Rivista Anarchica Online


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I sogni di una generazione
Intervista di Miguel Carvalho a Luis Sepúlveda

 

Intervista al celebre scrittore cileno su 11 settembre (1973), amnesia, perdono, anarchici e pirati ecc.

 

Fu al tavolo di una sidrería che Luis Sepúlveda avrebbe saputo da che parte stava nel mondo. Nelle Asturie, nel nord della Spagna, era entrato per bere un bicchiere e ha finito col farsi degli amici intorno ad una bottiglia di sidra. Tra una sidra e due discorsi, le persone del posto hanno fatto subito a pezzi le sue verità assolute. “Qui dividiamo l’umanità così: o si è un figlio di puttana o si è dei nostri”. Lo scrittore cileno, di 54 anni (alla data dell’intervista. N.d.T.), è dei loro.
Dopo l’esilio, dalla militanza nel movimento di Greenpeace ai vari anni di permanenza a Parigi ed Amburgo, Sepúlveda ha scelto Gijón per riposarsi dopo una vita di giramondo. Ha scoperto una regione paziente e persone spontanee, per cui è restato.
Lo scrittore latino-americano vive da sette anni in un gradevole chalet, a dieci minuti dalla spiaggia, dove la piscina è l’unica concessione al lusso.
In questa casa prepara le sue memorie e non possiede alcun oggetto senza che abbia una simbologia, senza una storia da raccontare. Nel cortile, subito dopo l’ingresso, il visitatore incappa in una vecchia automobile Ford del 1949, anno di nascita di Sepúlveda. “Lei funziona e io pure”. Nel portico, un busto del rivoluzionario italiano, Garibaldi, uno dei primi guerriglieri dell’America Latina, uscito perdente da tutte le battaglie alle quali ha preso parte. Lo scrittore è sedotto dalle storie di gente sconfitta, marginale, di coloro che finiscono sempre con il perdere lungo la strada dei sogni.
Si entra nella casa e gli scaffali e le pareti è come se… parlassero.
C’è un angolo per i libri degli amici. Ci sono le loro foto, quella di Zorbas protagonista di Storia della gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, e un ritratto incorniciato del suo compianto amico, Fernando Assis Pacheco. Per terra una vecchia macchina da scrivere e altri libri.
C’è un armadio con tutte le sue opere tradotte in più di 40 lingue, dove riposa un pezzo del muro di Berlino. Appoggiata ad una parete una chitarra. “ È una tradizione. C’è sempre un amico che ogni tanto compare e suona”.
Lo scrittore lavora nella parte più alta della casa.
È il suo rifugio, non per questo il luogo preferito della casa. “Il luogo che preferisco è la cantina!”, scherza, mentre mi guida verso la soffitta. Una televisione, un sofà, un letto. “M’isolo qui. Mangio e dormo quando lo desidero e, a volte, non comunico nemmeno con gli altri”. Alle pareti foto di amici, di Allende. Le scrivanie sono disposte a “L”, un computer su ciascuna. “Se ho due idee uso i due computer per vedere quale idea si sviluppa meglio”.
Si svela ai nostri occhi un poco del mondo di Sepúlveda, ma non tutto ciò che si coglie è effettivamente, in mostra. “Questa è una fotografia del mio matrimonio”, mostra, nel soggiorno. “Non sembra una foto innocente? La verità è che in quel giorno mia moglie era in gravidanza ed io avevo una colt 45 in nella giacca”. A lato c’è Carmen Yañez, poetessa, dalla quale si separò nel 1973 e che rincontrò venti anni dopo. Bella storia d’amore di cui manca un libro.
Nelle vacanze, riceve sia le visite dei sei figli (suoi, di lei, di loro), sia dei nipoti, che arrivano dall’Ecuador, dalla Germania e dalla Svezia. Durante la cena in famiglia è un’autentica torre di babele.
L’uomo barbuto, con occhiali rotondi, calzoncini e sandali, che ci apre placidamente il cancello della palizzata di casa sua, è un resistente. Le disavventure di uomini e donne senza biografia gli danno motivazioni per continuare a raccontare le storie di chi non viene ricordato o risucchiato nell’amnesia storica.
C’incontriamo nel 2003, in un pomeriggio soleggiato d’agosto. Sepúlveda sta preparando il lancio del suo ultimo libro – Il Generale e il Giudice – in vari paesi.
L’opera è un omaggio a uomini come Salvador Allende, presidente socialista del governo popolare, che ha diretto il Cile dal 1970 al 1973. Ma è, soprattutto, una resa dei conti con la memoria e anche “con alcune canaglie che hanno gettato la maschera e hanno mostrato la loro vera faccia”. È un tributo ad una generazione, la sua, che pagò un prezzo altissimo per sognare un Cile senza padroni. “Non siamo vittime, né poveretti. Non abbiamo bisogno di carità cristiana. Abbiamo tentato di cambiare la società ed il mondo. E di ciò siamo orgogliosamente colpevoli”.
In quel giorno, gli ho portato del vino di Porto. Lui ha ricambiato con un pomeriggio intero di parole vive, resistenti, con il sapore delle cose che invecchiano saggiamente in bottiglia. Finendo con il bere in proporzione ai sogni.

