Rivista Anarchica Online


sindacalismo

Sull’autorganizzazione
di Cosimo Scarinzi

 

La tendenza naturale sembra quella dell’eterorganizzazione. Eppure esistono limitate forme di autorganizzazione, che meritano rispetto e attenzione.


Mi è capitato sovente, nel corso degli ultimi anni, di riflettere su quanto mi diceva, in un assolato pomeriggio di fronte alla sede di Via Scaldasole a Milano, alcuni decenni addietro, un mio amico e compagno, operaio delle ferrovie e appassionato di filosofia, sull’autorganizzazione.
In estrema sintesi, sorridendo, mi faceva rilevare che un’effettiva pratica dell’autorganizzazione avrebbe comportato, per l’individuo medio, un accrescimento straordinario e, con ogni probabilità, fastidioso degli impegni connessi alla vita sociale: riunioni in azienda, nel caseggiato, nel quartiere, nella gestione della scuola, dell’ospedale e così via, con l’effetto di rendere desiderabile un modello sociale fondato sulla divisione dei compiti in base alle competenze e ai ruoli.
Naturalmente, allora, e resto oggi della medesima opinione, ribattevo che l’autorganizzazione non è un modellino applicabile a prescindere dal contesto sociale e che, per un verso, l’autogoverno dei produttori associati è ipotizzabile solo in una società postrivoluzionaria e, per l’altro, la tendenza all’autorganizzazione nell’ambito di una società come l’attuale può, provvisoriamente, affermarsi solo sulla base dello sviluppo di movimenti di lotta di notevolissima rilevanza.
In altri termini, la pratica dell’autorganizzazione non è, a mio avviso, un dovere morale al quale conformarsi, ma un modo di porsi che risponde a un effettivo interesse rispetto alle attività che si autorganizzano, al percepire l’autorganizzazione come liberazione da un’oppressione e come affermazione di sé stessi in quanto soggetti liberi e forti.
Sarebbe, infatti, sicuramente singolare pensare che si possano condurre in maniera autorganizzata le attuali aziende, gli uffici o i servizi sociali in presenza del potere statale e del funzionamento dei rapporti di produzione capitalistici. È evidente, a mio avviso, che le relazioni sociali di produzione che caratterizzano l’ordinamento capitalistico e statale non possono prevedere una qualsivoglia forma di autogestione, a meno di non immaginare banche, carceri e caserme autogestite.

Liberare tempo e energia

Vi sono ragioni sostanziali per pensare che una società radicalmente trasformata non possa che prevedere l’abolizione o, quantomeno, la ridefinizione delle attuali attività produttive ed amministrative (le quali hanno un senso solo in questo tipo di società) per liberare tempo ed energia da dedicare al pieno sviluppo intellettuale e fisico degli esseri umani.
Tornando all’oggi, l’individuo sociale che si sviluppa nell’ambito degli attuali rapporti di produzione e di potere è naturalmente portato a pensare e a praticare la propria attività individuale e collettiva tenendosi alla pratica dell’eterorganizzazione, alla quale si sottrae parzialmente, di norma, solo nella sfera delle relazioni immediate fra individui che conducono attività comuni nel tempo libero o, in alcuni casi, nell’esercizio di attività d’immediato interesse; basta pensare, a questo proposito, all’acquisto collettivo di beni o a forme di reciproco sostegno legate sovente a reti di relazioni familiari o locali.
Naturalmente, anche le attuali e limitate forme d’autorganizzazione praticate meritano rispetto e attenzione, e possono essere considerate, se non una prefigurazione di relazioni sociali superiori, almeno un terreno d’interessante sperimentazione di relazioni non gerarchiche.
Vi era però, almeno a mio avviso, nella critica ai miti dell’autorganizzazione che il mio amico conduceva nei miei confronti, un’implicazione un po’ diversa rispetto a quella che ho provato, poveramente, a definire.
Uscivamo allora, infatti, da una fase lunga di movimento “antiburocratico”, di culto della “democrazia assembleare”, di occupazione della vita quotidiana da parte della militanza politica per ampi settori della mia e sua generazione.
Il crearsi, nel corso del maggio rampante italiano, di una generazione politica che aveva elaborato una critica radicale della politica come attività specialistica, aveva determinato una sorta di furore moralista con un corollario, a volte divertente, a volte fastidioso, di affermazioni del tipo “il personale è politico” ecc….
Il trucco, senza togliere alcunché alla generosità di quell’avventura e senza alcun rinnegamento, c’era e si sarebbe visto. Quel modello di vita e di militanza era possibile solo in una fase di crisi profonda dell’ordinamento sociale dominante, e coinvolgeva in primo luogo e, per certi versi, quasi esclusivamente giovani con a disposizione molte energie e molto tempo libero.
Col rifluire dei movimenti degli anni ’70, il privato, inteso, in primo luogo, come necessità di garantirsi reddito ma anche come ripiegamento rispetto a pratiche collettive sovente totalizzanti ha ripreso il suo spazio. Naturalmente, a livello di grande astrazione, il privato è sempre politico ma lo è solo indirettamente e in forma, di regola, individuale.
Inevitabilmente, ogni riflessione sull’autorganizzazione deve fare i conti con questo dato di realtà e, soprattutto, lo deve fare la militanza politica che non può assumere la tensione all’autorganizzazione come un a priori ma, al contrario deve porla come prospettiva alla quale tendere e come momento alto del conflitto sociale da valorizzare.


Orgogliosamente individualisti

L’esperienza quotidiana ci mostra, infatti, che i soggetti sociali subalterni producono autorganizzazione non sulla base di convincimenti precedenti all’azione ma a partire da pratiche che sono immediatamente di rottura con gli equilibri precedenti. Scioperi selvaggi, forme di disobbedienza civile, mobilitazioni di massa sono i contesti nei quali la critica pratica alla gerarchia si afferma. E questa critica pratica è l’occasione privilegiata per dare forza e visibilità alla critica libertaria della strutturazione gerarchica delle relazioni sociali.
Vi è, infine, un aspetto della questione che merita un supplemento di riflessione. È, a mio avviso, assolutamente sbagliato porre la proposta anarchica come un’apologia del potere delle assemblee e della cosiddetta democrazia diretta.
Certamente la decisione assembleare è un momento importante del conflitto ma è assolutamente evidente che si tratta di sedi nelle quali possono affermarsi relazioni di potere fondate sul carisma di leader formali ed informali, sul potere di una maggioranza, sulla manipolazione della volontà collettiva.
Giova a questo proposito ricordare che, dal punto di vista metodologico, anche, e soprattutto, gli anarchici di orientamento classista e comunista, come colui che scrive queste note, sono orgogliosamente individualisti nel senso proprio del termine, vale a dire nel senso della difesa della libertà del singolo anche a fronte della deliberazione assembleare, dell’attenzione alle regole del gioco, della difesa di condizioni che permettano una deliberazione effettivamente consapevole e condivisa.
La dimensione collettiva è effettivamente tale, dal nostro punto di vista, solo nella misura in cui favorisce l’affermazione della pluralità delle esperienze e di personalità autonome.
Una scommessa complessa, lo ammetto, visto che l’accelerazione della prassi che è determinata dall’acuirsi del conflitto sociale tende a togliere spazio alla riflessione razionale e che vi è nell’azione conflittuale una dimensione emotiva e passionale da non sottovalutarsi ma una scommessa che non può essere elusa se riteniamo effettivamente significativa una proposta comunista e libertaria i cui due termini non si neghino a vicenda.

Cosimo Scarinzi