visti. Quando si accorsero della mia presenza non fecero che correre con lo sguardo interrogativo e minaccioso insieme verso Mimino che mi accompagnava. Mimino non fece che un gesto: fece un cenno degli occhi che mi riguardava, portò la mano aperta al petto poi, ponendo il palmo parallelo al suolo, fece con il braccio un movimento semicircolare come per dire ‘è persona mia, fidata, non c'è problema'.
Mimino era un ingenuo.
Ma la mia intrusione li distrasse solo un attimo perché tutta la loro attenzione era destinata a Bruttacapa che si era messo nel posto dove normalmente stava il cavallo del Senzaddio. Il cavallo ora si trovava nell'angolo più lontano della stalla ed evidenziava il suo disagio e la sua opposizione al cambio di posto con scalpiccii, corti nitriti e un frequente rumore di fondo, indefinibile, assimilabile a un borbottio.
Bruttacapa era piccolo, smilzo, un pizzo quadrato cortissimo gli onorava il mento, il pallore evidenziava l'imperfetto stato di salute esaltando il nero degli occhi incendiari. Parlava.
“…io non faccio il professore d'anarchia e non vengo a farvi un corso d'anarchia. Non sono qui per creare anarchici. Voglio solo farvi riflettere. Gli anarchici sono contro il governo e vogliono abbatterlo. Il governo d'oggi come quello di ieri e quello di domani.
Il governo emana dai proprietari, ha bisogno per sostenersi dell'appoggio dei proprietari, i suoi membri sono essi stessi dei proprietari; come potrebbe fare gli interessi dei lavoratori? Eppoi come potrebbe un governo risolvere la questione sociale? Questa dipende da cause generali che non possono essere risolte da un governo e che, anzi, determinano esse stesse la natura e l'indirizzo del governo. Per risolvere la questione sociale occorre cambiare radicalmente tutto il sistema che il governo ha invece missione di difendere. Per risolvere la questione sociale ci vuole la rivoluzione”.
Intervenne allora uno di quelli che non conoscevo: “Allora se un governo non può fare niente che rimedio c'è? Tu dici che ci vuole la rivoluzione. Ma dopo la rivoluzione ci vorrà pure un altro governo, e siccome tu dici che tutti i governi sono uguali siamo di nuovo al punto di partenza!”.
“Tu avresti ragione se la rivoluzione degli anarchici tendesse ad un semplice cambiamento di governo. Gli anarchici vogliono la completa trasformazione del regime della proprietà, del sistema di produzione e di scambio; ed in quanto al governo, organo parassitario, inutile e dannoso, noi non ne vogliamo affatto. Noi riteniamo che fino a quando vi sarà un governo, cioè un ente sovrapposto alla società e fornito di mezzi per imporre con la forza la propria volontà, non vi sarà reale emancipazione, non vi sarà pace tra gli uomini. Ecco perché, e voi lo sapete, io sono anarchico e anarchia vuol dire società senza governo”.

 

Accusa a scarpa di sposa
di Giuse Alemanno

“Nino tu stai parlando di un omicidio politico?”, cupo negli occhi.
“Politica? Io non capisco niente di politica. Io appena appena so leggere e scrivere. La politica la fanno solo le persone istruite, non gli ignoranti. Io vi ho detto solamente un pensiero che tenevo. Ma le mie sono solamente chiacchiere e puttanate dette da un cafone. Io son buono a governare Rozzulafai e non a parlare di cose così difficili”.
“Nino tu sei un ragazzo sveglio. Il buonanima di mio fratello aveva visto giusto quando mi parlò di te. Quello che a te sembra un pensiero, una puttanata, una chiacchiera, magari può essere una strada che porta lontano e quei due pizza di carabinieri del paese manco si immaginano che anche in queste terre amare si può nascondere qualche disgraziato che pensa di fare la rivoluzione scannando qualche padrone”.
“La rivoluzione?”, ci misi dentro tutta la meraviglia del creato.
“La rivoluzione, Nino. Significa il sovvertimento violento dell'ordine costituito. Capisci che significano queste parole?”.
“No, avete detto tante parole che io mai le avevo sentite”.
“Imparerai, Nino. Tengo l'intenzione di mandarti a lezione da un professore amico mio. A portare avanti le terre mie voglio persone sveglie e istruite. Mandami tua madre che ci voglio parlare. Voglio capire da lei di che cosa avete bisogno e le devo dire il fatto che tu devi tornare a scuola”.
“Don Totò ma vi state scordando dei soldi che vi dobbiamo dare del funerale del buonanima di mio padre? Io devo lavorare per forza se no a casa mia non ci mangiamo!”.
“Non tenere paura che non ci muori di fame. Ma prima devo parlare con tua madre”, e gli brillarono gli occhi.
A Don Totò gli avevo piantato un seme di gramigna nel cervello. Stupido non era e se, come credevo, avesse fatto indagini giuste, avrebbe saputo che al paese stava nascosto Bruttacapa. Uno come Bruttacapa è buono per essere colpevole. A uno come quello, a uno che si è disegnata la vita per fare il profeta della rivoluzione, l'accusa di aver ucciso un padrone gli stava a scarpa di sposa. E poi, se io avevo capito bene il soggetto, Bruttacapa era uno di quelli che l'orgoglio li ceca, se l'avessero preso manco ci avrebbe parlato al giudice e ai carabinieri. Bruttacapa si sarebbe fatto condannare al gabbio a vita senza dire una parola. Proprio quello che mi serviva. C'era solo il rischio che quei due minchioni di carabinieri del paese manco arrivassero a pensarlo che ci poteva essere uno come Bruttacapa al paese.
Sarei stato attento. Se ai due fessi in divisa nera fosse servito un aiuto, l'avrebbero avuto.