 

Lo scrittore Luis Sepúlveda

Dove eri l’11 settembre 1973? (giorno del colpo di stato messo in atto da Pinochet. N.d.R.)

Ero incaricato dal mio partito, il Partito Socialista del Cile, di difendere un’infrastruttura che forniva acqua potabile a tutta la città di Santiago e che, nel frattempo, avevano tentato sia di farla esplodere, sia di avvelenarla. Eravamo otto compagni e per vari mesi, giorno e notte, siamo rimasti a vigilare la zona dell’acquedotto.

E il resto del giorno, come lo hai vissuto?

Tutti sapevano che c’era un golpe militare in preparazione, ma non sapevamo quando sarebbe successo. Quello che non immaginavamo è che sarebbe stato tanto crudele, tanto terribile. Noi, quelli della sinistra cilena, credevamo che ci fosse una certa decenza nei militari cileni, che avrebbero rispettato i prigionieri. Ma questo non è accaduto. Dichiararono guerra ad un popolo disarmato. La nostra difesa era una difesa morale. Sostenevamo determinate idee, ma ci piaceva il fatto che il popolo cileno non avesse molta simpatia per il resto del mondo socialista. Volevamo costruire una rivoluzione alla cilena, più vicina a John Lennon che a Lenin. Non volevamo creare una seconda Cuba, volevamo un socialismo alla cilena, di empanadas (“Pasticci” ripieni di carne o verdure o formaggio. N.d.T.) e vino rosso…

Cioè, molto vicina alle tradizioni popolari…

Sì, sì. Il Cile aveva un movimento popolare molto ricco, che fu specialmente favorito dal valore intellettuale dei lavoratori immigrati che arrivarono nel paese, provenendo soprattutto dal Centro Europa. Giunsero in America per costruire il Canale di Panama e dopo, non potendo ritornare, si spostarono al Sud per lavorare nelle miniere di salnitro nel deserto di Atacama. Quando s’inventò il fertilizzante sintetico, le miniere finirono alla malora. Due milioni di operai senza lavoro emigrarono a Santiago, che allora aveva un milione di abitanti.
Tutta la gente diceva che sarebbe stato il caos, che sarebbe stato terribile, ma successe esattamente il contrario. La classe lavoratrice cilena si organizzò facilmente e fondò la prima università anarchica del mondo. Uno dei miei nonni fu uno dei fondatori. In questa università si specializzarono lavoratori di tutto il continente americano. Soprattutto si formavano tecnici in tutte le aree che avevano a che fare con la stampa. La parola scritta fu sempre un grande amore degli anarchici, in quanto chi è padrone della parola stampata è libero e non solo colui che ha un’opinione. Joan Baez definì molto bene le caratteristiche della rivoluzione cilena. Lei diceva che, ad esempio, il profilo di un professore cileno rivoluzionario era un profilo da hippie, ma con una coscienza sociale molto forte.

