Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

A quando il vero cambiamento?

A François Beranger il maggio diede una speranza che gli cantò dentro tutta la vita. E ci canta ancora. Questo ricordo di un grande compagno lo voglio dedicare in egual modo al popolo della Val di Susa e a quello delle periferie di Parigi. Sono certo che lui avrebbe apprezzato. Sono certo che lui avrebbe cantato per loro. Quando nell’ottobre del 2003 m’è giunta la notizia della sua morte, in seguito a un brutto tumore, m’ha invaso un’immensa tristezza. Beranger era l’insumis, il ribelle per antonomasia, quello che rispondeva sempre a tutte le richieste di sostegno musicale per la causa. E ben oltre gli anni ’70, nonostante una lunga crisi personale che lo aveva tenuto lontano dalle scene, era rimasto a scandire le sue verità. Tanto per citare un’intervista degli ultimi tempi, sosteneva che, se avesse dovuto riscrivere le sue canzoni, le avrebbe riscritte ancora più schierate e senza compromessi, perché l’unica forma di espressione dignitosa, per attraversare stupidità e menzogne generalizzate, è la denuncia.
Beranger era nato in una famiglia operaia nel 1937, in pieno Front Populaire. Bellissimo il ricordo che filtra, da quei primi anni, attraverso le sue canzoni:

Sulla foto ormai ingiallita delle vostre prime vacanze
Partivate allegri su due bici rugginose
Con le tue mani hai cucito la tenda per dormire.
Arrivate come marziani su una spiaggia della Charente
I borghesi han paura dei proletari che travalicano i loro recinti
Con disprezzo e alterigia compassata vi chiamano “fiere pagate”
Subito prima il ’36, i proletari in sciopero
Per un po’ più di giustizia, di soldi, di sogni
Davanti alla fabbrica occupata attraverso le sbarre
Ogni giorno passavi a mio padre la sua gavetta
Gli uomini stanchi sorridevano sfidando l’ordine immutabile. (…)
Vedo in filigrana nella foto ingiallita
Dietro le bici rugginose sfilare tutti i vostri diritti
Tutte le generazione testarde, mai vinte
La loro lotta contro l’oppressione, il fronte popolare, la salute
Ma la foto s’oscura, le vostre vittorie se le stanno mangiando via
Il mondo guarda strangolato ritornare la barbarie.

(En avant 1997)

Questa canzone è un omaggio al padre, attivista sindacale, con cui il libertario ed estremista François s’era scontrato per una vita in affettuoso conflitto, ma lascia emergere, come in tutta l’opera di Beranger, il tema d’una memoria viva che morde il sedere al futuro, che gli chiede, per coerenza, di non essere l’assassino della speranza. Proletarie dunque le origini di Beranger, per parte sia di padre che di madre, proletarie e orgogliose…e qui non si può fare a meno di citare un’altra canzone, fra le più belle del suo repertorio:

Mia nonna che era di Clamecy è morta nel suo lettuccio
Dall’ospedale di Montargis è andata a raggiungere il suo uomo
Quello che chiamava “gioia mia” un mattino di quest’inverno porco.

Mia nonna che era di Clamecy era una che cantava sempre
Perché negli anni dei suoi vent’anni era stata cucitrice
E nelle sartorie della fatica sembrava di essere in una voliera

Nella strada delle sartorie, delle sartorie, dei maglifici
L’ultima delle pezzenti era vestita come una principessa
(…)
Dodici ore al giorno, sei giorni alla settimana le chiappe segnate, le reni rotte
Le tette schiacciate, le dita ferite, gli occhi rossi, ma cantavano
Cantavano sempre canti di gioia, d’avvenire radioso, d’amore eterno.

Le ragazze di quel tempo portavano per mano, fra le braccia
Una sorta di fierezza orgogliosa più bella di qualsiasi oblio
Che affogasse i giorni tutti uguali nei bicchieri d’assenzio e d’anice.

Per mia nonna che era di Clamecy e che è morta nel suo lettuccio
Per lei che ha cantato tutta la vita, in guisa di arrivederci e grazie
Questa canzonetta gliela dedico un giorno di questo porco inverno.

