Rivista Anarchica Online


sociale

Anarchici in movimento
di Andrea Papi

 

Dalle esperienze spontanee a una nuova coscienza sociale.

 

L’ultimo rapporto annuale (inizio dicembre 2005) del Censis, istituto nazionale di ricerca socioeconomica, ci fa sapere che per ora è scongiurato il paventato pericolo del declino economico italiano: 45.000 nuove aziende solo nell’ultimo anno, aumento del ruolo delle medie imprese di casa nostra sui mercati internazionali, aumento delle spese di pubblicità, rilancio dei consumi. Sottolinea in particolare un insolito vigore dell’imprenditoria italiana, ben aiutata dal boom di iniziative imprenditoriali di immigrati, gli extracomunitari come sono definiti nazionalisticamente. Entrambe le tipologie di imprenditori, sia gli aborigeni nostrani sia gl’immigrati, si dice, portano ricchezza, mentre in realtà han solo trovato la strada per arricchirsi personalmente, alzando di conseguenza gl’indici capitalisti di misurazione della ricchezza.
È la solita storia: il benessere sociale viene misurato dalle capacità imprenditoriali, dalla quantità dei consumi, dall’invasione della pubblicità. Un paese, si dice e si propaganda, sta bene solo se e quando riesce a far arricchire i più furbi e i più capaci, se crea posti di lavoro, se induce gli esseri umani a consumare e ad investire. Allora aumentano gli investimenti e le speculazioni finanziarie, si dominano, o si tendono a dominare, i mercati, si gestisce l’economia finanziaria e capitalista facendo affari e invadendoci di manufatti e prodotti, per fare i quali aumenta il consumo di energia prodotta da centrali a combustione o nucleari e che, guarda caso, inevitabilmente faranno aumentare il volume degli spazi delle discariche o delle immissioni, sempre nocive, degli inceneritori, pardon!, dei termovalorizzatori.
Al contempo lo stesso rapporto ci segnala in cifre la distribuzione della ricchezza nazionale del belpaese. Apprendiamo così che il 10% delle famiglie più abbienti possiede circa la metà della ricchezza complessiva, il 45,1%, che il 12% delle famiglie si trova sotto la soglia della povertà, mentre un altro 13% ne è appena al di sopra e fa una gran fatica a tirare avanti. Un buon quarto delle famiglie italiane è così diventato povero ed ha la prospettiva di rimanerlo per parecchio. Per completare abbiamo un certo numero di benestanti che si attesta attorno al 15%, mentre il resto sembra sia continuamente costretta a far quadrare i conti pur non rischiando, per ora, di diventare povera.
Riassumendo, un quarto della popolazione di casa nostra sta bene o addirittura benissimo, mentre i tre quarti è costretta a vivacchiare, molto controllata, o addirittura a lottare per sopravvivere.
All’interno di questo bel panorama del nostrano “benessere diffuso”, chi ha tra i 18 e i 35 anni si trova oppresso dal maggior disagio lavorativo. In questa fascia d’età la precarietà occupazionale, ufficialmente secondo il Censis, è diventata precarietà esistenziale, dal momento che la permanenza in famiglia è ormai una condizione indispensabile per non trovarsi irrimediabilmente esposti all’insicurezza sociale. La penalizzazione delle donne sul mercato del lavoro resta fortissima, con un tasso di attività fermo al 37,1%, superiore soltanto al 30,6% dell’isola di Malta. Da tempo e non da ora sappiamo come i pensionati convivono con una diffusa indigenza. Infine per quanto riguarda gli immigrati, se da una parte le imprese con un titolare straniero sono 190.000, dall’altra si è formata un’allarmante banlieu e, sempre secondo il Censis, la mancata integrazione delle seconde generazioni di immigrati rischia di alimentare un serbatoio di esclusione sociale e di devianza, facendo intravedere seri rischi per l’equilibrio sociale.