Che miscuglio di sentimenti hai riguardo al Cile, trent’anni dopo il colpo di Stato di Pinochet?

Abbastanza contraddittori. Ancora in questi giorni parlavamo con la mia compagna, che era stata detenuta nella Villa Grimaldi, uno dei peggiori centri di tortura cileni, e dicevamo che ci siamo abituati a vivere con la certezza di aver perso il nostro paese. Il Cile che conoscevamo non esiste più. Sedici anni di dittatura hanno generato una trasformazione, non solo politica e ideologica, ma fisica, nella mentalità delle persone. È sparito il vecchio paese solidale e al suo posto è nato un paese “di merda” e individualista. Questo paese, che aveva uno degli indici più alti di lettura dell’America Latina, ora è all’ultimo posto. Questo paese, che non aveva analfabeti, ora ha un analfabetismo atroce. Fu il primo paese dell’America Latina, e il secondo al mondo, a consacrare il diritto di voto alle donne, ma adesso la partecipazione delle donne in politica è terribilmente segregata. C’è stato un regresso che lo rende irriconoscibile.
Siamo pienamente convinti che il nostro obiettivo di trasformare la società, di trasformare il mondo, era giusto. Volevamo creare le basi per una transizione pacifica al socialismo; non volevamo il socialismo per decreto. Il nostro modello non era Cuba né l’Unione Sovietica, era piuttosto la Svezia. I mille giorni del governo popolare furono mille giorni di festa. (…).

Il generale Augusto Pinochet (al centro) salito al potere con il golpe dell’11 settembre 1973

La tua generazione è stata una generazione sconfitta. Ma scopro che, per te, non è stata una generazione persa…

In nessun modo. Abbiamo perso una grande battaglia, questo è chiaro. Ma abbiamo lottato con l’intenzione molto onesta di trasformare il Cile e il mondo. Qualcosa è rimasto. Però il prezzo che si è pagato è stato molto alto: i morti, i desaparecidos, quelli che sono stati distrutti a causa dell’esilio o della miseria. Le conseguenze della dittatura si fanno sentire ancora. Ci sono persone che hanno perso tutti i loro riferimenti esistenziali e alcuni si sono tolti la vita. Il Cile ora è un altro paese, dove è quasi impossibile ritagliarti il tuo spazio, il tuo posto. In quell’epoca (gli anni ’70) in piena dittatura abbiamo assistito a cambiamenti veloci. Stavo nella prigione di Temuco, una delle peggiori, quando ci fu la rivoluzione dei garofani in Portogallo. Un giorno arrivò là un militare, molto allarmato, e mi disse: “Voi avete già vinto” – e io domandai – “Dove?”, “In Portogallo” – mi disse lui. “Cazzo, è caduta la dittatura?” – domandai. Non volevo crederci. E lo stesso accadde quando Franco morì.

Queste notizie davano speranza?

Sì, dobbiamo sempre rallegrarci quando muore un figlio di puttana. In quel caso, rispetto a figli di puttana così importanti, aumentò il mio ottimismo (risate). Mai, però, avremmo pensato che la dittatura (in Cile) durasse tanto. Le dittature durano sempre di più di quanto dovrebbero durare, in tutti i sensi…
Ora, il tempo di questa dittatura è passato ed è duro sapere che ci sono state persone che non l’hanno potuto superare; che questo tempo non è stato il loro, ma gli è stato sottratto. Per tutto questo, il mio rapporto con il paese è stato sempre d’amore e odio. Vado il meno possibile in Cile perché – ogni volta che poso i piedi là – ho problemi. (…).

Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Attacco dei golpisti al palazzo della Moneda

Continui a dire che l’amnesia è un argomento di Stato in Cile?