 

Mimino volò
di Giuse Alemanno

Un trambusto proveniente dall'esterno ci distrasse. Il Professore si affacciò e anch'io guardai da dove provenissero voci e rumori. Riconobbi subito Liborio Pepe e il Maresciallo che facevano compagnia a due carabinieri alti e forzuti che trascinavano un uomo in catene che non riconobbi subito. Dietro di loro c'era un altro carabiniere magro, nervoso e dalla faccia piatta e sghemba che forzava la marcia dell'uomo in catene con calci, spinte e urla. Costui dava la sensazione di essere il capo del manipolo. L'uomo in catene era Mimino.
“Nino, lo vedi quello?”.
“Quale Professo'?”.
“Quello che sta pigliando a calci Mimino…”.
“Ah, quello…”.
“Quello è un pezzo di merda. Nell'ambiente lo chiamano il Calabrese. Mimino passerà brutti momenti. Non so se avrà la forza di non fare nomi. Nino, vattene a casa per oggi, le lezioni le cominciamo domani… se ci sarà ancora un domani per me”.
Me ne andai subito. Ma non a casa. Seguii da lontano il gruppetto di carabinieri accompagnanti il prigioniero. Pensavo si dirigessero verso il centro del paese dove c'era quella specie di caserma dove vivevano Liborio Pepe e il Maresciallo. Invece andarono verso la periferia, uscirono dall'abitato e si diressero verso il deposito dell'acqua.
Era una costruzione di cemento che si alzava una decina di metri da terra e che aveva in cima un vascone di raccolta per l'acqua. Sapevo che attiguo al vascone c'era una stanza che veniva utilizzata soltanto quando il vascone si doveva riempire dell'acqua del pozzo artesiano e poi svuotarsi nelle varie cisterne.
Carabinieri e prigioniero andarono proprio in quella stanza. Io rimasi giù a guardare.
D'un tratto, credo che fossero appena entrati perché era passato pochissimo tempo, vidi Mimino proiettato verso l'esterno, spinto nel vuoto e con una mano che, prendendolo per la camicia, gli impediva di cadere. Sentivo delle urla ma la distanza era tale che non riuscivo a distinguere le parole. Riuscivo però a vedere bene i segni di diniego che Mimino faceva col capo e il disperato tentativo delle mani incatenate di aggrapparsi a qualcosa.
La mano che gli impediva di cadere lo scosse ma Mimino continuava con i suoi no di testa. E così la mano lo lasciò, così, di colpo, e Mimino volò. Fu un attimo e il volo dell'angelo incatenato finì. Mimino si schiantò al suolo. Il tempo di fare le scale e arrivarono tutti i carabinieri. Da come gli girarono intorno capii che Mimino era morto. Il Calabrese prima tolse le manette ai polsi di Mimino, poi si voltò verso il muro per pisciare.
“Sarà il nervoso”, pensai.
E da quel giorno si seppe che Mimino era caduto dalla finestra per sfuggire all'interrogatorio e così non fare i nomi degli altri sovversivi come lui.
Furono quelli i giorni della paura. Il Calabrese e i suoi uomini misero sotto pressione tutti quelli che avevano avuto a che fare con Mimino. Nel paese s'era creato un clima di sospetto e di tensione. Quando il Calabrese andò dal Senzaddio ero convinto che ci sarebbe stato un altro ‘volo' o qualcosa del genere. Invece niente. Tutto rimase com'era. Immaginai che questo fosse dovuto alle tasche piene del Senzaddio. La giustizia fa meno fatica a indietreggiare quando si trova di fronte un sospettato ricco e influente. Il Calabrese dal Professore non andò mai. Da me nemmeno. In fondo io ero ancora un ragazzino. Dopo i giorni della paura una notizia attraversò il paese. Il Calabrese rivelò che un attimo prima di buttarsi dalla torre dell'acqua, Mimino aveva confessato che era stato lui a uccidere Don Aldo Fucciano. Il Calabrese aveva tenuta segreta questa notizia perché voleva vedere se nel paese vi fossero complici o se Mimino avesse agito da solo. Così aveva scoperto che Mimino aveva agito da solo, che l'assassinio di Don Aldo era stata l'azione isolata di un pazzo che si era lasciato irretire dalle parole di un anarchico rivoluzionario che era passato a fare proselitismo in quelle terre, un tal Bruttacapa, e che ora era ricercato attivamente perché era riuscito a fuggire.

Brani tratti da: Giuse Alemanno, Terra nera. Romanzo perfido e paradossale di cafoni e d'anarchia, Stampa alternativa, Viterbo, 2005.