Scenario deprimente

Lo scenario complessivo che ne risulta è molto deprimente per chi ha a cuore l’autentica salute degli esseri umani, che non può che essere considerata nella sua completezza fisica, mentale, psichica e interrelazionale. I divari tendono ad aumentare vistosamente, sul piano economico tra chi ha di più e chi ha poco o addirittura niente, sul piano politico e sociale tra chi decide e chi subisce le decisioni. Irrimediabilmente i più deboli sono sempre più deboli ed i più forti sempre più forti. Chi ha le spalle già sicure e riparate rafforza e rimpingua il proprio status, con l’aumento della ricchezza personale disponibile e del potere d’influenza e di decisione. Chi non è coperto e protetto è invece costretto ad aumentare lo stato della propria insicurezza e ad entrare in una sorta di permanenza della condizione precaria della propria esistenza.
È il consolidamento ulteriore di uno stato diffuso di costante ingiustizia, supportata da un’ineguaglianza endemica che si sorregge su un regime di privilegi per pochi e di umiliazione per tutti gli altri. A questo si accompagna una continua diminuzione delle possibilità individuali sia di movimento sia di libertà, dal momento che l’uno e l’altra possono esercitarsi concretamente soltanto se si determinano delle condizioni di vita che le permettano. In definitiva siamo sempre più all’interno di una prigione sociale, dove per ragioni superiori di sicurezza siamo sempre più controllabili e controllati e dove il ricatto economico del sistema vigente restringe sempre di più le possibilità e le speranze di una vita dignitosa per la maggioranza delle persone.
Questa situazione generalizzata senz’altro continua a sussistere perché ci sono responsabilità contingenti che ne confermano e ne aggravano l’esistenza, ma soprattutto perché ha delle cause di fondo che la sottendono e la fanno essere quella che effettivamente è.
Grandi responsabilità risiedono in primis e senza dubbio nel modo di governare. Attualmente in Italia il governo di centro-destra, in particolare il “premier” Berlusconi, sono responsabili del costante aggravio dello stato di cose per le scelte scellerate senza sosta che li hanno distinti: continue gerarchizzazioni degli apparati istituzionali come strategia di rinnovamento degli stessi, preferenze dichiarate ed evidenti per chi persegue interessi capitalistici e personali, spostamento di ogni scelta verso la logica dei profitti e degli utili privati, totale convinta subordinazione alla filosofia del mercato capitalista globale, visione di una giustizia asservita alle istanze liberiste e privatistiche, la quale non può che favorire i rampanti protagonisti degli interessi personalistici a scapito dei più deboli e degli oppressi in generale.
Ma al di là delle indiscutibili responsabilità contingenti in loco, è la stessa struttura portante di questo sistema ad essere la causa principale e fondamentale del fallimento sociale di cui stiamo parlando. Sono innanzitutto la filosofia e la logica dell’impianto su cui si sorregge a determinare l’inevitabile dissesto di principi e di valori, di conseguenza delle condizioni esistenziali e materiali, cui stiamo assistendo e che stiamo vivendo. Tutto ruota ormai inevitabilmente attorno alle capacità competitive e alla conquista dei mercati. Si parla di crescita dello sviluppo come spinta, voluta e propagandata, ad un agire, un pensare e un progettare strettamente connessi alla realizzazione senza freni di speculazioni e profitti finanziari. Tutta la classe dirigente, istituzionale e politica, invoca continuamente un’idea di benessere sociale come realizzazione della competitività e dello sviluppo economici, ignorando bellamente e consapevolmente che sono fondati sulle disuguaglianze, sulla corruzione, sui privilegi, sullo sfruttamento e sulla precarietà lavorativa. Siamo circuiti da un’idea di progresso aggiornata che, fra l’altro, come un rullo compressore s’impone con supponenza, devasta l’ambiente e non dimostra il minimo rispetto per esseri umani, animali, cose e natura.
Purtroppo non è una caratteristica solo nostrana. È così in tutto il mondo. In qualsiasi parte del globo i poteri costituiti, siano di destra o di sinistra, illuminati o oscurantisti, teocratici o liberali o laici, sono tutti impegnati ad inseguire questa folle corsa.
Tutti, in una maniera o nell’altra, sentono il bisogno di non rimanere indietro, di superare l’arretratezza economica inserendosi nei mercati, di costruire opere faraoniche di sicuro devastante impatto ambientale, di essere parte più o meno consistente della torta dei profitti finanziari, ovviamente creando sacche di povertà, arricchimenti personali di elite d’affari, imponendosi quando sono in grado con la forza di armi ad alto potere distruttivo, creando deserti, disboscamenti, cumuli d’immondizia e rompendo gli equilibri ecologici creatisi naturalmente in milioni di anni.
Esempio lampante ed estremamente calzante: la Cina. Ha conservato la struttura politica tecno-burocratica che il bolscevismo creò per imporre la ferrea dittatura del partito-stato sull’intera società sottoposta. Contemporaneamente si è liberata della fallimentare economia di piano, anch’essa tipica del bolscevismo, per abbracciare in toto l’economia del mercato capitalista. Ha così messo in piedi un capolavoro: la struttura dittatoriale di un potentissimo apparato tecno-burocratico che permette la dinamicità di un forsennato e devastante sviluppo economico, divenuto riferimento del capitalismo internazionale invece di tendere ad affossarlo com’era nelle finalità d’origine.
Il risultato, invidiato dal resto del mondo, è la messa in opera di una mostruosa macchina di oppressione e sfruttamento, dove non sono garantiti i più elementari diritti umani, dove frequentemente la repressione è sanguinaria e brutale, dove chi lavora riceve, quando li riceve, salari da fame, dove si è arricchita solo un’esigua minoranza e dove i livelli d’inquinamento prodotti sono allucinanti.