L’amnesia fu imposta come ragione di Stato. Il grande trionfo della dittatura fu aver conseguito un modello economico. Il colpo di Stato è avvenuto per far fallire l’intento rivoluzionario e decapitare intellettualmente il movimento dei lavoratori. L’obiettivo era uccidere il meglio del pensiero progressista nel paese.
Il signor Milton Friedman, direttore della Scuola di Chicago, viaggiò di proposito per il Cile per dirigere l’esperienza che, in primo luogo, doveva consistere nella distruzione dell’industria nazionale. Il paese aveva un’industria propria ed esportava. “Essere cileno è buono” era uno slogan conosciuto in tutto il continente. L’industria tessile era altamente competitiva e non è esagerato dire che più di metà del continente americano si vestiva con roba fatta in Cile. Il paese era provvisto di tutta la gamma di elettrodomestici di qualità. È evidente che i nostri frigoriferi e le nostre lavatrici non erano così belle come le Westinghouse, ma funzionavano e duravano molto tempo. Cominciavano ad essere vendute le prime auto prodotte in Cile. C’era una licenza della Citroën ed era nato il primo Citroën cileno. Non era tanto spettacolare come l’originale, ma funzionava. Avevamo un’impresa statale di trasporto collettivo, che era esemplare. Già avevamo una coscienza di protezione ambientale molto avanzata, ereditata dalle vecchie tradizioni anarchiche. Credo che il Cile sia stato il primo paese dell’America Latina ad avere un trasporto pubblico che funzionasse ad elettricità, i vecchi trolleys. Gli studenti viaggiavano gratuitamente, allo stesso modo delle donne in gravidanza e dei maggiori di 70 anni. Tutto questo è stato disperso. Hanno chiuso con le industrie nazionali, con tutte le imprese statali e il paese si è ridotto ad essere un ricevitore di cose che vengono da fuori. (…).

Credi che i sogni della tua generazione continuino ad essere attuali?

Continuano ad essere attuali in tutto il mondo. È il vecchio sogno di una società che mai sarà perfetta, ma che può essere giusta. Una società sana, dove non ci sia uniformità né reverenze. I miei sogni di questi tempi sono i sogni cari all’umanità. Specialmente nell’America Latina, dove viviamo troppo vicini al nemico che ha impedito il nostro sviluppo e uno stato minimo d’indipendenza. Insieme con un amico, ho fondato una casa editrice in Cile che si chiama “Ancora credo nei sogni”. È una di quelle che vendono più libri nel paese. Stiamo recuperando un nostro patrimonio culturale e tentiamo di condividere con le nuove generazioni quello che noi leggevamo. È possibile che alcune cose siano datate, che si discostino da ciò che succede là, ma non possiamo lasciare che non conoscano queste opere.

I giovani… come reagiscono rispetto alle ferite ancora aperte in Cile?

C’è un film bellissimo di un cileno, Patricio Guzmán, chiamato La memoria ostinata la cui storia risponde alla tua domanda. Lui aveva fatto un grande film dal titolo La battaglia del Cile, che mai è stato trasmesso nel paese. Quando aveva terminato le registrazioni, avvenne il golpe. Lo portarono in prigione e assassinarono vari elementi della sua equipe. Suo nonno riuscì a salvare il nastro e lo mise in un baule nell’ambasciata svedese. Attraverso una valigia diplomatica il film arrivò in Europa, e Patricio, già in esilio, lo recuperò, lo montò e lo mostrò in tutto il mondo, meno che in Cile. Venti anni dopo, lo portò in Cile. E mentre lo mostrava, fece questo nuovo film chiamato “La memoria ostinata” registrando semplicemente le reazioni delle persone giovani nel momento che vedevano la cassetta. Fu una reazione traumatica. Giovani che prima avevano l’opinione che il governo militare avesse salvato il paese dal caos, dall’anarchia e dai comunisti che tentavano di schiavizzare il paese, dopo aver visto il film sentirono una specie di catarsi. E si indignarono: “Com’è possibile che ci abbiano mentito così tanto?”. Alla fine era vero che avevano ammazzato tanta gente, che c’erano stati i desaparecidos. Alcuni dicevano: “Come ho potuto essere tanto cretino?”. E c’era una ragazzina, inconsolabile, che diceva: “Ma io ho giurato su Dio ad amici stranieri che in Cile mai si era ucciso qualcuno. Che era tutta propaganda del comunismo. E che le persone che apparivano con le foto, domandando dei familiari desaparecidos, era gente pagata dall’Unione Sovietica. Mi hanno ingannata”. C’è stato un risveglio della memoria, della curiosità per il passato, ma non è un fenomeno di massa, chiaro. La dittatura ha creato mentalità alienate, ha imposto la stupidità. Una parte molto significativa della gioventù cilena sta però recuperando la memoria e la partecipazione politica. (…).

