Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Il business della creatività

 

In che consista la creatività dell’individuo già si sa pochino, o niente del tutto. Figuriamoci se l’oggetto del contendere è, invece, la creatività collettiva – la creatività dei gruppi, degli insiemi, delle conventicole, delle squadre –, un’entità destinata per definizione a vagare nell’aura mistica.
M’imbatto ne L’emozione e la regola di Domenico De Masi, fresco di nuova edizione, e mi rendo conto che, così come si può vendere l’aria di Napoli in scatola o il Colosseo, si può vendere la creatività collettiva – non ai turisti, in questo caso, ma a manager, amministratori delegati, direttori e presidenti, ovvero agli ignorantissimi ducetti dell’economia e del mercato.
Dopo aver buttato lì alcune amenità storicizzanti, nel tentativo di “giustificare” l’argomento – Freud avrebbe affrancato la psicologia dalla filosofia, per esempio, così come Mach avrebbe districato la filosofia dal positivismo –, elenca tutta una serie di soluzioni che, nel primo novecento e oltre, avrebbero caratterizzato l’azione illuminata di chi ha formato e guidato gruppi “creativi”. Fra queste, ci sarebbe la ricerca frequente di un ambiente fisico accogliente, bello, dignitoso, funzionale, dove lavorare (mai visto nessuno cercar topaie dove ricavare il meglio da sé e dagli altri); la flessibilità degli orari, ma anche la capacità di sincronismo e di puntualità; l’interdisciplinarità e la forte complementarità culturale di tutti i membri chiamati a partecipare dell’impresa; la destrezza nel concentrare le energie di ciascuno sull’obiettivo comune; la capacità di cogliere tempestivamente le occasioni, di calibrare la dimensione del gruppo in base al compito, di reperire le risorse e la capacità di contemperare la natura affettiva con quella professionale in modo da consentire un facile interscambio di ruoli e funzioni fermo restando, ovviamente, il ruolo di preminenza del leader-fondatore che, col cavolo, è pronto al “facile interscambio” quando si tratta della propria poltrona.
Ovvietà. Ma, con queste ovvietà alla mano, per risultare più convincente, De Masi parte all’analisi dei casi, che, altrettanto ovviamente, di solito sono scelti con oculatezza, ovvero tenendo quelli che dovrebbero confermarne gli assunti di base e scartando quelli che li smentiscono. Invece, anche qui, frana. Analizza tutti casi già analizzati da altri, usa letteratura consolidata – poco male se ci cavasse qualcosa di sensato –, ma riesce ugualmente a sceglierne qualcuno da cui avrebbe fatto meglio a stare alla larga. Per esempio, Los Alamos.
A Los Alamos, durante la seconda guerra mondiale, si è svolta gran parte della fase conclusiva necessaria alla costruzione della bomba atomica. E lì, dove il De Masi storico ci va giù con l’accetta – mettendo nel mucchio perfino Paul Dirac (che rifiutò di unirsi al progetto Manhattan), Edoardo Amaldi (che rimase in Italia fondando, nel 1945, il Centro di Studio per la fisica nucleare dell’Università di Roma) e addirittura Franco Rasetti (che, notoriamente, fece la scelta non facile di rinunciare alla fisica pur di non rischiare di esserci a Los Alamos) –, il De Masi socio-ingegnere individua quelle “modalità informali” che avrebbero portato al successo l’intero progetto: uno stile di leadership partecipativo, l’alta cooperazione e la partecipazione ai processi decisionali, il clima di lavoro stimolante, flessibile e affiatato nonché il fatto che il potere all’interno della comunità scientifica fosse attribuito non gerarchicamente, ma per autorevolezza professionale e personale. Tutte cose che, basta leggere L’invenzione della bomba atomica di Rhodes, documenti alla mano si rivelano come pie illusioni. Parecchi furono i problemi sorti fra esercito e marina, il comando dei militari non fu mai pienamente digerito dai borghesi, i litigi tra fisici furono numerosi, tanto è vero che, tra frustrazioni e rancori, si dovette procedere a scambi di posti e ad allontanamenti, il posto faceva letteralmente schifo a chi ci lavorava e alle proprie famiglie, i ritmi di lavoro furono massacranti e i servizi segreti facevano ossessivamente la loro parte (tenendo sotto controllo Oppenheimer perché ex comunista e chiedendo perfino l’arresto di Bohr perché, secondo loro, era in combutta coi russi, mentre di una spia interna al gruppo non si accorsero). Il risultato, ahinoi, arrivò, ma ad un prezzo stratosfericamente alto. Pur nell’incertezza di scienza e tecnologia – perché erano in tanti a non crederci affatto –, pur nell’impotenza del controllo politico, mai furono utilizzate tante risorse per un solo obiettivo.
A Los Alamos si fece dunque un lavoro sporco, in tutti i sensi, e, nonostante il numero dei rompicapo risolto dai singoli partecipanti all’impresa, ci vuole davvero del coraggio per idealizzarlo portandolo a modello di come dovrebbero andare le cose al mondo. O, più che del coraggio, ci vuole del pelo sullo stomaco. Quasi quanto di quello che è occorso per andarci, a Los Alamos. D’altronde, non è che servendo i ducetti dell’economia si lavori poco alla distruzione del pianeta.

Felice Accame

P.s.: Un interessante caso di auto-creatività è costituito dall’’autore del libro. Nel libro in cui si dà gran rilevanza alla creatività collettiva, il collettivo che l’ha scritto è sacrificato all’unico nome di uno di loro. La firma è De Masi, ma, all’interno – nemmeno nell’Indice –, sono rinvenibili i nomi di Maria Rita Palumbo, Paolo Gentile, Patrizia Cinti, Susanna Lupi, Emma Gori, Massimo Meniconi, Dunia Pepe, Fabrizio Caristi, Roberto Palermo, Giancarlo Buzzanca, Gilda Morelli, Gabriella Natoli, Giovanna Spagnolo, oltre che a quello del De Masi in questione.

P.p.s.: Si dovrebbe star sempre alla larga dai titoli a calco. Così come Ultimo tango a Zagarolo non è Ultimo tango a Parigi, L’emozione e la regola non è L’eccezione e la regola.

P.p.p.s.: L’emozione e la regola, Rizzoli, Milano 2005 è la nuova versione del libro pubblicato da Laterza, Roma-Bari 1989. Anche il libro di Richard Rhodes è fresco di ristampa. Cfr. L’invenzione della bomba atomica, Rizzoli, Milano 1990 e 2005.