(Pour ma grand-mere 1979)

Beranger dopo l’infanzia, dura ma non troppo infelice, e l’adolescenza passata a girovagare con una compagnia instabile di teatranti (ed è in quel periodo che si sviluppa la sua passione musicale) conosce un calvario che gli segna l’esistenza: la guerra d’Algeria. Nel ’58 è “coscritto e deportato” a combattere quella “sporca guerra” che è vietato chiamare col suo nome. Dal suo ruolo di addetto al centralino è spettatore sconvolto di torture e orrori a non finire. Tutto per un colonialismo perdente già in partenza. “A 35 anni di distanza constato tristemente che nulla è cambiato. Che il mondo resta sottomesso alla regola del profitto, dello sfruttamento e del razzismo, insomma, alla più crassa imbecillità. Per le torture, la paura, la vergogna, i morti, i feriti. Per la menzogna sistematica. Per l’inutilità assurda della guerra. Per il razzismo latente e manifesto. Per l’alcolismo brutale dei reduci dell’Indocina. Per gli anni e tutta la mia gioventù perduta. Per le illusioni definitivamente stuprate. Per avermi aperto gli occhi sulla realtà del mondo. Per tutto questo: grazie esercito!
In ogni modo dell’Algeria ho serbato nello zaino altre immagini che non sono né di morte, né di paura, né di noia. La gentilezza della gente. Malgrado tutto. Le ragazzine, cariche come muli, che prendono l’acqua alla fontana. Il coraggio delle donne che assicura la continuità della vita nelle baracche senza uomini. E il colore dell’Africa, che son tornato spesso, più tardi, a ritrovare intatto. Il calore, l’ospitalità e la dignità.” “Nella palude del tempo immobile, pietrificato, arriva l’alba. Al posto della gioiosa eccitazione tanto sognata ci si ritrova vuoti, senza reazioni, dilavati da ogni memoria, come vecchi”.
Come un vecchio François deve rientrare in un mondo che gli sembra privo d’interesse. Fa per un po’ l’operaio, poi riesce ad entrare nella produzione radiofonica e documentaristica, e poi…poi viene maggio.
Maggio ’68, François è sulle barricate. La notte nell’istituto di belle arti per prendere i manifesti da incollare sui muri. Le strade gremite di immaginazione. Si cantano canzoni. A François torna la voce che si era spenta in Algeria. Ritrova la sua chitarra. Così nascono i cantautori.

François Beranger

Tranche de vie, una canzone fortemente autobiografica ha successo. Arriva subito un contratto con la CBS. Il contratto con la CBS viene rescisso dopo il secondo album, visto che François vuole essere cosciente e controllare ogni fase di produzione e la cosa non è vista di buon occhio dalla multinazionale del disco. Nuovo contratto con l’etichetta indipendente presso cui farà uscire 8 LP. Cominciano tournées estenuanti per tutta la Francia. Il suono si evolve verso il Rock, con lunghe suites strumentali (Paris Lumière, Manifeste) “Ho sempre fatto posto ai musicisti, considerando che i suoni e la musica avessero altrettante cose da dire che le parole”. Tanto suono e le solite idee ben chiare:

Mi hanno detto fai canzoni così, mi hanno detto fai canzoni cosà
Ma in ogni caso non parlare mai di cose vere…così volgari
Capitemi, cari compagni, la realtà bisogna pur arrangiarla
La realtà vera, sapete com’è spesso, troppo brutale!
No, in una canzone di successo bisogna creare immagini illusorie
Per far ingoiare ai poveri coglioni le loro noie quotidiane.
“Gioia, amore, vieni con me…Sulla collina che profuma d’oriente
Andiamo a incontrare Gesù Cristo con la sua aurora di neon luminoso”

Mai niente sul nostro quotidiano su tutto ciò che fa che noi si sia
Manipolati, condizionati da una banda di squali(…)
Niente di nuovo in fabbrica, le facce degli uomini dei turni di notte
Che smontano quando il sole si leva stremati, abbrutiti.
“I fiorellini, gli uccellini, le ragazzine dei francesi medi
Le automobilone, le motociclette che ti fanno sentire un superuomo
Una superdonna nel tuo corpo moderno grazie all’assorbente che non scivola”

Niente di nuovo dall’Algeria, se non che ora è permesso
Di parlarne e fare soldi sulla pelle di milioni di cadaveri.
Niente di nuovo dai manganelli della carica del 14 luglio
Per aver osato ballare e cantare quand’era proibito
Niente è cambiato da quella sera in cui ho pisciato sulla mia TV per quant’era allegro
E così l’elettricità m’è passata per il pisello.
“Buonasera telespettatori questa sera sui canali a colori
Per la serie «La vite è bella» la nostra grande inchiesta sui guardiani del lager
E poi, prima di andare a nanna, il campionato del mondo di tiro a segno”

Niente di nuovo per la ragazza tredicenne col seno piccolo e la faccia bambina
Che partorisce terrorizzata nei cessi del liceo
Come direbbe un mio amico un po’ pazzo (completamente pazzo!)
Ché aspettiamo a fermare tutto, rompere tutto, ricominciare tutto!
Allora…cercate di capirmi: i violini, le chitarre, gli zumpa zumpa
Trovo tutto così anacronistico che mi dà le coliche
So che una canzone non è certo una rivoluzione
Ma dire le cose è già meglio che niente e se ognuno ha la sua da dire
Siccome abbiamo lo stesso peso sul cuore verrà il giorno che cantiamo tutti in coro.