Il perdono è una parola che entra nel tuo dizionario cileno?

No, non entra. In questo, sono come il Conte di Montecristo, non dimentico, non perdono. Con il perdono non si restituiscono le vite che la dittatura si è portata via.
Tutti gli esseri umani hanno bisogno di aprire e chiudere stagioni di dolore. Fa parte della vita. La cosa inaccettabile è che coloro che aprirono questa stagione di dolore si neghino a contribuire affinché la si possa chiudere. Abbiamo bisogno di piangere la morte del figlio, del fratello o del padre, ma c’impediscono questo pianto, questa catarsi liberatoria. Non ci dicono se li hanno ammazzati e dove li hanno lasciati, pur sapendo dove stanno i loro corpi. Questo danno si è prolungato durante trenta anni. Ed è parte di un’atroce farsa. È molto salutare per una società avere memoria e non perdonare i criminali.

La riconciliazione con la storia significa sapere tutta la verità su quello che successe nel Cile di Pinochet. Arriverà questo momento?

Credo di sì, anche perché avvengono cose insolite. Il sistema economico non funziona e in Argentina, per esempio, è imploso completamente. Il popolo argentino è arrivato a livelli di degradazione morale mai visti, ma tutti sappiamo come la povertà porti a questo degrado. La miseria trasforma l’essere umano quasi in un animale.
Per salvare il morale di un paese come l’Argentina – poiché un paese non vive senza morale – il presidente Kirchner ha revocato la legge di obbedienza dovuta e, così adesso, i figli di puttana le pagheranno tutte. Tutte! Era l’unica maniera di cominciare di nuovo, non si può costruire una società sulla base della menzogna, dell’amnesia, della dimenticanza come ragion di Stato.
Nel caso del Cile, bene… spero di ingannarmi perché non desidero alcun male al mio popolo, ma l’economia cilena entrerà in un collasso tra alcuni anni. È un paese che ha un indebitamento assurdo ed è totalmente aperto all’intromissione di qualsiasi capitale sospetto. Non c’è paese al mondo dove non si sia lavato tanto denaro del narcotraffico come in Cile. È un fatto che nemmeno il membro più idiota del Governo oserebbe negare.
È un paese che ha il suo futuro ipotecato. Secondo uno degli ultimi rapporti della Banca Mondiale, ciascun cileno nasce con un debito equivalente ad undici anni di lavoro.
Questo paese avrà un collasso totale. E peggiore di quello dell’Argentina. Non difendo “il tanto peggio, tanto meglio”, ma credo che solo a quel momento ci sarà il punto di partenza affinché il Cile si ricostruisca moralmente. (…).

Tornando al Cile… Pinochet continua a condizionare il futuro?