Problema non risolvibile

È una tendenza mondiale ed investe tutte le classi dirigenti, indipendentemente dall’estrazione politica di appartenenza, perché è insita nella logica stessa del dirigere e governare il presente stato di cose. Per questo anche in casa nostra il problema non sarà risolto, perché appunto non è risolvibile con le vigenti logiche di governo, neanche se a prendere il timone sarà il centro sinistra ulivista, com’è probabile secondo i sondaggi relativi alle prossime elezioni di aprile 2006.
I D’Alema, i Fassino, i Prodi, ecc., ce la metteranno senz’altro tutta. Ma per fare che cosa? Per risollevare, almeno nelle loro dichiarate buone intenzioni, le sorti di questo sistema che, dicono, rischia di andare in sfacelo. Non lo mettono in discussione, ce l’hanno detto e ribadito molte volte, bensì lo vogliono far funzionare al meglio. Se non erro, erano queste le stesse identiche intenzioni dichiarate dell’attuale “premier” Berlusconi.
Vogliono far ridiventare competitiva l’azienda Italia, in grado di essere sui mercati in modo efficiente e concorrenziale, cosicché gli affari tornino a funzionare a vele spiegate e possiamo finalmente diventare un “paese normale” (affermazione dalemiana). Forse tenteranno di togliere qualche tassa perché ne siamo oberati (anche questo non faceva forse parte del programma berlusconiano?), di rabberciare il mercato del lavoro per ridare più tranquillità e sicurezza ai cittadini, di favorire gl’investimenti e, per farci tutti felici e contenti, di farci consumare di più e far circolare più denaro. Chiedo soltanto in cosa queste intenzioni si distinguono da un qualsiasi altro programma di conduzione capitalista e liberista, se non in una dichiarata intenzione di un maggiore welfare (magari alla Blair, che in fondo appartiene all’internazionale socialista, anche se è facile dimenticarlo)?
Il fatto è che il sistema non va né migliorato né fatto funzionare, perché è proprio il suo funzionamento la causa prima dei disastri di cui stiamo parlando. Se veramente si vuole imboccare la strada per un benessere vero, il sistema vigente, imperante a livello globale, dovrebbe essere sovvertito.
Intendo una sovversione culturale, intellettuale, morale, artistica, poetica e politica, del funzionamento insomma delle società nel loro complesso. Non intendo necessariamente le barricate e lo scontro violento col bagno di sangue tradizionale, anche se diversi fatti, ultimi in ordine di tempo quelli della Val di Susa, fanno supporre che non sarà facile evitarlo. O perlomeno non bisognerebbe farsi prendere dal pallino di dover abbattere per forza il sistema con la violenza. Lo scontro che avverrà, se e quando avverrà, dovrà avvenire perché i poteri vigenti non demordono, non perché li attacchiamo militarmente.
Bisogna sovvertire i sistemi decisionali, non delegando più ai politici di professione il potere di decidere per tutti e prendendo direttamente in mano le sorti dei nostri destini con forme istituite di autogoverno.
Bisogna sovvertire il primato dell’economia intesa come ricerca spasmodica di profitti a qualsiasi costo, relegando la questione economica ad una questione che è indispensabile assieme ad altre, non prima e sopra tutte le altre com’è ora, per la conduzione regolata dell’esistenza collettiva.