(Manifeste 1973)

Arriva il 1981, coi socialisti al potere gli ultimi fremiti del ’68 si placano, la storia è finita e i cantautori di protesta limano gli artigli e si volgono al minimalismo. Beranger no, continua sulla sua strada, in bilico fra tenerezza visionaria e ringhio sarcastico “Quando arriva il vero cambiamento?”. Intanto gli voltano le spalle proprio quelli che lui aveva sostenuto: il giornale di sinistra “Liberation”, per cui aveva dato diversi concerti nei momenti di difficoltà, lo tratta da rottame sessantottino, stupendosi che ci sia ancora un pubblico disposto ad ascoltarlo. Beranger amareggiato oltremodo da questo clima decide di ritirarsi dalle scene.

François Beranger

Tornerà nella seconda metà degli anni ’90, stimolato dal movimento no global, da una nuova etichetta indipendente che acquisisce e ristampa tutto il suo catalogo, dai vecchi amici ancora sulla breccia, primi fra tutti il disegnatore Jacques Tardi e sua moglie, la cantautrice Dominique Grange. Un bel documentario viene girato durante la tournée del ’98, mostrandoci un uomo rigoroso e intatto nei suoi ideali, nella sua tenerezza, nel suo sdegno, nella sua speranza.

Poiché il solo valore intatto in questa fine di millennio
Sono la moneta e la mitraglia, i soldi, le bombe e l’economia (…)
Nella mia grossolanità una domanda mi tortura
La nuova povertà dite un po’: ma quanto costa ?
Quanto costa un chilometro di autostrada
Uno stadio per il calcio, un aereo supersonico?
Quanto costa la sopravvivenza di una famiglia per un anno
Mangiando lenticchie e pagando l’affitto?
Quanto costa la sofferenza? Quanto costa l’abbandono?
Quanto si accosta l’indigenza alle belle coste francesi ?

(Combien ça coute? 1997)

Prima di comprarmi un biglietto eterno per andare a svernare al sole
O di risalire sulla torre d’avorio per contemplare i miei possedimenti
Prima che la testa si rammollisca, prima che il corpo m’abbandoni
Prima che i vermi mi reclamino. Vorrei tanto mi si chiarisse
Che mi si spiegasse una volta per tutte in che Stato siamo…
Questo macchinario enorme e misterioso che si applica a fare la gente infelice
Griderò prima che la mia voce si perda: Stato, Stato… Stato di merda!

(L’Etat de merde 1997)

A volte amaro, a volte ironico, spesso sarcastico, François Beranger si congeda senza alcuna concessione; ci resta nella memoria il ricordo di un uomo giusto e retto, nella rabbia come nella dolcezza. Testardo, mai arreso.

Quanti di noi hanno visto il vecchio che passa in strada ?
Fantasma grigio che la città ha escluso.
La strada, la gente e il mondo vanno troppo in fretta per lui
Nei suoi occhi assenti e infantili non resta che l’insulto del tempo.
Per scendere e risalire sei piani di scale ci vuole l’eternità.

Che colpa avrà mai commesso il vecchio tutto grigio che trascina gli arti doloranti ?
Quanti fra noi hanno fatto un qualcosa di palpabile
Un gesto, una parola, un sorriso per avvicinarlo?
La vecchiaia ci dà i brividi non ci si riesce credere
I nostri occhi ne trattengono un’immagine irreale
Il mio vecchio una volta al mese va a passettini a ritirare la pensione
E si reca tornando lungo la via fino al gelataio.

Quando sarò vecchio e solo, domani o dopodomani
Vorrei come lui, almeno una volta al mese
Coi miei soldi (se ce n’ho) comprarmi un gelato a due gusti
E sognare sul loro sapore un mondo pieno di bambini
Ma forse per noi, noi i vecchi di domani, la vita sarà cambiata
Cominciando ora, da soli e senza aspettare, a rifare il presente

Appuntamento a chi sorride (e che può ben sorridere)
Fra venti, trent’anni per riparlare del bel tempo.

(Le vieux 1978)

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it