Non credo. Quando il Governo del Cile si impegnò a fondo per evitare che lui fosse giudicato in Inghilterra, pensavano che, al rientro paese, tutto sarebbe finito rapidamente. Si sono illusi. Non hanno tenuto conto del giudice Guzmán che ha accompagnato molto da vicino il lavoro di Baltasar Garzón ed era diventato amico suo.
Pinochet fu tenuto da Guzmán agli arresti domiciliari per molto tempo e, per la prima volta, dovette rispondere davanti ad un giudice. Quando gli domandarono se era stato lui a dare l’ordine di partenza della Carovana della Morte per giustiziare le persone, se la lettera era sua, Pinochet non resistette e disse: “Sì, la lettera è mia”. Compromise tutto; non resistette alla vanità e al cretinismo dei militari.
Questo, dopo che il suo avvocato aveva tentato con tutti i mezzi di evitare che rispondesse alla domanda. Con ciò, ottenne una condanna, ma subito ci fu una gran negoziazione per lasciare le cose come stavano.
Allora Pinochet fu dichiarato pazzo, gli diagnosticarono una malattia che fece ridere tutti i medici del mondo: “demenza vascolare lieve”. È pazzo? Sì. Ma è come le case “tipo chalet svizzero”, cioè una pazzia tipo qualsiasi cosa… (risate), capisci? Si sono messi in un pasticcio perché Pinochet deve tenersi la sua malattia perché qualunque miglioria nella “demenza vascolare lieve” permette di portarlo in giudizio.

Da qui la storia che non ci sono mucche pazze in Cile…

Ah! Questa storia… Quando diagnosticarono la malattia a Pinochet, io stavo in Cile e decisi di andare a mangiare carne alla griglia in un ristorante per festeggiare il compleanno del mio figlio più vecchio, che vive in Svezia. Lui, da buon svedese che è, era molto preoccupato con la “mucca pazza” e domandò al cameriere: “Qui non ci sono mucche pazze, no?”, “No signore”, gli rispose il ragazzo. “Qui le mucche hanno la demenza vascolare lieve” (risate).
Gli amici di Pinochet hanno fatto di tutto affinché siano archiviati tutti i processi sollevati contro di lui, ma la petizione deve essere firmata da lui stesso. E un tipo che è stato dichiarato malato di mente non può farlo. Per me, è una vendetta bellissima.

Cile, 11 settembre 1973

È una fine che ti soddisfa?

No, no. Io sarei la persona più felice del mondo se avessi questo figlio di puttana davanti a me e potessi scaricare i sette colpi di una “45”. Questo, sì, sarebbe un piacere enorme. Non desidero la morte a molta gente, ma ad alcuni sì. A lui specialmente. O quantomeno un buon cancro alla prostata o qualcosa così, perché no?

Oggi saresti capace di vivere in Cile?

Preferisco non vivere là…

Il libro Il Generale e il Giudice è una resa dei conti?

È nato soprattutto dalla necessità di erigere una mia barricata quando Pinochet era detenuto a Londra. Ho cercato di contribuire affinché lo mantenessero prigioniero il maggior tempo possibile. E nel libro, infatti, ci sono alcune rese dei conti con canaglie che si tolsero la maschera e mostrarono chi erano veramente. D’altra parte, rivendico un mio modo per continuare a vivere. Sono d’accordo con mia moglie in una cosa che per me è molto importante: noi non ci consideriamo vittime e non sopporto quando in Cile si parla delle “povere vittime”. Si può essere vittima della fatalità, della brutta sorte, persino della mano di Dio se sei credente. Ma noi abbiamo pagato un prezzo per cercare di cambiare la società ed il mondo. Sapevamo che potevamo pagare per questo e, nonostante ciò, lo abbiamo fatto. Siamo orgogliosamente colpevoli di questo.
Non siamo vittime; non si confondano le cose. Non abbiamo bisogno di carità cristiana per capire quello che abbiamo fatto. E lo abbiamo fatto con orgoglio.

Senti qualcosa di simile ad un esilio interiore?