Bisogna sovvertire la condizione strutturale del lavoro sottoposto agli interessi capitalisti delle elite economiche, ricreando situazioni in cui lavorare voglia dire innanzitutto contribuire al bene e al benessere collettivo, secondo una logica fondata sulla solidarietà e la reciprocità.
Bisogna sovvertire i metodi e le logiche dell’attuale sviluppo industriale, sostituendoli con scelte produttive e interventi che si integrino con l’ambiente e non alterino gli equilibri ecologici.
Bisogna sovvertire le strutture vigenti della convivenza, delle relazioni e delle interrelazioni sociali, per fare in modo che lo stare insieme sia regolato da presupposti di libertà, di solidarietà, di eguaglianza e di rispetto reciproco, non affrontando più i conflitti, che sempre sorgeranno, con esclusive logiche di vendetta, punizione e repressione, motivate dall’autoreferente uso legittimo della forza, ma col confronto e la comprensione per il recupero interno alla collettività, che di volta in volta dovrà essere in grado di gestire il da farsi.
Vien da chiedersi: «È possibile una tale sovversione?». Non solo è possibile, è addirittura auspicabile. La sua possibilità comincia dalla convinzione e dal desiderio di ritenerla possibile. Ma per una simile convinzione bisogna rifiutare l’immagine del mondo come si presenta e ridefinire un immaginario completamente nuovo, dove le istanze alternative cominciano a prendere forma e ad essere ipotizzate nel concreto.
Nulla nasce a caso né immediatamente e perfettamente fruibile. Ogni realtà prende forma attraverso l’esperienza e la sperimentazione. Così bisognerebbe cominciare a mettersi in gioco e a provare, mettendo in piedi e attivando luoghi e processi di autogestione e sperimentazione libertaria, in grado di far vivere l’alternativa fin da ora.

Costruire una nuova società

Senza dubbio questa è materia prediletta per gli anarchici, che a mio avviso dovrebbero farne il loro campo di battaglia privilegiato, in modo da riuscire a dare una coscienza di costruzione di una nuova società alle tante esperienze che spontaneamente continuano a sorgere, spinte e motivate dall’insoddisfazione del presente stato di cose.
Gli anarchici dovrebbero smettere di pensarsi e rappresentarsi soprattutto come movimento anarchico, quasi fosse un partito, mentre dovrebbero cominciare a sentirsi e ad essere anarchici in movimento, inseriti a pieno titolo in modo dinamico nei processi spontanei della trasformazione sociale.
Non dovrebbero più preoccuparsi di essere soprattutto riferimento della protesta e della contrapposizione antipotere, mentre dovrebbero diventarlo della costruzione e della sperimentazione del nuovo che si desidera avvenga. Proposte e proposte di soluzioni, non scontri e contrapposizioni, che fra l’altro, se le proposte avanzate sono effettivamente sovversive, portano poi di conseguenza sempre anche allo scontro. Le persone vogliono sapere innanzitutto cosa fare e come farlo prima di decidere di abbattere ciò che, nonostante tutto, già c’è.

Andrea Papi