No, niente di ciò. Mai “ho civettato” con i famosi esili interiori; sono una grande stupidaggine. È chiaro che ho dovuto vivere in esilio perché non potevo vivere nel mio paese. Ma ho il diritto di vivere dove mi pare e di essere un cittadino del mondo. Il mio posto nel mondo è dove io voglio. Cerco di andare in Cile, quasi tutti gli anni, ma i miei genitori sono già scomparsi. Nel frattempo, sono entrati nella mia vita altri paesi, tremendamente suggestivi. E ho una gran relazione d’amore con questi paesi. La regione del mondo che più desidero è la Patagonia e quando andavo là ero sempre molto felice. Allende era senatore eletto per la Patagonia. È un’altra classe di persone, che ha un altro progetto di vita. Forse uguale al mio. Sono pionieri, stanno erigendo un progetto di vita molto diverso…
Senti, ho fatto là un documentario chiamato Il cuore verde, ho vinto il Premio come migliore documentario del Festival di Venezia del 2002. Ho raccontato una storia reale. In una regione della Patagonia cilena chiamata Aysén esiste un immenso fiordo, di oltre 80 chilometri. È un luogo naturale, vergine, uno degli ultimi punti d’accoppiamento dei grandi cetacei e la terza riserva di acqua potabile del pianeta. La condizione dell’acqua e dell’aria è tra le più pure. Questa regione ha più di 40 mila abitanti. Vivono del turismo rurale, sostenibile e responsabilmente limitato; pensano alla qualità della vita della regione.
Un giorno arrivò un’impresa chiamata Noranda – con domicilio postale in Canada e quello fiscale nelle isole Cayman – per costruire tre centrali elettriche. Volevano produrre energia in grado di illuminare due volte la città di Buenos Aires. Nella regione sono ben provvisti d’energia eolica. Alcuni, allora, domandarono: “Che cosa faranno con l’energia che avanza?”. Dissero che avrebbero installato una fabbrica d’alluminio portato dal Brasile. E si sarebbe data energia ad una centrale di trattamento di scorie nucleari, da costruire alla frontiera con l’Argentina. Le persone dissero che non lo avrebbero permesso ed io decisi di fare un documentario su questo.
Volevo fare un lavoro di denuncia ed ebbi la fortuna di sapere che (in quel momento) ministro dell’Economia era Rodriguez Rossi, mio compagno di scuola. Parlai con lui. Gli domandai quello che pensava, come ministro, sui progetti che si sarebbero installati. “Che vale per noi avere questa maledetta regione che è la più bella, la più pura, se lì non è mai nato niente?”, mi contestò. Gli domandai se poteva dirlo davanti la cinepresa. “Sì. È la mia opinione come ministro e come persona”. Registrai e a tutte le persone che incontravo facevo vedere la registrazione. “Questo figlio di puttana chi si crede d’essere?”, reagivano, indignati. Raccolsi circa 40 testimonianze. Dal documentario nacque l’indagine, il cui risultato permise di scoprire che lo studio d’impatto ambientale per l’installazione di tali progetti era solo di mezza pagina.
Si bloccò la procedura e furono dati otto anni di tempo affinché fosse presentato uno studio di impatto ambientale. Con ciò, stiamo guadagnando tempo. È la lotta. Il passo seguente è stato formare una cooperativa. E quelli di noi che hanno i mezzi economici, stanno comprando i pezzi di terra dove vogliono installare le centrali elettriche e la fabbrica. Stiamo vincendoli con le loro stesse armi. (…).

La tua letteratura sta sempre dalla parte della vita dei vinti. È una scrittura contro l’alienazione?

A tutti tocca nascere in una determinata epoca e alcuni di noi tentano d’essere coerenti con l’epoca in cui vivono. L’unica forma che conosco di dormire bene è essere in pace con il mondo e, soprattutto, con me stesso. Mantenendo sempre un’attitudine di resistenza. La mia letteratura è un atto di resistenza. “Narrare è resistere”, disse Guimarães Rosa. Non so se alcuni di noi stiano in qualche modo rifondando una cultura della resistenza. Da quando Peter Weiss è morto nessuno ha mai più letto l’“estetica della resistenza”. La resistenza è impregnata di un’enorme bellezza, perché implica offrire alternative. Quando resisti come scrittore, stai proponendo un’alternativa letteraria e bella contro l’alienazione.

C’è chi ti accusa di inventare la tua biografia politica e letteraria. Cosa dici su ciò?

Ci sono alcune persone che non capiscono che io non devo mostrare certificati d’autenticità sulle cose che ho vissuto. A me basta l’autenticità dei protagonisti che hanno condiviso questi avvenimenti con me. Per soddisfare alcune persone dovrei correre dal notaio ad autenticare ciascuno dei momenti trascorsi. Non devo darne conto a nessuno. Già mi sono confrontato con situazioni assurde e mi preoccupa molto di più la mia compagna, che soffre molto per questo. Di me, hanno persino detto che non esistevo… Cosa devo fare per provare che ho fatto parte delle “brigate Simon Bolivar” che hanno combattuto in Nicaragua? Acquistare biglietti aerei per tutti i compagni di quel tempo e invitarli ad andare in Cile a fare una sfilata? Come si può rispondere alle canaglie, alla stupidità?
Da tempo, una canaglia e un cretino chiamato Jorge Edwards sta insinuando, attraverso il quotidiano El País, che durante la dittatura io non avrei passato tutto quello che dico, in quanto, se così fosse – diceva lui – io avrei avviato un processo nei tribunali come fanno tutti. Gli ho risposto con una domanda: “Per caso non ti viene in mente che non credo in questo sistema, in questa giustizia? E che, per me – in questo momento – è più vicina la vendetta di quanto lo sia la giustizia fine a se stessa?”. In verità, per molte cose, mi soddisfa più la vendetta che la giustizia. Voglio vivere in pace con me. E se le canaglie vanno a morire uno ad uno già mi considero ricompensato. Quello che non voglio è dargli un protagonismo gratuito. (…).

Hai l’abitudine di dire che una persona è di dove sta meglio. La parola patria non ti dice nulla, pertanto?

Sempre mi ha provocato una ripulsa enorme. La parola patria è legata a patrioti. Se sei un patriota escludi i più, ossia pensi di essere il migliore ed ignori i valori degli altri. È una parola che dovrebbe sparire.

Pensi ancora di scrivere un racconto su Lisbona?

Sì, mi sarebbe piaciuto passare una stagione a Lisbona… Mi sono sentito un po’ fottuto quando ho letto Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, perché è esattamente il racconto che io avrei voluto scrivere (risate).
Al momento, ho appena un personaggio, un cileno che sta a Lisbona ai tempi di Salazar. E alcuni appunti disordinati che ho bisogno di cucinare. Una volta sono stato a Lisbona con l’intenzione di cominciare a scrivere, ma non riuscii a farlo perché l’ospitalità dei lisbonesi è insalubre. E capii che non era possibile scrivere tutti i giorni.
Mi piace molto vagare per Trás-os-Montes e andare al Sud, in inverno quando non ci sono turisti. Più Alentejo che Algarve.
Curiosamente, sto da quasi dieci anni a scrivere un racconto di pirati (risate). Bene… già ho 600 pagine. Uno dei personaggi è un alentejano, perché è esistito realmente un pirata alentejano. O meglio, non so se era alentejano, ma lo chiamavano Sebastiano dell’Alentejo.
E rimase nella storia. Le persone confondono i pirati con i corsari, ma non sono la stessa cosa. I pirati erano uomini liberi del mare; i corsari erano mercenari. I pirati in verità esistettero solo nel Mediterraneo e nello stretto di Magellano. La loro bandiera non era quella tipica dei corsari, nera, con i due ossi e il teschio. Era, invece, metà rossa, metà nera. Un grande storiografico francese chiamato Gilles Lapuge, scrisse un libro intitolato I pirati, in cui difende una teoria alla quale credo: quella che la bandiera rossa e nera dell’anarchia viene dalla pirateria. Infatti, i postulati che difendevano sono riprodotti nei documenti anarchici. (…).

Miguel Carvalho

Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti
L’intervista è stata realizzata a Gijon (Spagna) nell’agosto 2003